Lacan, come Jung, si è sbagliato / Muriel Drazien lettrice di Joyce e Lacan
Il libro di Muriel Drazien Lacan lettore di Joyce, per Portaparole, è un testo denso e complesso sull'opera di James Joyce e sulla lettura che Jaques Lacan fa di Joyce. Si tratta dell'incontro tra i due autori più criptici e difficili del Novecento. Non c'è dubbio. Complimenti all'autrice, che li conosce e li tratta con grande competenza.
Drazien si è formata a Parigi con Lacan e ha ascoltato direttamente i suoi seminari. Madrelingua inglese, newyorkese di origine, mostra una conoscenza rara e approfondita dell'opera di Joyce, letto a partire dalla comune lingua materna. Al lettore che non ha questa lingua materna, la lettura di Joyce assegna giri supplementari, si tratta di trovare altre soluzioni, il percorso si fa più tortuoso. Inoltre, essendo psicoanalista, conosce altrettanto bene le parole di Lacan, non solo per averlo letto, ma per avere avuto il privilegio di conoscerlo personalmente. Dà a Lacan, virtù rara per un lacaniano, spessore umano.
Drazien dunque usa l'inglese come lessico familiare, ma certo non è tutto qui.
Joyce non scrive solo in inglese, o meglio, l'inglese non è la sola lingua materna. La vita di esule gli permette di scrivere anche un po' in italiano, come per esempio nel frammento di un testo su William Blake.
I figli di Joyce, per lingua materna, sono anche italiani, essendo nati e avendo passato l'infanzia a Trieste. Come diceva Sam Levenson: “La follia è ereditaria, la si prende dai figli”.
Glossolalie joyciane
Ma la questione di fondo è che Joyce ha scritto glossolalie, ha parlato in lingua. Così nel caso di Finnegans Wake, opera che si legge ad alta voce, come faceva lui stesso, e di altre opere che si trovano raccolte in Poems and Shorter Writings.
Finnegans Wake è l'opera che avrebbe dato lavoro agli accademici per i prossimi trecento anni, gli accademici infatti si ostinano intorno alla semantica. Glossolalia, invece, significa parlare secondo l'accento, il tono, la melodia, significa espressione. Il testo andrebbe letto come una partitura musicale, teatrale. Si producono xenolalie, ruminazioni, manducazioni. In questo l'ultimo Joyce somiglia un po' all'ultimo Artaud. Insomma, nel caso di Finnegans Wake, la lingua della lettura è sempre altra, dipende dal soggetto che la pratica. La lettura ad alta voce richiede preparazione, esercizi di ritorno all'oralità; la voce diventa uno strumento musicale polifonico.
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Obiezioni a Lacan
Lacan è colpito da Joyce al punto da modificare le proprie posizioni intorno alla psicoanalisi quando lo incontra, all'epoca dei nodi borromei, anni Settanta del Novecento. Su questa questione rimando il lettore al libro di Drazien, che non merita un succinto riassunto, ma la lettura diretta di un testo che viene da esperienze vissute.
Nelle mie osservazioni critiche al libro mi limito a discutere due aspetti, o due obiezioni, che mettono in questione la posizione di Lacan riguardo a Joyce, così bene illustrata nel libro di Drazien, le cui linee fondamentali si trovano nel testo di Lacan intitolato Il sinthomo.
La prima obiezione è di origine clinica: la questione delle epifanie in Joyce non rimanda, a mio avviso, alla psicosi.
La seconda ha a che fare con la storia della clinica: la presunta schizofrenia della figlia. Lucia Joyce – manicomializzata per 48 anni, fino alla morte, presso il manicomio di Northampton, nel 1982 – non era affatto schizofrenica, era una di quelle numerose donne “inquiete” che la chirurgia (clitoridectomia, lobotomia) e la psichiatria hanno “aggiustato” al fine di rendere tranquille le famiglie “per bene” durante il secolo breve.
Il problema che pongo è se la questione Joyce, nel suo complesso, nonostante la lettura di Lacan, e, prima di lui, di Jung, abbia o meno a che fare con la schizofrenia o, più in generale, con la psicosi.
Le epifanie
Che cosa sono le epifanie? Sono allucinazioni?
Io credo che le epifanie siano un fenomeno diverso dalle allucinazioni. Nell'allucinazione l'oggetto è il prodotto di una visione, l'epifania è invece un modo singolare di percepire l'oggetto. L'oggetto, nell'epifania, a differenza dell'allucinazione, sta là fuori, è presente, pone una resistenza, ma si manifesta, per così dire, in ritardo, come per indugiare. L'epifania è un modo per girare intorno all'oggetto, per adombrarlo.
Tenterò una mia traduzione di alcuni passi di Stephen Hero.
Una sera passava per Eccles St, una sera fosca (misty, confusa? nebulosa?), con tutti quei pensieri, che danzano, nel suo cervello la danza dell'inarrestabile, quando un banale evento (incident) lo portò a comporre alcuni versi ardenti che intitolò una “Villanella Tentatrice”.
Osserviamo la prima frase, sembra trattarsi di qualcosa che fa coincidere il dentro e il fuori: la foschia è parte del clima di Dublino, ma in quel momento è parte dei pensieri di Stephen. In quel momento c'è coincidenza. Questa foschia non è allucinazione.
Più oltre:
Questa banalità gli fece pensare di raccogliere molti di quei momenti in un libro di epifanie. Per epifania intendeva una manifestazione spirituale repentina, sia nella volgarità del dire o gesticolare, sia in una fase memorabile della mente. Credeva fosse prerogativa dell'uomo di lettere registrare queste epifanie con estrema cura, guardandole come fossero i momenti più delicati ed evanescenti (James Joyce, Stephen Hero, trad. mia).
Appena dopo appare Cranly, e Stephen gli dice che l'orologio di Ballast Office è capace (capable) di un'epifania. L'epifania è dunque un incontro in cui l'oggetto “è capace”, l'oggetto va incontro al soggetto. Questo mi pare il grande capovolgimento di Joyce: non solo il soggetto incontra l'oggetto, ma l'oggetto incontra il soggetto, lo attrae, per via di una banalità, non per una qualche proprietà speciale riconoscibile da ognuno, ma per una proprietà nascosta, segreta, che interessa solo quel soggetto e quell'oggetto. Si tratta di qualcosa che appartiene a un differente registro ontologico?
Questa qualità estetica, in Dedalus, che è la riscrittura triestina di Stephen Hero, anni dopo, è rappresentata dalla lettura, eretica e sacrilega, dell'estetica di San Tommaso.
In questo caso l'interlocutore di Stephen è Lynch. Qui Stephen fa l'esempio di un cesto:
Per vedere quel cesto, la mente anzitutto separa il cesto dal resto dell'universo visibile che non è quel cesto. La prima fase dell'appercezione è un limite segnato intorno all'oggetto da percepire. L'immagine estetica ci viene presentata o nello spazio o nel tempo. Ciò che è auditivo ci si presenta nel tempo, ciò che è visivo, nello spazio. Ma, temporale o spaziale, l'immagine estetica è anzitutto chiaramente percepita come un insieme, limitato e contenuto in sé, sullo sfondo incommensurabile dello spazio e del tempo che non è questa immagine (Dedalus, p. 258).
Joyce usa un termine latino per definire questo evento: quidditas. La quidditas è il risultato che, in Joyce, sembra conseguire dal triplice movimento appercettivo descritto da Tommaso: integritas, consonantia e claritas.
La svolta eretica e sacrilega di questa scelta si mostra quando Stephen emenda Tommaso dall'idea che claritas sia “una luce di un qualche altro mondo”, la “rappresentazione del divino disegno che è in tutte le cose”. L'incanto del cuore di Shelley, per Dedalus è “stato spirituale” come la condizione cardiaca descritta da Luigi Galvani.
Se fosse necessario definire una condizione clinica privilegiata in relazione alle epifanie, direi che questa condizione non è la schizofrenia, quanto piuttosto l'autismo.
Da diversi anni, le persone autistiche adulte raccontano storie di vita e nel raccontarle hanno creato un linguaggio che descrive la loro esperienza, come se potessero mostrarcela dall’interno. In numerose descrizioni si parla del modo in cui la condizione autistica percepisce la realtà esterna. Non si tratta di allucinare oggetti o eventi che gli altri non vedono, si tratta di scomporre e ricomporre l'esperienza percettiva, come se fosse esperienza estetica. Di regredire dal percetto alla sensazione immediata delle parti, per poi comporle e orlarle, incorniciarle. L'appercezione estetica sembra costituirsi come una sintesi delle sensazioni e dei percetti. Il movimento si costituisce di tre parti: l'integrazione dell'oggetto – il renderlo una quidditas, qualcosa di unico, che emerge da uno sfondo – la consonanza – l'incontro, tra il percettore e il percepito – e, infine, l'emergenza della quidditas, dell'oggetto come oggetto.
Ciò che si dà per scontato nelle nevrosi quotidiane – come per esempio “il padre”, o “un cesto” –, per il soggetto autistico è tema di continuo riconoscimento, si ripresenta sempre come un insieme di parti da comporre e ricomporre; non c'è per lui alcun “dato immediato della coscienza”, se non nei termini di un significante primitivo, antecedente a ogni significazione, un'ombra affascinante. Il riconoscimento è sempre procrastinato e passibile di interferenze esterne, distrazioni, distruzioni del senso. Tuttavia, quando avviene, si realizza una epifania joyciana.
Mentre Schreber cerca una lingua fondamentale (Grundsprache) delirante, Joyce cerca di distruggere la lingua che è dominante: l'inglese dei dominatori britannici. Joyce non ha una missione da compiere, non sente voci che lo trasformano in donna, non ha un padre pedagogista autoritario, al contrario. Infine la stile letterario di Joyce è assai diverso, ma su ciò andrebbero spese pagine e pagine di considerazioni.
Lucia
La tesi condivisa, quasi unanime, fino alla biografia di Lucia Joyce scritta da Carol Loeb Schloss, è che Lucia fosse schizofrenica.
Come noto a chi conosce la biografia dell'autore, l'unico a non crederci fu proprio James Joyce. Ante litteram, Joyce cercò di salvare la figlia dal potere psichiatrico dominante negli anni Trenta del Novecento. La recente biografia di James Joyce scritta da Gordon Bowker riprende le considerazioni di Schloss, e rilegge le tappe dell'internamento della figlia dello scrittore.
Certo Lucia aveva crisi isteriche, con ululati e pianti, ma non sembra avere avuto deliri o allucinazioni permanenti. Molti psichiatri dell'epoca prescrissero isolamenti e contenzioni ingiustificate, tipiche dell'era manicomiale. Benché il dottor Fontaine avesse diagnosticato crisi di nervi e Maier avesse parlato di nevrosi grave, altri, prima di loro, avevano decretato che Lucia era affetta da catatonia. La diagnosi le è rimasta addosso, come un marchio indelebile, fino ad ora. Joyce, convinto che Lucia fosse chiaroveggente, si rivolse a Jung, che studiava i fenomeni telepatici, e che, meno di dieci anni dopo, avrebbe scritto un saggio sulla sincronicità in cui esaminava casi clinici di persone telepatiche. In quel testo sulla sincronicità Jung menziona le ricerche dello psicologo inglese F.W.H. Myers (1843-1901), fondatore della Society for Psychical Research, che aveva descritto casi di telepatia, come quello di Mollie Fancher – conosciuta come Enigma di Brooklyn – in relazione alla patologia isterica.
Riguardo al caso Lucia Joyce, Jung sembra invece essersi adeguato all'ondata dominante che l'ha voluta schizofrenica e, a posteriori, dichiarerà a Ellmann, il primo biografo di Joyce, che, gettatisi padre e figlia nella stessa corrente, James ha nuotato, Lucia è affogata. Ciò però non prova che Lucia fosse schizofrenica e le ricerche rigorose della Schloss mostrano che non ci sono stati, nella sua vita, episodi che possano essere francamente definiti psicotici.
Il cambiamento di Lacan di fronte a Joyce
Ho imparato che un'ipotesi è scientifica quando non ci si innamora troppo di essa. Il saggio di Drazien è molto bello. Se letto come ricostruzione storica rigorosa dell'incontro di Lacan con Joyce, è la migliore ricostruzione di quell'incontro, un importante capitolo di storia della psicoanalisi. Tuttavia credo che oggi, alla luce di nuove biografie critiche e di una rilettura del testo joyciano, si tratti di mettere in questione l'ipotesi di Lacan su Joyce, che adatta la biografia di Joyce e della figlia alle teoria di Lacan, anziché fare il contrario.
La messa in discussione delle ipotesi di Lacan su Joyce non mette, a mio avviso, minimamente in dubbio la grandezza del massimo psicoanalista francese. L'incontro di Lacan con Joyce è stato comunque fecondo e ha dato alla psicoanalisi nuovi strumenti. L'ipotesi, formulata da Lacan dopo l'incontro con Joyce, che il sinthomo non sia interpretabile, ha un'importanza straordinaria; rompe con ogni ipotesi semantico-ermeneutica della psicopatologia.
L'idea stessa della non interpretabilità del sintomo rinvia a quel significante primitivo che il soggetto autistico trasforma nello sguardo estetico. Si trattava forse di andare solo un po' più in là. Tuttavia la schizofrenia, a mio avviso, non c'entra nulla con Joyce.
Lacan, come Jung, si è sbagliato. Per essere fedeli a un maestro, a volte, bisogna smentirlo.