Arte: perfomance al limite

25 Gennaio 2025

Cage Piece, la prima delle One Year Performances di Tehching Hsieh prese avvio nel 1978. L’autore s’impegnò a trascorrere un anno intero all’interno di una gabbia di legno installata nel suo studio, senza fare nulla: né leggere o conversare, ascoltare la musica o guardare la televisione. Nulla. Ogni tanto il suo amico Chen gli portava il cibo o dei vestiti puliti e svuotava il secchio usato come latrina. Ogni tre settimane il pubblico (in realtà un pugno di fanatici di queste cose) era ammesso nello studio, per quanto Hsieh evitasse accuratamente ogni forma di comunicazione. L’intero progetto era stato autenticato con un atto legale di impegno sottoscritto da Robert Projansky l’avvocato che insieme al critico e curatore Sieth Siegelaub aveva redatto il primo modello per la certificazione (e la vendita) dell’arte concettuale. L’integrità dell’azione di Hsieh era garantita dai sigilli posti sulle sbarre della gabbia. Accanto alla certificazione legale agiva inoltre un marcatore corporeo. Hsieh entrò infatti nella sua gabbia con la testa rasata, e ne uscì con una lunga chioma. Fece così anche in tutte le successive azioni.

Nel 1980 prese il via Time Piece. Sulla base di un’analoga dichiarazione legale, Hsieh s’impegnò allo scoccare di ogni ora a vidimare una scheda su un timbracartellino, di quelli che servivano (e servono ancora) per certificare l’ingresso in fabbrica o in ufficio. Questo compito gli avrebbe impedito di allontanarsi dal suo studio per più di un’ora, obbligandolo a non dormire più di 59 minuti consecutivi per un anno intero.

Outdoor Piece, del 1980, consistette invece nel vivere all’aperto sempre per un intero anno lungo le strade di New York, senza alcun riparo e senza mai entrare in un edificio. Fece seguito Rope Piece, che prevedeva di trascorrere un intero anno rimanendo unito a un’altra performer, Linda Montano, grazie a una corda lunga poco meno di due metri e mezzo legata intorno ai fianchi senza mai toccarsi.

Nel suo insieme il progetto si concluse con No Art Piece nel 1985. Un anno sabbatico di integrale estraneità al sistema dell’arte: non leggere, non parlare, non vedere alcunché di arte. Seguì un intervallo di tredici anni; al compimento del cinquantesimo anno di età dichiarò di non fare più arte. E non la fece.

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Come è stato osservato, con cinque lavori in cinque anni Hsieh si era privato, nell’ordine, dei contatti con il mondo, del tempo biologico, del riparo e d’ogni comfort, della privacy e infine dell’arte stessa.

Il memorabile lavoro di Hsieh è il fulcro del libro di Stefano Velotti, Sotto la soglia del controllo. Pratiche artistiche e forme di vita (Laterza 2024) dedicato proprio all’intreccio tra forme e strutture di controllo (mediate dal diritto, come dalle convenzioni sociali) e non controllo (cioè l’infrazione delle regole, una cosa che una consapevole pratica artistica dovrebbe essere in grado di affrontare).

Cage piece implica un punitivo e autoimposto controllo come forma di reclusione carceraria: “la vita come una condanna a vita”, secondo le parole di Hsieh, e al tempo stesso l’impossibilità di bastare a se stessi – dovendo confidare, per la sussistenza, nell’apporto dell’altro. Timeclock Piece condizionava corpo e mente del performer al controllo orario del regime industriale e burocratico, incarnando il taylorismo nella filologia stessa del lavoratore. La libertà di pensiero consentita nel primo lavoro si contraeva a un sistema di rendicontazione fine a se stessa e a uno stato di allerta permanente.

Outdoor piece era invece la rinuncia a ogni tipo di controllo individuale, autoimposto o meno, consegnandosi agli imprevisti di ogni tipo di una metropoli. Rope Piece obbligava infine a una convivenza coatta che impone la costante negoziazione di ogni atto della vita quotidiana con una figura estranea. Il rigoroso divieto di contatto fisico evita il rischio di confondere l’arte con la vita: era una distanza che semplicemente non poteva essere colmata, obbligando a essere al tempo stesso relativamente congiunti e relativamente estranei. Nello spazio dei due avverbi entrava in gioco una riconsiderazione integrale dell’esistenza individuale e plurale a un tempo.

Il lavoro di Hsieh da questo punto di vista offre molti spunti di riflessione, a partire proprio dall’esito imprevisto dell’Outdoor Piece. Nel momento cioè in cui Hsieh venne arrestato per vagabondaggio e portato alla stazione di polizia, infrangendo così il proprio impegno. Ciò che infine doveva prevalere, secondo il parere dell’illuminato giudice del tribunale di New York Martin J. Erdmann che lo scagionò dalle accuse, restava tuttavia la norma dell’artista. Come osserva qui Velotti, “la rigidità delle regole autoimposte, la persistenza del controllo sulla propria performance, si rivela proprio nel momento in cui la realtà ha il sopravvento”. Ne discende così un’analisi molto accurata delle conseguenze politiche di questa impressionante collisione tra coscienza individuale e sfera sociale. A partire dalla biografia stessa dell’autore: in quegli anni Tehching Hsieh si faceva chiamare Sam, ed era un “illegal alien”, un emigrato taiwanese senza permesso di soggiorno.

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One Year Performances di Tehching Hsieh.

Nel loro insieme i primi quattro One Year Performances mettono così in atto il complesso rapporto tra la propria volontà e le forze che eccedono il controllo del soggetto. La durata stessa dei progetti, insopportabile al solo pensiero, mette in atto il fenomeno più importante e conseguente. Nel lungo periodo ogni condizione imposta e rigidamente delimitata si scontra con quanto non prevedibile né controllabile. È una dimensione sociale importante da esplorare e verificare. Ed è proprio questo, conclude l’autore, ciò che deve accadere in ogni opera d’arte davvero riuscita.

Il senso complessivo di queste azioni riguarda così “una condizione esistenziale, sociale, giuridica, politica, in cui si gioca una partita complicata e senza fine tra controllo e mancanza di controllo”. Senza tuttavia scivolare nella pedagogia diretta, o peggio ancora nella spettacolarizzazione. Per certi aspetti, chiamarle o intenderle “performances” può essere fuorviante: ricondurrebbe a un campo di azione non di rado discutibile, nella sua compiaciuta teatralizzazione dell’estremo – o nella futilità commerciale di certe odierne prestazioni.

Hsieh fu straordinariamente consapevole nel mantenimento di qualità e di intenzioni del lavoro. Il livello cui lo seppe governare senza doverlo troppo spiegare resta d’impressionante lucidità. “Ciascuna performance sembra offrire al modo di una sentenza gnomica da ‘consultare’ per fare i conti con se stessi e con la forma di vita che abitiamo”, commenta Velotti, e non si può che concordare. Sta in questo, in fin dei conti l’ammirevole distanza tra l’abbacinante autenticità del lavoro di Hsieh e l’estetismo autoindulgente delle stellate performer che agiscono, ormai da troppi anni, nel mainstream artistico. Invecchiare bene e andarsene al momento giusto è anch’essa una forma d’arte.

A partire da questo caso, il libro affronta e discute queste cose. I paradossi e i problemi legati all’intreccio tra controllo e non controllo. La maniera in cui certe pratiche artistiche rendono visibile la rete di regole e consuetudini che regolano la quotidianità. La necessità conseguente di non definire formalmente queste pratiche artistiche bensì di comprenderle in relazione alla nostra stessa esperienza. La capacità che può avere l’arte nell’esplorare e sfidare zone non regolate dal diritto. La necessità che ha ogni cultura di dotarsi di regole, di forme di controllo, di dominio e di regolazione. Il conseguente rapporto tra regole giuridiche e “la totalità indeterminata dell’esperienza possibile, della vita nelle sue infinite declinazioni”. Questi sono gli assunti di base dell’importante studio di Velotti. Che si chiude con un secondo studio di caso, quello dell’opera di Thomas Hisrchhorn, e in particolare modo quei suoi Pixel-collages che giustappongono patinate immagini di moda a insostenibili close up di corpi martoriati dalla guerra e dalla violenza. Qui l’uso della pixelatura viene rovesciato. La bellezza convenzionale di corpi e merci viene oscurata per dare drammatica evidenza a ciò che nella società del controllo viene rimosso. Ridare forma al corpo individuo, violato e vilipeso, che resta ed esiste come fattualità, irriducibile alla rimozione prodotta dal corpo sociale egemone. E anche qui, in conclusione, l’autore muove da un quesito espresso in tutta la sua angosciosa attualità: “come dare una forma al caos e alla crudeltà del mondo, senza che tale forma resti innocua e impotente, una semplice veste estetizzante, funzionale solo a far entrare la violenza, l’ingiustizia la bruttezza del mondo nel bel mondo dell’arte?”.

In copertina, One Year Performances di Tehching Hsieh.

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