Per Enzo Jannacci

30 Marzo 2013

A farmi conoscere Enzo Jannacci, cinquant’anni fa, sono stati mio padre e mia madre, entusiasti dello spettacolo Milanin Milanon, andato in scena al Teatro Gerolamo nel 1962 per la regia di Filippo Crivelli. Il disco d’esordio, La Milano di Enzo Jannacci, con la sua copertina rosso-nera, girava in continuazione sul giradischi di famiglia. Quelle canzoni così lontane dalla moda corrente (Beatles, Rolling Stones), così fuori tempo e così vive, i miei fratelli e io le ripetevamo a memoria, come tante preghiere. A Milano, in quegli anni, il dialetto circolava ancora: lo si parlava dal prestinaio (panettiere), all’ufficio postale e persino a scuola; anche i neo-milanesi come noi lo masticavano abbastanza per apprezzare Tì te sé no, Sun chì sensa de tì o M’han ciamà, nella cui straziante malinconia naufragavamo voluttuosamente.

   

   

Ricordo bene la prima apparizione di Jannacci in tivù, con El purtava i scarp del tenis: un marziano occhialuto dall’aria allucinata, che reggeva la chitarra sotto il mento, sparando fuori una voce metallica, un po’ chioccia. Una bomba. Non era la prima volta che il milanese si affacciava alla canzonetta, ma quello di Jannacci non era il meneghino sornione di D’Anzi, in fondo non molto diverso dal napoletano “nazionalizzato” di tanti classici: era un ostrogoto spigoloso, selvaggio, gesticolante, che sembrava piovere da un altro pianeta. Canzoni, per molti versi, pesantemente “straniere”; eppure in loro si riconosceva la Milano di ogni giorno, la città delle fabbriche e delle periferie, del Duomo e dell’Idroscalo.

   

    

Le radici dell’arte di Jannacci affondano nella grande tradizione comica della canzone italiana, che dalla “macchietta” di Maldacea a Petrolini, a Rascel, approda negli anni ‘50 a Carosone e Buscaglione; ma in questo filone, Jannacci è il primo a fondere organicamente nella sua poetica comico e patetico, umorismo e critica sociale. Andava a Rogoredo è una stralunata canzone d’amore, ma è soprattutto un ritratto “dal basso” della Milano del boom.



Quel che sun dré a cuntav l’è üna storia vera
de vün che l’è mai stà bun de dì de no.
E s’eren cunussü visin a la Breda:
lè l’era de Rugured, e lü el sù no.
Un dì lü l’avea menada a vedé la fera,
la g’aveva un vestitin culur de trasü.
Disse: “Vorrei un krapfen, non ho moneta…”
“Pronti!”-el g’ha dà dés chili, e l’ha vista pü.

Andava a Rogoredo a cercare i sò dané.
Girava per Rogoredo e el vusava ‘me ‘n strascé:
“No no no no, non mi lasciar!
No no no no, non mi lasciare mai, mai, mai!”



Già nelle canzoni di Simonetta e Gaber, qualche anno prima, si affacciava una Milano marginale, coi suoi quartieri e i suoi trani; in Jannacci spuntano le fabbriche (qui, la Breda), le catene di montaggio e le lamiere (Prendeva il treno), le povere botteghe del centro (Tì te sé no), le case di ringhiera, i commissariati e addirittura gli obitori (M’han ciamà). I suoi personaggi sono spesso dei poveretti le cui disgrazie non riescono a elevarsi fino al tragico. L’innamorato derubato di Andava a Rogoredo arriva a meditare il suicidio, ma alla fine conclude che per ammazzarsi c’è sempre tempo, e che è meglio cercare intanto di recuperare i soldi. Potrebbe sembrare una risoluzione molto pragmatica, se non fosse che il metodo per riottenerli è quello di urlare per le strade “come uno straccivendolo”, in italiano, un ritornello da canzonetta. L’appassionato “non mi lasciar” è rivolto in effetti ai dané perduti; la sua impotenza investe di sinistri riverberi comici la poesia manierata dei parolieri. Questa caratteristica oscillazione fra comico e sublime è puntualmente sottolineata –qui come altrove- dall’alternarsi di lingua e dialetto; l’italiano, in Jannacci, suona come una lingua straniera, ha sempre qualcosa di legnoso, di stantio (“Triste è un mattin d’aprile sensa l’amore”); il dialetto è la lingua della realtà, della vita vera. Il milanese di Jannacci (e di Dario Fo, autore di alcune memorabili canzoni) non è quello di Bracchi (paroliere di D’Anzi); l’autore ha indicato un suo punto di riferimento in Delio Tessa, scoperto nel periodo di Milanin Milanon, ma di questo e di altri modelli letterari è difficile trovare traccia nei suoi testi; la poesia tradizionalmente intesa non è l’obiettivo a cui tende; le parole sembrano uscirgli direttamente di bocca, senza nemmeno passare per la pagina.

   

   

La lingua parlata, in Jannacci, non è un semplice strumento di comunicazione: è la materia di cui sono fatti i suoi personaggi. Si veda Prendeva il treno:



S’en conossuti alla catena di montaggio,
lei tutta bianca, che spiccava pel candor.
Gigi Lamera, ed abitava dietro a Baggio,
era il suo nome, ma non era un tipo snob.

“Scusi signore, per andare alla toletta?”
“Scusi signora, ma rispondere non so”
“Lei al lavoro come viene?” “In bicicletta”
“Ma non è fine, la credevo un gran signore…”

Prendeva il treno per non essere da meno,
prendeva il treno per sembrare un gran signor.

 

In Prendeva il treno il dialetto resta sullo sfondo, ma è su quello sfondo rimosso che l’italiano affettato e traballante dei due protagonisti acquista il suo senso. Anche la voce narrante sembra contagiata dalle smanie dell’operaia “chic”: dal mezzo milanese iniziale (“S’en conossuti”) passa a un italiano libresco, degno delle più trite canzonette (“pel candor”); nel terzo e nel quarto verso arriva fino a esibire un costrutto spericolatamente poetico, quasi dantesco (“Gigi Lamera, ed abitava dietro a Baggio,/ era il suo nome…”). Perché qui si tratta di non essere da meno, o di essere addirittura fini. Gli operai si danno del lei, si chiamano signore e  signora, i servizi igienici della fabbrica diventano un’improbabile toletta (ma con la e larga, alla milanese, in rima con biciclètta); Gigi parla per inversioni canzonettistiche (“rispondere non so”), dichiara –con l’aria di un uomo di mondo- “vivo a Baggio” come dicesse “vivo a Montecarlo” (Baggio è un quartiere della periferia milanese). Anche qui, come in Andava a Rogoredo,  abbiamo a che fare con un fallimento: nonostante gli sforzi per adeguarsi alle pretese della sua dama (il treno, l’italiano forbito, la cravatta dell’Upìm), Gigi non riuscirà a realizzare il suo sogno d’amore, anzi verrà licenziato perché sorpreso in fabbrica a ritagliare lamiere per confezionare un futuristico mazzo di fiori. Il fallimento si preannuncia con una inopinata ricaduta nel dialetto, nella realtà innegabile della sua condizione: quando offre il metallico bouquet alla sua bella (“Voglia gradire questi fiori come omaggio…”) e lei chiede “Che fiori sono?”, lui si lascia scappare un “Signurina, i u fà mì!” (Signorina, li ho fatti io!). Dopo il licenziamento, il dialetto torna a gravare come una cappa di piombo sul povero Gigi, incapace di confessare la sua disgrazia e di spiegarne i veri motivi (“adesso è ottobre, fa già freddo, ma il coraggio/ di dirlo in casa, quel perchè, lü ‘l ghe l’ha nò”).  

 

Gigi Lamera è un personaggio comico; ma Jannacci non si limita a ridere (e a farci ridere) della sua inadeguatezza: noi partecipiamo di cuore al suo goffo tentativo di riscattarsi, di conquistare la sua bella, fino alla rovina. Il comico –specialmente quando è legato all’uso di un dialetto- comporta in genere disapprovazione sociale, se non addirittura disprezzo, nei confronti di chi è oggetto del riso: i personaggi di Jannacci, invece, suscitano quasi sempre simpatia, addirittura commuovono. Canzoni come M’han ciamà, Tì te sé no o Senza de tì,  terribilmente struggenti, sembrerebbero incompatibili con la vena giullaresca che domina nel disco del ’64; invece, tra il loro patetismo e l’umorismo di Andava a Rogoredo o Per un basin, non si avverte il minimo contrasto: è la stessa città che ora ride ora piange, ora urla ora sussurra. L’opera di Jannacci è tra le più organiche e compatte, tra le più vive e originali nella storia della canzone italiana. Definirla poetica - come si sarebbe tentati di fare - potrebbe risultare fuorviante: la sua scrittura non cerca in alcun modo di fare il verso ai modelli della “vera” poesia, e proprio da qui derivano, io credo, la sua forza e la sua profonda originalità.

   

   

La qualifica di genio - che nella canzone italiana si applica spesso a mediocrissimi talenti - nel caso di Jannacci è quasi obbligatoria. Se la genialità è la capacità essere fino in fondo ciò che si è, di assecondare senza compromessi e senza esitazioni la singolarità del proprio modo di sentire, di esprimere, allora Enzo Jannacci è uno dei rari veri geni della nostra tradizione popolare.

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