John Berger / Motoberger

24 Febbraio 2019

Ho conosciuto John Berger nel 2004 o giù di lì. Passai due indimenticabili giorni a casa sua a Quincy, parlando ininterrottamente – e alternativamente – del progetto di un film e del senso del mondo. Quando venne l’ora di partire, John mi chiese di aiutare sua moglie Beverly a portare l’auto dal meccanico, perché lui doveva andare a trovare Katya, la figlia, a Ginevra. “Nessun problema”, dissi, mentre ci preparavamo tutti a partire. Fu a quel punto che compresi che per John “andare a Ginevra” significava tirar fuori una motocicletta che a me sembrò enorme (oggi, grazie a questo volume, scopro che si trattava di una Honda “Blackbird”), infilarsi una tuta in pelle e schizzare verso la città svizzera, distante una mezzoretta, affrontando il freddo della stagione. Eravamo a gennaio, intorno a noi i campi della Savoia erano coperti di neve. A questo aggiungete il fatto che John, in quel momento, aveva ormai 78 anni. Perché, invece di prendere un comodo treno come avrebbe fatto qualsiasi suo coetaneo, John Berger sfidava il buon senso saltando in sella a quella moto? Ci doveva essere dietro una passione sconfinata, a me incomprensibile (mai avuto interesse per i mezzi meccanici, io…), ma ben chiara a Beverly, che mi sorrise con aria complice. L’ultima immagine di quelle giornate fu proprio John, irriconoscibile sotto il casco, che partiva rombando verso la Svizzera.

 

Non è dunque per capriccio intellettuale che l’instancabile Maria Nadotti (traduttrice, amica e in qualche modo oggi “esecutrice testamentaria” di Berger) ci offre adesso questa raccolta di scritti che hanno a che fare con la motocicletta. Tutto quello che John Berger ha fatto o conosciuto nella sua vita ha in qualche modo stimolato una riflessione più profonda: anzi, il suo straordinario talento di scrittore ha proprio a che fare con la capacità di connettere fatti quotidiani e apparentemente effimeri con il senso più nascosto delle cose. Nel caso specifico, ecco la formidabile metaforizzazione della guida in motocicletta come storia d’amore, fisica e sensuale, tra il centauro e la strada: “Non appena vi siete innamorati, esiste il pericolo di essere traditi. Se dovesse succedere, a perdere è sempre il pilota.

 

 

Un errore di calcolo, un falso movimento, un difetto di immaginazione e si cade a terra. Non tra le braccia dell’amata strada, ma sul duro suolo”. Oppure, l’intuizione meravigliosa che il tracciato idealmente composto dal motociclista sulla strada ha a che fare con la pratica del disegno: entrambe le attività producono “il contorno di ciò che è estensivo”; per cui, conclude, l’autore “Siete in sella a un disegno”… Altrove Berger attinge alla sua esperienza personale di centauro per raccontare il mondo sensoriale che si crea andando su due ruote, quando il frastuono del motore si annulla e si trasforma nel puro fruscio dell’aria tagliata dal dinamismo della velocità. O, infine, la metafora centrale dell’andare in motocicletta, così diverso dal viaggiare in automobile: il fatto che senza velocità la motocicletta non si regge in equilibrio, e che quindi l’interazione tra pilota e macchina diventa il senso stesso dell’esperienza. “Pilota e veicolo a due ruote formano una singola unità, la cui disposizione interiore, la cui capacità di autoregolazione, si collega al principio dell’inerzia in fisica”. Da cui il paradosso – così spettacolare agli occhi e miracoloso alla ragione – per cui, per stare in piedi, un pilota in curva deve inclinarsi quasi fino a terra.

 

Al di là dei pensieri e delle rivelazioni che si possono leggere nelle sue pagine, questo piccolo libro – a due anni dalla morte di Berger – rappresenta un modello, un itinerario per non disperdere l’enorme e frammentata opera del suo autore. Esistono percorsi, dentro il corpus bergeriano, che hanno ancora necessità di essere scandagliati e scoperti. In vita, molti dei suoi saggi sono comparsi sotto forma di raccolta, dopo essere stati pubblicati dispersivamente nel tempo e nello spazio, e oggi l’eredità di uno degli intellettuali più importanti degli ultimi cinquanta anni è ancora lì, pronta per essere riconsiderata, riletta, studiata, risistemizzata. Maria Nadotti racconta nella sua postfazione che “nel pensare e organizzare queste pagine mi è capitato spesso di sorridere. Continuavo a cogliere delle minuscole coincidenze, come se alcune tessere finora spaiate andassero di colpo a incastrarsi”.

 

Verrebbe da dire che il lavoro di John Berger è come il mondo che lui attraversava in motocicletta, scoprendone la natura man mano che costruiva un itinerario. Da questo punto di vista è rivelatore che, insieme ai testi originali di Berger, Sulla motocicletta presenti altrettanti contributi di persone che hanno conosciuto lo scrittore. Sono semplici ricordi personali di viaggi e di incontri, saggi sul suo rapporto con la motocicletta, interpretazioni del suo lavoro. Berger è stato anche questo: uno straordinario punto di attrazione per donne e uomini di tutto il pianeta. Essere amici o conoscenti di John ti faceva sentire parte di una comunità fatta di estranei che però si sentivano di condividere più cose che con i propri vicini di casa. Nella sua storia, che ha legato l’aspetto privato a quello pubblico in modo inimitabile, Berger ha costituito il punto di intersezione di un’umanità fatta di persone comuni, artisti, intellettuali che a Quincy si ritrovavano tutti sullo stesso piano. La stessa umanità che si vide al suo funerale: Tilda Swinton in mezzo ai contadini, e gente da ogni parte del mondo venuta a condividere l’ultimo saluto all’amico ma anche a sentirsi parte di un movimento spontaneo e genuino che – in assenza dell’uomo – oggi mantiene vitale il rapporto con la sua opera. 

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