Speciale
Oggetti d’infanzia | Latte Nestlé
La latta rotonda, nel ripiano alto del frigorifero, era sempre un po’ unta. A prenderla in mano, ci si restava quasi incollati, come a formare un’unica entità ibrida e ideale che costituiva il principale desiderio del mio palato e il buco senza fondo dell’iperestesia tardo moderna. All’interno c’era una tersa sostanza bianca che nemmeno le lunghe e fascinose rêveries di un Gaston Bachelard avrebbero potuto descrivere nelle sue ricchezze materiche e nella sua algida compiutezza cromatica. Questa sostanza era assai consistente, al punto che, per esser correttamente consumata, andava allungata con un tot d’acqua di rubinetto riscaldata sul fornello col pentolino – a ipocritamente ricostituire ciò che non era mai stata, ovvero una porzione di latte caldo per la sedicente colazione del bambino (cioè di me, forse proprio per questo tendente all’adipe già da allora).
Sto parlando di un barattolo di latte condensato prodotto da una celebre marca alimentare allora esotica, se non esoterica, che soltanto la cieca smania di progresso tipica di quegli anni ha potuto a poco a poco naturalizzare. Il latte nestlé, così era chiamato in famiglia, era il sostituto euforico del latte in bottiglia, una roba che faceva risparmiare a mia madre il complesso calcolo delle scadenze ravvicinate imposte dalla centrale del latte, facendo guadagnare a me uno dei massimi piaceri dell’infanzia: quello di mangiarlo, possibilmente di nascosto, col cucchiaio direttamente dalla latta, senza passare dalla tirannia dell’acqua calda che, sviluppandolo, lo banalizzava. Il latte nestlè non andava zuccherato nella tazza perché era tale già alla fonte, cioè nel barattolo. Facile capire quanto fosse irresistibilmente dolciastro mangiato – si fa per dire – nature. E quanto fosse high imbevere nella sua viscosità un biscotto o un mottino anch’essi, ovviamente, rigorosamente industriali. Non so cosa ne direbbe Slavoj Žižek, ma posso immaginarlo: era la tirannia dell’enjoy! consumistico che stava venendo fuori, e della quale io ero già allora, con responsabilità equamente distribuite fra famiglia e società, insospettata cavia. La mia dieta era, più in generale, a base di scatolette di tonno e pomodoro pelato, pesche sciroppate o confetture di albicocche, tutto rigorosamente in latta, immancabilmente insapore, ma con quell’inconfondibile retrogusto di metallo che sarebbe inutile, oggi più che mai, provare a esorcizzare. Ricordo perfettamente d’essere stato uno dei primi della mia generazione ad assaggiare sofficini findus bisunti, al formaggio e ai funghi, analoghi nel sapore ma non nel colore. Ricordo perfino il condimento della pasta con sarde, orgoglio d’ogni sicula cucina neoetnica, preconfezionato in un barattolo manco a dirlo in lamiera. Veniva austeramente fuori soltanto nei giorni della festa.
Tutto questo per dire che quando, secoli dopo, inventarono lo spremi e gusta alla vaniglia e al cioccolato, da consumare in tubetti o in minuscoli tetrapack trapezoidali spremendolo direttamente in bocca, per me era tutto déjà vu. Se pure con una gran voglia di rivalsa sociale. Ma come? Per anni avevo goduto del latte condensato con timorosa vergogna, avevo leccato il cucchiaio ancora ricco del suo unguento celestiale ingenuamente sperando che i miei genitori, complici silenziosi, non diffondessero la voce fra cuginetti infidi e mocciosi compagni di scuola. Avevo barattato ogni possibile agilità, ogni eventuale perfomance sportiva, ogni aspirazione verso un fisico da bronzo di riace per la mia dose giornaliera di quella sostanza bianchissima e dolcissima adoperata con goffa maestria. Ed ecco che adesso erano tutti lì a succhiare anche troppo pornograficamente quella medesima sostanza, senza neanche provare a dissimulare il loro evidente piacere. E soprattutto senza ammantare di buone maniere quell’ancestrale aspirazione al gusto supremo che ha caratterizzato, nel bene come nel male, la mia personalissima infanzia.
L’oggetto prediletto della mia infanzia mi ha insegnato a non vantare primati né cercare origini, e a rassegnarmi al fatto che, come diceva Kafka, occorre cominciare sempre dal centro: non dalle radici sotterranee o dalla foglia orgogliosa di sé ma dal filo d’erba oblungo che le mette in contatto. E che non ci sono, perciò, oggetti d’infanzia, forse perché non c’è, non c’è mai stata nemmeno l’infanzia. Se non nella nostra cattiva coscienza.