Nemtsov e Leviafan. Cosa succede in Russia?

2 Marzo 2015

Una luminosità intensa e allo stesso tempo livida domina tutto lo svolgimento dell’azione. E non si tratta soltanto di un gioco di aggettivi assonanti capitati per caso o voluti per stupire. Vivida perché il luogo in cui il film è stato girato Leviafan (Il Leviatano, regia di Andrej Zvjagintsev, 140’) è la tundra, sulle rive del mare di Barents nella regione di Murmansk, all’estremo nord della Russia, dove il clima è subartico e la luce delle brevi estati intensa e nitida. Livida perché le forze che si scontrano, le emozioni che si sviluppano, le tensioni fisiche e psicologiche che si dipanano incalzanti non concedono a quella natura di mostrarsi in tutta la sua rilassata bellezza. Dovrei scrivere Bellezza (Krasota) con l’iniziale maiuscola per rendere giustizia alla tradizione russa che vedeva in questa categoria culturale non soltanto la componente estetica ma anche, e soprattutto, quella spirituale. La Bellezza sublime della natura poteva avvicinare a Dio, suscitando nell’uomo che la contemplava anche il timor panico, visto che di fronte a tanta potenza non si poteva che riconoscere la propria piccolezza e sottomettersi alla volontà del Creatore. Che cosa determina allora il peso che rende plumbea quell’atmosfera pur luminosa e non le permette di connotarsi come i suoi tratti obiettivi, lande selvagge, luci radenti, cieli altissimi, onde possenti farebbero pensare? Proprio le meschinità che la natura umana mette in scena, le filistee citazioni che i protagonisti sfoderano a raffica sul proprio rapporto con la religione, la religiosità e Cristo stesso, la relazione che esiste tra quella religione e quello stato. Lì come altrove, se è vero che l’idea per la storia è venuta al regista sulla base di una disputa legale americana, da lui trasposta in terra russa, quella che conosce meglio di ogni altra, ma lì, oggi, forse più che altrove.

 

Leviafan, regia di Andrej Zvjagintsev, 2014

Leviafan, regia di Andrej Zvjagintsev, 2014

 

Scrivo queste note sul film di Zvjagintsev nel giorno successivo a quello in cui Boris Nemtsov, attivista politico dichiaratamente antigovernativo, è stato assassinato a Mosca su un ponte che si affaccia sul Cremlino, verso la piazza Rossa, alle spalle della cattedrale dedicata al santo pazzo Basilio. Impossibile è continuare a ragionare sulle vicende illustrate nella pellicola senza collegarle alla realtà, ancora più efferata e ripugnante di quanto fosse quella della pur già ruvida narrazione cinematografica. Il problema che si ripropone oggi, dopo l’atto terroristico che ha freddato uno dei rappresentanti dell’ala “liberale-democratica” russa, rimanda a quello centrale del film: cosa può fare un individuo, un piccolo uomo (il malen’kij čelovek della storia russa) quando è solo o sostenuto da una debole minoranza, di fronte a uno Stato-mostro?

 

Vero è, come è stato prontamente sottolineato dal portavoce del Cremlino, che Nemtsov altro non era che “poco più di un cittadino statisticamente medio”, indegno secondo il potere di essere considerato nemico pericoloso per il presidente e tanto meno di diventare oggetto di un delitto politico orchestrato da quest’ultimo. Nonostante questo, subito dopo l’incidente, nella residenza della vittima sono state condotte perquisizioni tra le sue carte e il suo computer. Era noto che stesse preparando materiali relativi alla questione ucraina e che li avrebbe resi pubblici in occasione della marcia di protesta anti crisi battezzata Vesna (primavera) che si sarebbe dovuta tenere pochi giorni più tardi. Non è questa la sede, né lo permetterebbero le mie competenze, per avanzare o contestare ipotesi relative ai retroscena politici che hanno realizzato l’assassinio: paventate responsabilità internazionali, danno volutamente recato all’immagine di Putin, piste passionali (la fidanzata modella ucraina e possibile spia), spettri di eliminazioni russe tattiche e svergognate che vanno dall’uccisione di Kirov del 1934 staliniano a quella di Anna Politkovskaja nel 2006 putiniano, per citare soltanto le due più eclatanti.

 

Mi importa invece continuare a ragionare sul piccolo uomo di fronte a uno stato potente. Non necessariamente sul piccolo uomo che cerca di contrastarlo, ma anche su quello che, non necessariamente condividendone in modo entusiastico le posizioni, lo sostiene, lo accetta, lo tollera. Rimandando a quello che era stato un atteggiamento determinante negli anni Settanta sovietici della cosiddetta stagnazione brežneviana: posizione che in passato ho definito di a-sovietismo invece che di anti-sovietismo. In altre parole quel lasciarsi passare addosso istituzioni, retorica, propaganda, fondamenti politici, sociali, culturali senza accusarne l’invasiva presenza, senza contrastarli apertamente, senza riconoscere loro il diritto di intrusione nella vita privata. Magari parodiandoli o rivisitandoli in chiave satirica, ma sottovoce, con quell’atteggiamento che richiama l’atavica saggezza popolare russa che si riconosceva nel proverbio “tiše vody, niže travy” (più silenzioso dell’acqua, più basso dell’erba). Stato di cose che è stato teorizzato e definito con somma finezza da Aleksej Jurčak, in un recentissimo studio dedicato all’ultima generazione sovietica, come vnenachodimost’ (situarsi al di fuori, non farsi trovare al posto previsto). All’epoca non si trattò né di viltà né di furbesca cialtroneria. Piuttosto ha senso parlare di consapevolezza e di razionale atteggiamento di confronto con una controparte smodatamente superiore per forza e autorità. Ha senso oggi scomodare queste categorie nel tentativo di interpretare azioni e reazioni dei russi contemporanei di fronte alla storia?

 

Leviafan, regia di Andrej Zvjagintsev, 2014

Leviafan, regia di Andrej Zvjagintsev, 2014

 

La storia del film Leviafan è fatta di corruzione politica, gestione mafiosa del potere, intrighi familiari, sentimentali ed erotici, violenza e connivenze tra varie forze egemoniche appartenenti alla storia dell’umanità intera. Di ieri e di oggi. Non a caso il titolo rimanda sia all’orribile mostro marino di straordinaria potenza presente nella Bibbia, che alla conseguente lettura proposta dal filosofo inglese Thomas Hobbes (1651), in cui è lo stato assolutista ad assumere la forza di quella creatura acquatica nella gestione del potere e dei cittadini che fanno da membra assoggettate al suo corpo politico. Che cosa c’è di tanto russo in questa vicenda da rendere il film grandioso, coinvolgente, conturbante e da scatenare in terra patria un dibattito che ha assunto toni molto accesi, anche prima dei fatti del 28 febbraio 2015, portandoli a coinvolgere politica e istituzioni? Sostanzialmente, a mio modo di vedere, l’articolato e scomodo modo in cui il Paese emerge dalla vicenda, le inquadrature che lo raccontano e lo fanno parlare (grandiose le doti dell’operatore), le citazioni di storia della mentalità, del comportamento e della cultura che non fanno concessioni all’abbellimento della realtà, né la trasformano in un’oleografica fiaba sulla Russia da narrare al resto del mondo.

 

L’irrequieto protagonista Nikolaj (Kolja), vive con un figlio adolescente (Roma) avuto da un primo matrimonio e la giovane seconda moglie (Lilja) in un’affascinante quanto sconnessa vecchia casa con vista sul mare. Pareti di legno e grandi finestre, arredi sommari, tubature arcaiche, infissi traballanti. Il tutto rimanda a tempi lungamente passati ma, al contempo, testimonia di un legame profondo tra il meccanico che vi abita e la primitiva struttura. Il ragazzo vive la complessa età della scontentezza e manifesta la sua inquietudine soprattutto nella difficile relazione con la matrigna. Su tutti loro incombe la minaccia dell’esproprio della dimora da parte del sindaco del villaggio, un burocrate corrotto e violento, che vuole quel terreno per edificarvi più redditizie costruzioni di lusso, non ultima una nuova chiesa in accordo con il vescovo ortodosso suo compare. Per sostenere la causa dei ricorsi al tribunale locale, Kolja ha chiesto aiuto a un ex compagno d’armi, oggi affermato e brillante avvocato moscovita. Questi arriva nella sperduta cittadina con un dossier in cui ha raccolto prove delle scorrettezze e degli abusi compiuti dal sindaco, intenzionato a far valere quei documenti compromettenti per costringere il funzionario a recedere dai suoi intenti. Il colloquio tra i due “uomini di legge” si svolge nell’ufficio del burocrate sotto gli occhi di un legittimo quanto eloquente quadro di Putin appeso alla parete: con lo sguardo più ammiccante che mai, quasi beffardo, pur non scadendo assolutamente nel caricaturale. Nel frattempo il meccanico puro e cocciuto è stato arrestato per resistenza a pubblico ufficiale, in seguito alle escandescenze a cui ha ceduto nell’ufficio di polizia in cui l’addetto di turno si era rifiutato di accogliere una sua ennesima denuncia, ed è stato imprigionato.

 

Le sciagure iniziano a succedersi a ruota libera. La moglie, nell’attesa della scarcerazione del marito, cede alle grazie del prestante avvocato e gli cade tra le braccia. Kolja viene liberato proprio mentre la moglie lo sta tradendo con Dmitrij, Durante una giornata di festa per il compleanno di un amico, la donna e l’avvocato sono scoperti in flagrante amplesso da uno dei bambini della compagnia, nel bel mezzo di quella natura aspra, selvaggia, sublime. Tutto mentre i compagni di baldoria giocano sparando al bersaglio di bottiglie allineate su un muricciolo e pagando “penitenze” à la russe in forma di bicchieri di vodka da tracannare, sia quando il colpo va a segno che quando si fa cilecca. Segue un’inevitabile rissa. Lilja accompagna l’amante ferito in albergo, ma poi torna a casa dal marito che sta bevendo con l’amico vigile urbano, dunque rappresentante, sia pure in forma misera, di quello stesso potere che lo opprime. Il sindaco, spaventato dalle possibili conseguenze del ricatto e sostenuto dalle “edificanti” parole dell’amico prelato ortodosso, che lo rassicura sulla legittimità del suo esercizio del potere discendente da Dio, finge di cedere alle minacce dell’avvocato, ma poi lo conduce in un luogo isolato e lo fa pestare dai suo scagnozzi, minacciandolo di morte se non rientrerà immediatamente a Mosca.

 

L’avvocato parte, Nikolaj perdona la moglie, ma il ragazzino Roma l’accusa di essere la causa di ogni disgrazia e la invita ad andarsene dalla famiglia. Il giorno successivo la donna esce per andare al lavoro ma si reca invece sulla scogliera, dalla cui sommità scorge la carcassa di una balena galleggiante. Rimando alla storia biblica di Giona, mangiato e vomitato da un grande pesce (balena, mostro, Leviatano), già ampiamente ripresa in varie forme da molti testi e autori letterari. Il corpo di Lilja verrà trovato morto tra le onde sulla costa. Suicidio? Il disperato marito cercherà conforto anche interrogando un prete ortodosso di modesto rango, che tenterà di consolarlo citandogli le terribili prove a cui il Signore aveva sottoposto Giobbe.

 

L’istituzione, simbolo di uno stato ancora feudale, non si arrende e Nikolaj, con l’aggravante di una testimonianza a suo carico da parte dei cosiddetti amici con cui aveva fatto festa, viene condannato per l’omicidio della moglie. Gli infliggeranno una pena di 15 anni di carcere. Il ragazzino, che aveva cercato rifugio sulla spiaggia proprio accanto allo scheletro della grande balena, verrà affidato agli “amici” di famiglia, a cui rinfaccerà di averlo accolto soltanto per il denaro che lo stato avrebbe loro versato per il suo mantenimento. Le ruspe del sindaco fanno prontamente scempio della casa oggetto di tutte le contumelie e la scena finale del film vede l’inaugurazione della nuova chiesa, sorta sul territorio della dimora di Nikolaj, con la funzione celebrata dal prelato amico del boss e quest’ultimo, in pompa magna con la famiglia agghindata a festa (ritratto esplicito dei “nuovi russi” arricchiti), che ascolta un’esemplare predica dedicata alla verità e alla sincerità. Lo schiaffo disperato e finale del regista alla Russia feudale sta nell’ultimo quadro, in cui il sindaco, indicando al figlioletto l’icona di Cristo, gli dice: “Quello è il nostro Signore, lui vede tutto”.

 

Leviafan, regia di Andrej Zvjagintsev, 2014

 

Giobbe, nelle scritture, non aveva perso la fede. Come è possibile mantenerla, sia nella chiesa che nello stato, dopo quanto racconta la nostra storia? C’è un senso assoluto nell’esistenza che conducono i personaggi del film o le loro vite sono condannate fin dall’inizio al nulla, al vuoto, alla disperazione, indipendentemente dai fatti che le condizionano? La resistenza al male è innata, per quanto tormentosa, difficile, in questo caso disperata. Zvjagintsev non fornisce risposte alla secolare domanda russa: “Che fare?”.

 

Prevalgono su tutto desolazione e sconforto. Sociale, etico, personale, addirittura estetico, nonostante le già espresse considerazioni sulla bellezza dei luoghi. Fattori che hanno portato a reazioni estremamente negative nei confronti del film e del suo regista da parte della grande maggioranza dell’opinione pubblica russa. Addirittura gli abitanti e il sindaco del villaggio in cui la pellicola è stata girata hanno presentato formale protesta per la svalutazione delle magnificenze naturali dei luoghi in cui, “persino l’ex presidente Medvedev viene sciare”, a loro modo di vedere umiliati e offesi dal regista. Altri, i benpensanti della Russia di oggi, hanno contestato la frequenza e l’intensità delle bevute alcoliche nella pellicola che, dal loro punto di vista, non farebbero che confermare lo stereotipo dei russi come popolo di ubriaconi. In realtà, l’unico “ubriacone” tra i personaggi è il sindaco, colto traballante e incapace di reggersi sulle gambe nella scena in cui aggredisce verbalmente Nikolaj, sorretto dalle proprie guardie del corpo per non crollare a terra sbronzo.

 

Gli altri bevono, e bevono molto, sì, ma con uno spirito che affonda le radici nella cultura russa, fatta anche di un consumo di vodka che per ogni altro popolo sarebbe letale, ma che in quelle terre è parte della quotidianità, della sopravvivenza quasi rituale. Ho già citato il gioco che nel film prevede la “penitenza” in forma di bicchieri di vodka da scolare. Più di una volta ho assistito nei miei anni di Russia a questa consuetudine, così come molte memorie sono state riportare a galla dal gesto autenticamente slavo, prima ancora che russo, del versare il liquore con decisione, quasi rabbia, come se si trattasse di acqua e non di alcol. Gesto culturale, identitario, lontano dalla circospezione con cui si procede in altre culture, stillando il liquido inebriante a gocce in minuscoli bicchierini anziché vuotarlo con spigliatezza nei mitici bicchieri a faccette teoricamente pensati per l’acqua. Tutto reale quindi, quanto il tracannare d’un fiato il bicchiere di vodka da parte di Lilja, tornata a casa del marito dopo il tradimento.

 

Nulla di elegante o raffinato in tutto questo. Non sto cercando di attribuire a queste consuetudini rispettabilità o rilevanza che non sono loro proprie e di cui, peraltro, non hanno bisogno. Sottolineo semplicemente come, ancora una volta dopo secoli, lo spettatore russo medio faccia fatica ad apprezzare un testo artistico o culturale che metta in scena la realtà di cui fa parte e in cui vive, non smussandone gli spigoli per renderla più pregevole ma rappresentandola nella sua nuda e cruda sostanza. Responsabile, da un lato, la tradizione letteraria russa (già lo “scomodo” Dostoevskij aveva fatto notare nel suo primo romanzo del 1846, Povera gente, come al protagonista, misero travet pietroburghese, desse ai nervi riconoscere la propria miserabile condizione nelle pagine del Cappotto di Gogol’ che gli era stato prestato in lettura), dall’altro l’influenza sovietica del realismo socialista che aveva previsto a tavolino come la rappresentazione artistica dovesse dipingere il presente non già come appariva nel grigio squallore della quotidianità ma piuttosto come sarebbe stato da lì a poco, quando la bontà degli interventi realizzati dal regime avrebbe dato i suoi frutti.

 

Disabitudine secolare, dunque, a vedere su schermi, pagine e tele se stessi con le proprie piccolezze e manie. Forse anche con questo si spiega, paradossalmente visto che non li toccava da vicino, il trionfo che il cinema italiano del neo realismo aveva avuto tra i russi sovietici: cinema di denuncia e, allo stesso tempo, di colore e coinvolgimento emotivo e intellettuale, ma che riguardava altri. Che succede oggi a questi concetti del passato? Il Ministro della cultura Vladimir Medinskij, finanziatore seppure in termini piuttosto modesti del film in questione, fu tra i primi a gridare allo scandalo per l’immagine che Zvjagintsev forniva della Russia. Per la già citata presenza della vodka ma soprattutto per il turpiloquio, irrisolta spina nel fianco della cultura russa, che i protagonisti usano con disinvoltura. Difficile pensare che un uomo a cui il sindaco del paese vuole sottrarre la casa, la cui moglie lo tradisce con l’amico che è venuto in suo sostegno e il cui figlio affronta difficili problemi esistenziali, possa accontentarsi dell’equivalente di un “perdindirindina”, ma il vecchio perbenismo russo e poi sovietico, risuscitato nella contemporaneità, ha portato il suddetto ministro a emanare una legge che vieti parolacce e sconcezze in ogni forma d’arte odierna.

 

E il pubblico, tranne rarissime e contestate eccezioni, sostiene queste posizioni all’unanimità. Geniale è l’artificio che trasforma il linguaggio giuridico, già di suo astruso e complesso, in una specie di orripilante cantilena. Giudici e legali leggono sentenze e commi del codice civile e penale a velocità stratosferica, mangiando le parole, rendendone impossibile la comprensione (i sottotitoli non fanno a tempo a scorrere e risultano fuori sincronia) e sottolineando al contempo l’astrusità e la mancanza di senso della legalità intesa come becera infilata di significanti totalmente privi di significato. Riecco il piccolo uomo impotente di fronte al torrente di parole, alla brutta retorica, al lessico del potere che si appiglia all’istituzione debitamente rimaneggiata per opprimere il suddito.

 

Torniamo al nostro punto, allora. Nemtsov rappresentava una assoluta minoranza, il film Leviafan è stato apprezzato da una ridotta percentuale di russi e attaccato anche con violenza dai più, la grande Russia (greater Russia, geo-politicamente intesa) sembra reagire con indifferenza alla notizia di un assassinio che ha invece mobilitato e sconvolto l’occidente. Come interpretare questi fatti? Cito il commento a un mio post su Facebook dedicato all’omicidio di Nemtsov da parte di un’amica che proprio quel giorno stava percorrendo la Transiberiana da Vladivostok a Mosca, Rita Bonacini, che ringrazio per avermi autorizzato a farlo. Quando ho detto ai miei compagni di viaggio di quello che era successo, nessuno ha battuto ciglio. Uno ha commentato: se si ammazzassero tra di loro e si togliessero tutti di mezzo, sarebbe meglio. Io penso che mentre Mosca posta lo sdegno sui social network c’è gente che dopo 2 mesi di lavoro sulla Kolyma torna a casa senza stipendio e ci mette 4 giorni.

 

Qualunquismo? Disimpegno? Insensibilità politica e sociale? Disincanto? Tutto questo ma non solo. Il vecchio, e apparentemente superato, atteggiamento sovietico del “non farsi trovare”, complicato nella sua articolazione odierna dall’apparentemente contrastante, ancor più vecchio ma mai superato, senso di affettuosa sottomissione al potere che poteva anche essere feroce e crudele ma aveva le debite ragioni per esserlo se dava in cambio prestigio e grandezza alla nazione. Se questo stato di cose ha funzionato nei secoli per gli zar, per le gerarchie ecclesiastiche, e si è riproposto con Stalin dopo l’Ottobre, perché non dovrebbe riconfermarsi valido anche per Putin? A contestare, storicamente, rimangono pochi. E tornano alle mente gli slavofili ottocenteschi che rispondevano agli attacchi degli occidentalisti, dal loro punto di vista colpevoli di promuovere formalismo giuridico e mercantilismo spietato di marca occidentale, esaltando la tradizione autoritaria e comunitaria della Russia antica, l’unità organica di popolo e potere e, non ultimo, il potere messianico della Russia nei confronti delle altre nazioni. Ecco che ritorna prepotente il secolare conflitto-dialogo tra Russia e occidente, immobilità asiatica da un lato opposta alla razionalizzazione occidentale, sempre mal vista, che fosse l’europeizzazione forzata e convenzionale di Pietro il Grande o l’accelerazione da perestrojka di Gorbačëv.

 

A rendere il tutto ancora più difficile da interpretare, il mai risolto conflitto tra centro e periferia, il mai abbastanza affrontato problema del parlare del continente Russia come se a costituirlo fossero soltanto le grandi città, le capitali ormai familiari all’occidente che pensa di averle omologate in tutto e per tutto a se stesso e, di conseguenza, di essere in grado di comprenderle e condividerne le pulsioni. In Russia si è contestato il film di Zvjagintsev anche tacciandolo di essere stato girato per compiacere il pubblico occidentale. Nulla di più falso, a mio modo di vedere. Gran parte dell’occidente non solo non è in grado di comprendere appieno le valenze della pellicola, ma resta, probabilmente, abituata a film assai più zuccherosi, pieni di fasullo ma rassicurante čechovismo nella rappresentazione di una Russia idilliaca, anche se percorsa da fermenti e fatti inquietanti, risolti con la tragicamente valida formula dell’esotismo intrigante.

 

Questo film è per la Russia, per una Russia che, forse a sua volta, non è ancora sufficientemente preparata e adulta per apprezzarlo e comprenderlo. Una Russia che si scatena ad attaccarlo perché non ne esce bella e affascinante come in tanti, con posizioni non lontane dai sovietismi di marca real-socialista, la vorrebbero vedere rappresentata.

 

 

Un nutrito gruppo di manifestanti, si parla di 50-60.000, ha marciato a Mosca, e in numero minore in altre città del paese, il 1 marzo 2015 nei luoghi assurti a simbolo di spazio consacrato alla cultura politica e alla memoria, dopo l’omicidio di Nemtsov, per ricordarlo e per condannare le modalità di gestione politica che a questo omicidio hanno portato, da qualunque parte sia stata armata la mano che lo ha compiuto. La marcia era prevista per il giorno successivo, intesa e autorizzata, contro la situazione di crisi, Ucraina e sanzioni, ma è stata prontamente trasformata in corteo funebre. L’iniziativa ha raccolto consensi ma anche suscitato qualche perplessità: si marcia per qualcuno o contro qualcuno, si chiedevano alcuni sul web mentre i partecipanti si radunavano e sfilavano con tradizionali cartelli che riproducevano il ritratto di Nemtsov e slogan di varia natura. Il più originale è forse stato quello che giocando con il nome della vittima, Boris, ha aggiunto una lettera finale che in russo trasforma il nome proprio nell’imperativo del verbo lottare. Boris è diventato quindi boris’, “Lotta!”

 

Tra i vari commenti riportati anche quello del poeta Lev Rubinštejn, amico della vittima, che ha dichiarato: “L’omicidio di Nemtosv è un messaggio, ma ancora non è chiaro di quale tipo e a chi fosse diretto. Immagino che ci saranno delle conseguenze”. Lo scrittore Eduard Limonov, assente, ha invece, provocatoriamente come sua abitudine, affermato che non si tratterebbe di un omicidio politico e che non seguiranno effetti degni di nota.

 

Il poeta Lev Rubinštejn alla manifestazione del 1 marzo 2015

 

Sia che le cifre vengano confermate o smentite dai dati ufficiali, convalidando nella migliore delle ipotesi le 60.000 persone, pur essendo un numero assai ragguardevole, questa resterebbe ancora una volta nell’ambito della minoranza, rispetto ai milioni di abitanti che conta la capitale russa. Non per questo la partecipazione va sottovalutata, anzi, resta un fondamentale punto di riferimento nella storia delle dimostrazioni pubbliche del paese. Sono stati scanditi slogan che portano a rivedere la posizione nei confronti dell’Ucraina, della volontà di guerra che Putin sembra aver saputo instillare con sapienza nei sui sudditi. Molti commenti hanno riguardato la grande abbondanza di bandiere russe.

 

Lo striscione recita: “Gli eroi non muoiono. Quelle pallottole sono state sparate a ciascuno di noi”.

Da oggi, si dice, le bandiere russe non saranno più simbolo degli “antimajdan” ma torneranno a essere, anche se non per tutti, contrassegno di unità e volontà di pace. Segnale importante e positivo relativo al fatto che la Russia possa e debba ancora sperare.

 

 

Si sono ritrovati per strada quegli stessi che avevano già sfilato negli anni precedenti in occasioni meno tragiche ma altrettanto serie, quali la contestazione della validità delle elezioni politiche e l’insediamento di Putin al suo secondo mandato presidenziale. Ma anche altri che a quelle precedenti marce non avevano preso parte, come testimoniano sui social network immagini e chiose: questa volta l’appuntamento è stato anche un’occasione per manifestare solidarietà e sostegno reciproco in un momento particolarmente delicato nella storia del paese: anziani e giovanissimi, persone di ogni estrazione sociale.

 

Piccoli uomini che non hanno accettato la regola del “non mi faccio vedere” o del “non faccio rumore” che aveva concesso una vita tutto sommato accettabile e meno frustrante a loro compatrioti di alcuni decenni prima. Anche per questo mal visti dal potere e mal visti da una grossa fetta di popolazione. Accusati, come è successo al regista Zvjagintsev e al politico Mentsov, di mancare di lealtà, di essere traditori del loro paese, di “screditare la cultura nazionale, costituirsi come minaccia per l’unità dello stato e minare le basi dei fondamenti costituzionali”.

 

Sull’onda della rivalutazione dei valori nazionali, anti occidentali e incentrati sulla tradizione religiosa ortodossa, si è fondata molta della vincente politica putiniana. Leggi speciali anti blasfemia sono state emanate dopo la performance delle Pussy Riot nella cattedrale di Cristo Salvatore. Non a caso, sia pure in forma criptata e indiretta, le ragazze punk-femministe sono citate nel film attraverso una apparizione in secondo piano su uno schermo televisivo. Altri piccoli uomini, lontano da Mosca, sono rimasti tragicamente indifferenti agli eventi, concentrati sulle proprie miserie o nobiltà. Esattamente come avevano fatto molti loro antenati nella Russia zarista o in quella sovietica. Non ancora convinti che libertà sia partecipazione, piuttosto persuasi che la convenzionale soluzione del delegare a una figura carismatica responsabilità e potere sia quella ideale. Altri ancora si sono indignati perché il loro batjuška (caro e dolce padre), simbolo del potere, con le sue promesse tangibili e attendibili, è stato sospettato di connivenze con quel fattaccio.

 

E poi ci sono quelli, come i già citati passeggeri della Transiberiana, che restano convinti che nessuno dei politici, vittime o carnefici che siano, abbia presente la loro situazione e che i fatti tragici di ogni giorno, un po’ come successo in Leviafan, non possano essere affidati alle autorità istituzionali, incapaci e genericamente corrotte. Un po’ per ignoranza, un po’ per tradizione, un po’ perché la storia così ha loro insegnato.

 

Il film è stato premiato a Cannes nel 2014 per la migliore sceneggiatura. Agli Oscar di Los Angeles del 2015, pur candidato, è passato pressoché inosservato. Non è difficile capire che anche un premio su un’arena internazionale, corrisposto a un film come questo, avrebbe potuto suscitare tensioni diplomatiche ed essere valutato come presa di posizione politica. È stato distribuito inizialmente nel Regno Unito. Successivamente in Russia agli inizi di febbraio 2015, ma censurato nei dialoghi per il linguaggio sconveniente e vietato per questo ai minori di diciotto anni. In rete circolano in abbondanza copie pirata, sottotitolate in inglese. I dibattiti sui social network e sulla stampa non accennano a diminuire. L’auspicio è che in Italia si trovi presto un distributore e che, utopia delle utopie, non venga doppiato ma sottotitolato. La lingua russa è fondamentale, anche per i non russofoni, è parte integrante della scabrosità, della pregnanza e della finale bellezza.

 

Concludo condividendo un pensiero che ho trovato tra le centinaia di blog, forum e recensioni apparse in rete. Per Nemtsov, come per Leviafan, si potrà non apprezzarne l’attività, il contenuto, i particolari, lo si potrà odiare o amare, ma indispensabile è che, sia l’uno che l’altro, siano conosciuti, che se ne discuta e che vengano universalmente rispettati.

 

Escluse quelle del film, le foto sono tratte dal sito http://zyalt.livejournal.com/1287257.html che ha seguito la manifestazione e aggiornato la documentazione in diretta.

 

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Marco Belpoliti | Putin e l’animo russo. Intervista con Gian Piero Piretto

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