P. M. A. Cywiński, Non c’è una fine. / Trasmettere la memoria di Auschwitz

10 Gennaio 2017

A oltre quindici anni dalla legge istitutiva del Giorno della memoria la nostra conoscenza di cosa diciamo quando diciamo Auschwitz si fa sempre più ampia, anche per il grande numero di ricerche, pubblicazioni e riflessioni sul tema; allo stesso tempo più aumenta la conoscenza della galassia che ruota attorno ad esso – per profondità, vastità, dettagli – più si staglia nitida dallo sfondo la domanda che, in qualche modo, il libro di Piotr Cywiński pone con pacata urgenza. Che significato ha questa memoria, quando ci attraversa, e soprattutto, come la usiamo?

Non c’è una fine è stato scritto del direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz-Birkenau (in carica dal 2006), edito nel 2012 in polacco e inglese con il titolo Epitafium / Epitaph, ora in italiano per i tipi di Bollati Boringhieri, con cura, postfazione e traduzione di Carlo Greppi (dall'inglese e riscontri dal polacco). Ed è la meditazione, sempre aperta e a tratti dolente, di un quarantenne, che da dieci anni dirige il museo più difficile del mondo.

 

Delle tanti antifrasi che Auschwitz porta in sé, con il rovesciamento dei significati della vita e dell'umanità nei suoi opposti, c'è anche questo: un museo che non può essere musealizzato, nella misura in cui la musealizzazione coincide con la separazione dal tessuto vivo delle comunità e della civiltà culturali che in esse si radicano. Auschwitz è un posto che «non può essere coperto con la terra», «non può essere rinchiuso nella museologia classica», «non può essere normalizzato o pacificato», «deve gridare». Questo perché è un luogo di storia che è anche un simbolo potentissimo per il dolore, la morte e la resistenza che lì sono accadute e il cui ricordo continuiamo a cercarvi.

 

 

Il punto di vista di Cywiński, non tanto per le sue convinzioni e credenze – Cywiński è dichiaratamente cattolico – quanto per il lavoro che svolge e la direzione che ha impresso con il suo mandato, è particolarmente interessante per cogliere nella dimensione materiale e concreta i tanti significati che il luogo ospita. Tra Auschwitz e la Shoah non vi è coincidenza perfetta, in quanto la Shoah non è solo Auschwitz e questo non è solo la Shoah. Ma in qualche modo il Memorial and Museum Auschwitz-Birkenau Former German Nazi Concentration and Extermination Camp di Oświęcim – i nomi sono importanti – si è ritrovato, per il bisogno di economia cognitiva che è della nostra mente, a essere la pars pro toto di qualcosa di estremamente complesso, per non usare altre iperboli che lo allontanano dalla comprensione e lo inseriscono nella sfera del mistico (intendo di quello che non si può esprimere pienamente).

 

«Oggi Auschwitz sta iniziando a simboleggiare tutta la Shoah. Il simbolo di così tanti luoghi, a partire dai villaggi bielorussi, ucraini e della Polonia orientale d’anteguerra, dove gli ebrei venivano fucilati in massa già nella seconda metà del 1941, passando per le fosse comuni dell’Est, fino all’intero sistema concentrazionario, dove venivano inviati i trasporti di ebrei che, prima delle morti programmate, venivano sfruttati con il lavoro schiavo. Ma anche dove arrivavano i trasporti da molti altri paesi, specialmente slavi». Qualcosa di complesso e plurale che dopo una storia della memoria pluridecennale acquisisce sulla distanza e in ottica globale configurazioni sempre più articolate.

«Non c’è una sola Auschwitz. Non c’è una sola memoria. C’è invece una Auschwitz distinta per gli ebrei, i polacchi, i prigionieri di guerra e i rom. C’è una Auschwitz per le donne e i bambini, una Auschwitz per i padri e le coppie sposate. C’è una Auschwitz profondamente religiosa, in cerca di Dio, che a Lui pone la domanda più difficile, ma c’è anche una Auschwitz per gli atei, che in essa vedono la prova della propria fede nell’inesistenza di Dio. E infine c’è una Auschwitz europea, umanistica, globalizzata, posata, ufficialmente un sito del patrimonio dell’umanità dell’UNESCO, l’origine prima della comunità europea del dopoguerra. Auschwitz ha molte facce, ma in ciascuna di esse si può trovare la stessa impotenza». 

Tra le tante, una chiave di ingresso nel libro è la storia stessa del sito memoriale, a cui di solito la memoria pubblica è meno attenta: si tratta anche di una problematizzazione del rapporto con il passato che affronta il tema dell'archeologia e del restauro. È il 1979 quando l'UNESCO inserisce l’ex campo di concentramento nella lista dei patrimoni dell’umanità, in nome di una «dimensione del tutto diversa» rispetto agli altri siti protetti, il che determina di fatto che «Auschwitz avrebbe dovuto rappresentare da solo tutti i luoghi della Shoah». «Ancora oggi non sono sicuro di sapere cosa significhi davvero», scrive Cywiński, ma «Auschwitz è come una lente, un prisma attraverso il quale si possono vedere anche storie molto diverse. Luoghi diversi, gente diversa, un mondo diverso».

 

 

Da direttore, una delle cui doti più apprezzabili è la franchezza, dopo decenni di specializzazione afferma con un certo disincanto che «su questi temi nessuno raggiunge mai il pieno discernimento e la piena comprensione. È una corsa che non finisce mai». 

Il suo punto di vista è quello di chi vive, con gli altri operatori del sito, la vita quotidiana del posto, avendo con esso «un contatto costante, profondo, quasi intimo»: «noi vediamo Auschwitz giorno dopo giorno, nella neve, alla luce del sole, nella foschia del mattino, appena prima delle vacanze, nel giorno del tuo compleanno, subito dopo la nascita di tuo figlio o al ritorno del funerale di qualcuno a noi caro». Un posto, come altri siti concentrazionari, che assurdamente è collocato in paesaggi naturali molto belli, il che aumenta la collisione tra la storia e la natura e sconcerta molti, a cui è capitato di vedere qui un tramonto mozzafiato e di incrociare con la vista animali selvatici tra i reticolati: «in primavera, in questo luogo di morte, in cui nessuno se lo aspetterebbe, nonostante tutto la natura si risveglia sprezzante, piena di gioia e splendore. Di mattina dalla foresta dietro i crematori escono verso i prati animali selvatici». Cervi, volpi e lepri, fagiani, pernici. Cicogne.

 

Dirigere quel non-museo in un posto in cui anche la bellezza della natura sembra fuori luogo e ti confonde significa che difficilmente quando torni a casa ti chiedono “come è andata al lavoro?”.

O la delicatezza di scegliere il momento giusto in cui spiegare a tua figlia piccola il lavoro che fai e di cosa parla ininterrottamente tutta la gente che frequenti da sempre. E affrontare ogni questione che si presenta con un surplus di problematicità e di profondità abissale, che non può essere mai trascurata per la sensibilità dei tanti soggetti coinvolti.

Come decidere cosa fare dei capelli umani conservati nelle teche dell'esposizione storica, sapendoli destinati alla consunzione e a deperimento, per infine valutare, tra le tante opzioni possibili, di non toccarli e basta. Oppure come gestire il filo spinato, che invece va sostituito man mano che si arrugginisce e rimesso lì dov'era, dove lo avevano voluto i nazisti, perché altrimenti con i soli pali infissi si perderebbe il disegno della muta testimonianza che attestano.

«Auschwitz sommerge. In tutti i sensi. Una persona giovane vorrebbe distinguersi nella sfida, in quello che deve fare, in ciò che lo aspetta. Ma non ci si può distinguere nella sfida di Auschwitz. Non si può essere all’altezza. […] È difficile gestire qualcosa che non si potrà mai capire del tutto».

 

Un'altra chiave di ingresso è il presente dei moltissimi che vengono a cercare qualcosa nella visita, con motivi e in circostanze diversi – istituzionali, scolastici, privati – seguendo tracce personali, anche vaghe e confuse, per capire come abitare il mondo di oggi guardando all'Europa di ieri.

Anche in questo caso la risposta dell'autore sta in una scelta museografica ed editoriale, come aver scelto come simbolo del sito memoriale gli occhi di Zeilek, un bambino di nove anni proveniente dal ghetto di Berehove (tra Ucraina, Slovacchia e Ungheria), ritratto nell'estate 1944 poco prima della sua morte all'arrivo a Birkenau.

«È incredibile quanto sia profondamente radicato il bisogno di sfuggire allo sguardo naturale della vittima. Come prima cosa, al posto dell’essere umano, sono stati proposti oggetti simbolici, filo spinato, valigie, camini. Poi, quando ho trovato lo sguardo, sono stati fatti tutti gli sforzi possibili per distorcerlo, per travestirlo in una forma più grafica e artistica. Per abbellirlo e allo stesso tempo disumanizzarlo. Finii di preparare il logo io stesso e non distorsi in alcun modo lo sguardo di quel ragazzo che non sarebbe mai diventato adulto».

 

 

Nell'inserzione di passato e presente sono le persone la cosa più importante «di cui Auschwitz parla. [...] Auschwitz è l’umanità e questo ci spaventa; perciò ci rifugiamo in oggetti, edifici, simboli disumanizzati». Il sito memoriale riceve ogni anno fino a diecimila richieste di informazioni circa «il destino di persone specifiche» e risponde a tutte, anche se nella maggior parte dei casi la risposta deve dichiarare che negli archivi salvatisi dalla sistematica distruzione attuata dalle SS «non è sopravvissuta nessuna informazione». Le lettere sono firmate personalmente, come atto quotidiano consapevole e testimoniale di unicità e concretezza, nel rispetto di individui concreti e unici: «questa dose di concretezza mi impedisce di “pulire via” con noncuranza oppure di scoppiare a piangere all'improvviso quando ti imbatti nelle tracce di una persona in una eccezionalmente vasta litania di numeri». 

Oltre al rifiuto della disumanizzazione e della spersonalizzazione, che faceva parte del Lager, è anche una forma di autodifesa rispetto alla forza che la narrazione di sé fa quel luogo. Che Cywiński scrive con la L maiuscola, in forza del campo gravitazionale che esso genera. Centocinquanta edifici, trecento rovine, oltre centomila scarpe, chilometri di recinzione di filo spinato e «la finestra del mio ufficio si affaccia sulla strada che costeggia il crematorio».

 

Se ovunque la comprensibilità è un valore, qui lo è a maggior ragione. Così il minimalismo e il silenzio. Anche come precondizioni per l'empatia, una delle vie suggerite per la comprensione del posto, ma non in modo semplicistico. In un lucido excursus, Cywiński confessa i suoi dubbi sul modello pedagogico implicito, ad esempio, nella figura di Anna Frank, spesso usata come unico strumento pedagogico: «il teenager di oggi si deve identificare con una persona che è innocente (il che non è un problema), ma anche con qualcuno che non ha avuto una chance, è destinato a morire, che non può essere salvato neanche dai famigliari più stretti, qualcuno che percepisce la minaccia come invisibile, sconosciuta e decisamente esterna». Sarebbe forse più indicata l'identificazione con la «vergogna in un diario di un teenager ariano, mentre osserva la tragedia degli ebrei e non prova nemmeno a lanciare un tozzo di pane al di là del muro del ghetto». Per questo un luogo importante del campo, da vedere e da cui guardare, sono le torrette di guardia: luogo a parte in quel luogo altro, «un “mondo a sé stante”» dove ci sono «un riflettore, la sirena del campo e un fucile a portata di mano».

 

Non c’è una fine è un libro sulla memoria che ha il presente come interesse centrale: così il revisionismo storico, il negazionismo e l'abuso pubblico della storia (che hanno il sistema concentrazionario al loro centro) sono visti come il sintomo dell'infezione politica del nostro tempo, il populismo, «ben più pericoloso» dello sfregio alla storia che rappresentano. Perché sono qualcosa che «le strade vogliono sentire». Il senso di insegnare, trasmettere, divulgare la storia e la memoria di Auschwitz sta nel nesso tra compassione, comprensione ed empatia e deve avere riguardo per ciò che ha a che fare con la dignità e il ristabilimento della fiducia nell'umanità, dopo Auschwitz. 

«Nella Shoah l'Europa perse se stessa» e in particolare «il suo diritto di credere in quello che fino ad allora aveva altamente rappresentato: la forza della moralità religiosa, l'umanesimo illuminista, i valori delle costituzioni scritte e della democrazia così come i dogmi del Positivismo». Per questo «critichiamo il velo di silenzio che ci fu durante la Seconda guerra mondiale. […] E così, tra cinquant’anni, persone come noi lasceranno musei dedicati a cosa accadde in Darfur o in Corea del Nord con le lacrime agli occhi, maledicendoci per il nostro silenzio. [...] E oggi il nostro silenzio è decisamente peggiore, molto più incriminante. Perché viviamo in un mondo in cui abbiamo accesso a informazioni aggiornate e abbiamo gli strumenti per reagire a un livello e con una facilità decisamente senza precedenti nella storia dell’umanità».

 

Il libro è scritto nel 2012, prima della crisi “dei migranti” e di altre crisi, come la guerra in Siria, in cui nuovamente l'Europa ha mostrato di essersi persa, nuovamente. Cywiński lascia al lettore più domande che risposte, niente di facile o consolatorio: non una fine dunque, se non che dopo una visita ad Auschwitz, e un incontro con ciò che significa, può iniziare qualcosa.

 

Questa sera al Memoriale della Shoah (Piazza Edmond Safra 1, Milano) Piotr M.A. Cywiński, direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz-Birkenau, presenta Non c'è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz. Intervengono Helena Janeczek, Gadi Luzzatto Voghera e Carlo Greppi.

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