Pedro Almodóvar. La pelle che abito

29 Settembre 2011

È piuttosto tipico, nel cinema di Almodóvar, che gli elementi principali del racconto filmico, siano essi personaggi, oggetti, situazioni o risvolti della trama, divengano, all’improvviso (o gradualmente) qualcosa di diverso, arrivino, cioè, a trasfigurarsi, a mutare aspetto e a divenire altro da sé. In tal senso non fa eccezione nemmeno La pelle che abito, pellicola che già dal titolo pare rivestirsi di sfumature e rimandi concettuali tutt’altro che incidentali.

 

Con una perfetta assonanza con l’originale spagnolo, infatti, il termine “abito” si può leggere con la doppia accezione di abitare nel senso di occupare, risiedere o possedere, o quella di abito inteso come vestito, ovvero come qualcosa che si indossa e del quale, eventualmente, ci si può spogliare. E come potrebbe essere altrimenti in un film in cui protagonisti sono i corpi ancor prima dei personaggi? Corpi che si trasformano, che cambiano pelle, che dispongono gli uni degli altri ma che non si riconoscono in se stessi, non comunicano, non possiedono identità. E allora se l’abito non fa il monaco ancora meno lo fa il corpo, sembrerebbe dire Almodóvar; in epoca di chirurgie, manipolazioni e alterazioni corporali, la pelle sembra per davvero assumere le sembianze di un vestito che si butta via quando non piace più.

 

Ma il film non può, per forza di cose, fermarsi a riflessioni tanto elementari. Infatti quello che Almodóvar intende mostrare è ben altro. Egli, soprattutto, pare intento a dipingere un universo nefando e perverso ove l’irrinunciabile (per lui) côté melodrammatico, viene a fondersi (per la prima volta) con atmosfere da horror di maniera. Un contesto nel quale, a costo di smarrirsi, il regista cerca di descrivere il decadimento della società di oggi, di un mondo grottesco, cioè, in cui l’apparenza oltre a manifestarsi come unico metro estetico, sembra anche essere il solo veicolo per l’affermazione. E entro cui trovano spazio mostri di antica memoria, come Robert, il protagonista, una sorta di Frankenstein al contrario che, plasmata la propria creatura, sente crescere per essa desiderio invece che repulsione. E che proprio di Frankenstein tuttavia, si trova a condividere il destino, cadendo vittima di sentimenti nei confronti della propria creatura tanto inevitabili quanto distruttivi.

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