Nella mente e nel cuore dei cani

11 Agosto 2023

Marc Bekoff è uno dei più importanti etologi americani. Il suo oggetto di studio è costituito prevalentemente dai cani, a cui ha dedicato diversi libri, alcuni dei quali, come il recente Nella mente e nel cuore dei cani (edito da Carocci, con traduzione di Anna Maria Paci e presentazione di Angelo Vaira) sono stati pubblicati anche in Italia. Pur non dandone l’impressione, la sua attività di ricerca ha rappresentato una svolta. È anche grazie ad essa che il cane – a lungo considerato argomento poco significativo, in quanto “artefatto prodotto dall’ingegneria genetica umana” – ha cominciato ad essere preso in considerazione dall’etologia. Secondo una tradizione consolidata, infatti, lo studio del comportamento degli animali era da dedicare esclusivamente a specie non domestiche, osservate nei loro ambienti naturali. Bekoff è tra coloro che hanno invertito la tendenza. Quale altro animale come il cane è infatti costantemente sotto il nostro sguardo? Di quale possiamo raccogliere dati semplicemente osservandolo mentre se ne sta di fianco a noi, in casa, o, anche se più sporadicamente, a fianco dei suoi simili?

Il punto d’arrivo di Bekoff è diventato così un punto di partenza: anche se “del cane domestico, del suo comportamento, di ciò che pensa e sente, di ciò che vuole e di cui ha bisogno sappiamo molto”, ci sono, però, “altrettante cose che ignoriamo”. C’è parecchio da esplorare, insomma, da quando i cani hanno smesso di essere cartesiane “macchine prive di intelligenza” o “semplici grovigli di istinti” pavloviani. Oggi sappiamo che i cani sperimentano “un’ampia gamma di emozioni simili alle nostre” e che “possiedono una mente ricca e profonda”. Sappiamo anche che “hanno bisogno delle stesse cose che vogliamo noi, ovvero vivere in pace e in sicurezza e coesistere in armonia con il prossimo”. Soprattutto abbiamo imparato a capire che ogni cane è un individuo a sé e parlare di specie e di razza espone al rischio di creare “l’animale immaginario”, quello che non esiste se non negli schemi comportamentali più approssimativi. 

Il problema è allora un altro, trasferire le conoscenze teoriche alla realtà della vita quotidiana col cane. Perché più si diventa consapevoli di chi abbiamo a nostro fianco, più la nostra relazione può migliorare. Per Bekoff è questo uno dei sensi del suo lavoro: l’etologia serve a farci star bene con il nostro cane. Insegnandoci innanzitutto a prestargli attenzione, a guardare quello che fa, a stabilire con lui un contatto più profondo. Nonostante quello che si può pensare, non si tratta di un atteggiamento diffuso quanto meriterebbe. Se chiunque lo può notare osservando umani dediti solo al proprio cellulare mentre portano il cane a passeggio, Bekoff lo ha riscontrato rimanendo ore nelle aree cani, a guardare come si sviluppano le relazioni tra cani e tra cani e umani, dialogando con chiunque gli abbia posto un quesito, facendo etologia tra la gente comune. C’è una certa superficialità nel rapporto col proprio cane. C’è impazienza. C’è ansia. Che, messe tutte assieme, nuocciono all’affetto, creano incomprensioni, generano problemi. È vero però che molti sono disposti a mettersi in gioco.

Non sono pochi coloro che escono rinfrancati dai dialoghi con Bekoff. La cosiddetta citizen science ha effetti benefici, stimola curiosità, aumentando la comprensione di comportamenti altrimenti inspiegabili. L’obiettivo è arrivare a “rispettare e amare i cani per quello che sono, non per quello che vogliamo che essi siano”. Non sembra tanto, ma è in realtà moltissimo. Perché vuol dire comprendere che “vivere con un cane è un impegno per la vita che implica una mediazione continua”, con concessioni “da entrambe le parti”. Vuol dire scoprire “cosa significa essere un cane in un mondo dominato dagli umani”. Vuol dire capire che “l’amore non basta”, ma “è essenziale trasformare il sentimento in azione per rendere la vita di tutti gli individui la migliore possibile”, per esempio, sostenendo i diritti degli animali, o allargando lo sguardo oltre il proprio circuito privato e acquisendo consapevolezza che, nel mondo, il 75% dei cani vive in solitudine; che molti sono utilizzati “fino a morire nelle corse ... e sono costretti ad esibirsi negli spettacoli e al cinema”.

Che alcuni vengono ibridati intenzionalmente per produrre determinate caratteristiche che, pur attrattive per il mercato, sono esiziali per la loro salute (capita agli “iconici” labradoodle e goldendoodle); o, ancora, che molti vengono allevati con deformità per studiare malattie umane. Ma diffondere le abitudini dell’etologo significa anche capire quanto i nostri cani – così coccolati e salvaguardati – siano poveri di relazioni (quanti loro simili frequentano?) e, soprattutto, significa capire che i cani non si comportano sempre come i nostri migliori amici. Perché, a differenza di quanto si sostiene, i cani non amano incondizionatamente e, come noi, fanno distinzioni tra gli umani. 

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Se il cane è con noi da migliaia di anni, se a lui dobbiamo acquisizioni che hanno determinato il nostro successo evolutivo (è l’ipotesi dello zooantropologo Roberto Marchesini, ma anche dell’antropologa americana Pat Shipman che attribuisce alla nostra relazione con il cane l’estinzione dei Neanderthal), probabilmente lo dobbiamo a un processo di selezione di caratteri infantili (funzione epimeletica), incardinati sulla socievolezza e sulla riduzione dell’aggressività (oltre che su certe caratteristiche fisiche, quali, per esempio, le orecchie pendule). Ma quel lupo diventato cane, col quale abbiamo cominciato ad andare ai caccia della megafauna, dal quale abbiamo ricevuto protezione, ha probabilmente, nel corso del tempo, imparato più cose su di noi di quello che noi abbiamo imparato su di lui. A livello comune, in anni come i nostri in cui il cane è sempre più status symbol, elemento compensatorio di affetti transeunti, surrogato di figli troppo impegnativi da mettere al mondo, sul nostro fedele compagno abbiamo idee generiche, fondate su sensazioni piuttosto vaghe, o, ancor peggio, su tendenziosi “sentito dire”. C’è un aspetto su cui Bekoff insiste.

A livello generale, soprattutto tra alcuni educatori, si ritiene che il cane debba essere dominato. Siccome è un animale che basa le relazioni con i suoi simili sulla dominanza, è necessario fare altrettanto nella relazione tra sapiens e cane. Nell’addestrare l’animale è quindi indispensabile imporsi, usando le maniere forti, facendogli capire chi comanda. Secondo Bekoff, si tratta dell’errore per eccellenza, del peccato originale. Innanzitutto perché la dominanza tra cani “è una questione di relazioni” che non si esprime con l’aggressività, ma in modi indiretti e sottili. In secondo luogo perché la relazione col proprio cane deve essere fondata sulla tolleranza, sulla capacità di comprendersi e, di conseguenza, sul rispetto reciproco. Non ha senso punire un cane che ci precede entrando in casa. Non ha senso vietargli di salire sul letto. Il cane è un animale che ha bisogno di affetto e questo è alla radice di qualunque relazione con lui. Non si può certo dire che chi davvero vive con i cani non lo sappia, ma spesso si sentono in circolazione idee di tenore opposto, e su chi viene ritenuto eccessivamente tenero grava una sorta di subdola condanna (“non sa imporsi al proprio cane”). 

Comprendere il cane significa anche concedergli tempi e spazi necessari a essere cane. Ogni “canaro” sa quanto possa essere estenuante una passeggiata col proprio animale, con le continue soste per fare pipì. Bekoff lo ribadisce. Dobbiamo concedere al cane il tempo che gli è necessario. Le “marcature olfattive” lasciate attraverso l’urina sono per il cane la maniera privilegiata per comunicare con i propri simili, per raccogliere informazioni su di loro. Strattonarli perché non abbiamo tempo e perché “quello che dovevi fare lo hai fatto” produce un effetto simile alla sottrazione di un cellulare mentre stiamo chattando. E cani privi di informazioni su altri cani, sulla loro condizione, sul loro estro, possono andare incontro a problemi di natura psicologica o, più facilmente, essere più violenti al momento dell’incontro con chi coabita nel loro stesso territorio (e si pensi all’effetto prodotto sulla popolazione canina dalle ordinanze che, in nome dell’igiene, impongono di cancellare immediatamente le tracce di pipì con acqua!). 

Non è facile (e spesso nemmeno lecito), soprattutto in città, ma ogni cane dovrebbe avere modo di trascorrere una parte della propria vita all’aperto senza guinzaglio. Il punto è dolente, anche perché i timori dei proprietari sono noti. Molti temono che lasciare libero il proprio cane possa determinare problemi e noie. Bekoff ribadisce che si tratta in realtà di un’esigenza naturale, come lo è il momento del gioco, che studia nelle aree cani. Tutti i cani amano il gioco, a qualunque età, e tutti nella stragrande maggioranza dei casi si sanno regolare, evitando di trasformarlo in una rissa scomposta e mordace. Il gioco è indispensabile sul piano fisico, intellettivo, sociale. È un esercizio che allena ad affrontare le situazioni impreviste. Negarlo al cane perché non si ha tempo o perché si ha paura di eventuali danni fisici che potrebbero essergli inferti, equivale a mettere a dura prova il suo equilibrio. 

Comprendere il cane, farsi cani, diventare, come scrisse Alberto Asor Rosa, “canuomo” – rendendosi conto per esempio della priorità della dimensione olfattiva – non sono operazioni semplici, anche perché la ricchezza cognitiva ed emotiva di ogni cane, che ha consapevolezza di sé, una memoria straordinaria, vive emozioni primarie e complesse, impedisce di arrivare a conclusioni generiche. Non c’è un “manuale del cane”, come non c’è un “manuale dell’uomo”. Ogni cane è a sé. E le “regole” che si pensa di aver individuato possono essere mandate a monte da un individuo più originale o di cattivo umore in quel momento della giornata. Per cui, quanto è davvero necessario, è adottare “una nuova visione degli animali, più ampia e forse più mistica”, che, come afferma lo scrittore e naturalista Henry Beston citato da Bekoff, ci permetta di capire che gli altri animali “non sono né fratelli né esseri inferiori: sono altre nazioni, intrappolate con noi nella rete della vita e del tempo, nostri compagni di prigionia nello splendore e nel travaglio del pianeta”.

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