Ritratto 15 / Levi umorista

31 Luglio 2019

Primo Levi che sorride. L’ha colto con il suo obiettivo fotografico Paola Agosti nel settembre del 1977 a Canale d’Alba. Una bella foto. Non sono molte le immagini che ritraggono Levi sorridente. Basta cercare nel web per accorgersi che prevalgono quelle che lo ritraggono serio o riflessivo, se non proprio corrucciato, come se a lui fosse toccato in sorte il destino di assumere l’eterno ruolo del testimone dell’Olocausto, parola che Levi non usava quasi mai, così come non utilizzava Shoah. Un destino che lo ha inchiodato a uno stereotipo. Però come in tutti gli stereotipi qualcosa di vero c’è. Levi è stato il testimone dello sterminio ebraico, e non solo, perché i nazisti hanno mandato a morte milioni di persone ad Auschwitz e negli altri campi della morte insieme agli ebrei: omosessuali, rom, russi, slavi, oppositori politici di innumerevoli paesi e nazioni. Tuttavia Levi non era solo seriosissimo, sapeva anche sorridere e ridere. Era spiritoso e amava l’umorismo. Quando è morto nel suo ricordo sul quotidiano torinese “La Stampa” Massimo Mila, musicologo, come lui amante della montagna, ha scritto: “Parrà una enormità, ma se mi chiedessero di definire con una sola parola lo scrittore, direi che era un umorista”.

 

La definizione di Mila ha fatto fatica a imporsi per via della tragica morte, e per il portato di dolore che la sua testimonianza recava con sé. Del resto, Levi stesso aveva detto che se c’era una cosa su cui gli esseri umani potevano fondarsi non era certo il Cogito, ergo sum di Cartesio, ovvero la ragione umana, bensì il dolore che ogni creatura sperimenta nella propria esistenza. L’aveva scritto in un racconto in cui un cavadenti dà le proprie istruzioni testamentarie al figlio (Un testamento), un testo che fa riflettere per la sua sensibilità, intelligenza e capacità di sintetizzare in forma narrativa lunghi e complicati discorsi sul dolore medesimo. Levi era anche un umorista. Il primo ad accorgersene non è stato Mila, che pure l’ha scritto il giorno dopo la sua morte, bensì Italo Calvino. In una lettera del novembre del 1961, in cui dà a Levi il suo parere sui racconti che poi usciranno cinque anni dopo nel libro Storie naturali. Tra le varie cose che Calvino dice al riguardo dei racconti, che Primo gli ha dato in lettura, c’è anche l’umorismo, e lo mette insieme al garbo. Una lettera di grande acutezza critica, che sarà molto utile a Levi negli anni seguenti per orientarlo nella scrittura. Nello specifico Calvino si riferisce a un racconto che ha per protagonista una tenia e un assiriologo che riesce a decifrarne il messaggio segreto, e anche alla storia del centauro, un testo basilare per la comprensione dello scrittore e dell’uomo Levi.

 

Calvino lo reputava un vero scrittore, e questo sin dal suo esordio con Se questo è un uomo, che aveva recensito nel 1948 su “L’Unità”. Parlando il giorno stesso della lettera inviata a Primo agli altri einaudiani riuniti nel rituale incontro del mercoledì, Calvino riferisce di aver letto i racconti di Levi, ma che il libro ancora non c’è. L’avverbio “ancora” indica che se non c’è, però ci sarà. Calvino fa capire di essere ottimista, e quando il libro ci sarà ne riferirà al consiglio editoriale. Dovranno passare vari anni e, per quanto uscito inizialmente con lo pseudonimo Damiano Malabaila e non con il suo vero nome, il libro rompe decisamente con la sua identità di testimone. All’epoca è il testimone antifascista per eccellenza, poi diventerà, nonostante lui, il testimone della Shoah, e a questo resterà fissato per almeno un trentennio. L’umorismo è una chiave importante per capire la sua opera. Non è solo nei racconti che fa sorridere e a volte persino ridere. Anche in Se questo è un uomo ci sono momenti così, pochi, ma ci sono. Il suo umorismo è particolare; somiglia a quello di uno dei suoi maestri, Alessandro Manzoni, ammirato ma anche criticato a proposito dei gesti di Renzo in un articolo, come si usa con i maestri.

 

Un umorismo sottile, non perché da intellettuale, ma perché innervato da quella pietas che per Manzoni ha a che fare con il credo religioso, mentre per Levi è parte del proprio bagaglio di ebreo laico, quindi disposto a ridere degli altri e di sé stesso. Umorismo ebraico? Sì, ma non è solo quello. C’è in Levi una forma di empatia che gli permette di intuire cosa accade nella testa degli altri e questi altri, per lui e per noi lettori, sono i suoi personaggi, creature autonome, come si renderà conto quando scriverà il suo unico romanzo, Se non ora, quando?, in grado di muoversi e agire quasi in modo indipendente dall’autore. In quell’articolo di congedo Mila, amante delle montagne che scalava e di cui scriveva con perizia, lo descrive così: “Cortese, affabile; ma con quel fisico magro, con quella barbetta scattante, con quegli occhietti vivaci, aveva qualcosa del camoscio, un animale che ispira tanta simpatia, ma che si lascia avvicinare poco”. Sembra un perfetto commento per questa bella fotografia di Paola Agosti: il camoscio Primo Levi che sorride.

 

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