Prof, ma Lei ce l’ha la vocazione?
Un giorno, durante un intervallo, mi avvicino al gruppo delle ragazze terribili di una terza: stanno discutendo animatamente e sono curioso. «Ecco, ad esempio, Lei, prof, lo ha proprio scelto di fare il professore?». Devo avere esitato interminabili decimi di secondo, prima di rispondere, perché sapevo che la domanda della quattordicenne, media del 10, leader delle femministe contestatrici della classe, avrebbe potuto avere conseguenze… «Beh, ho fatto il prof appena laureato, poi ho lavorato trent’anni nell’editoria e nel giornalismo, ma visto che in quel settore a un certo punto non c’è stato più molto lavoro sono tornato a insegnare». «Visto? – fa Angela alle altre ignorandomi di lì in poi come di solito ignora tutti i prof – vedi che anche lui insegna per ripiego? Quello di Musica voleva fare il musicista, quella di Arte voleva fare l’architetta, quello di Scienze voleva fare lo scienziato… Nessuno voleva fare il prof!»
“La scuola fa schifo”
Quella sua analisi sociologica mi gira ancora in testa, in particolare nel reparto “rimorsi&dubbi” che costantemente pulsa nella testa di un prof. Insieme al reparto “occhio-al-merdone” e a quello “questo-va-fatto-per-evitare-rogne”. Sono i tre reparti del prof statale che più somigliano a certi personaggi di Gogol e Dostoevskij, quei burocrati spenti e livorosi che per un modesto stipendio devono sopportare l’assurdità kafkiana di un sistema perverso che avvilisce creatività e gioia, sistema che dopo anni di lavoro in questo settore non ho ancora capito quando sia stato inventato, e perché, e soprattutto da quale mente sadica e triste. Il prof si muove in un terreno nemico, ed è sempre solo contro un esercito di potenziali intimidatori: il dirigente scolastico di turno con le sue collaboratrici di turno, colleghe isteriche o invidiose, genitori feroci che danno per scontato che tu sia un fallito scansafatiche che sevizia il suo bambino svogliato e maleducato, eccetera… Infine incombe l’Alibi Avvilente Numero Uno: “La società in continuo degrado esprime ovviamente questa scuola, che fa schifo”.
Quando escono nuovi libri sulla scuola, quindi, devo distogliermi da questo tran-tran, e fare appello in testa al piccolo minoritario reparto “però-qualcosa-di-bello-oggi-l’ho-fatto-accadere”. “Tutti” dicono che la scuola italiana è in crisi. “Tutti” dicono che va fatta l’ennesima riforma di questo e di quello. “Tutti” i prof pensano “è il solito teatrino giornalistico-politico-sindacale: a ondate si strilla, si annuncia, si fa un apparente qualcosona, e poi qualcosina cambierà perché niente cambi, come si dice nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa; saremo sempre pagati poco e saremo sempre fatti sgobbare lontano dagli occhi di tutti”; il bidello si chiamerà “collaboratore scolastico”, i voti si chiameranno “competenze”, che saranno scritte in bla bla esoterici al posto degli obsoleti numeri arabi decimali, il preside si chiamerà “dirigente scolastico”, la “vicaria” si chiamerà “prima collaboratrice”, l’allievo con handicap si chiamerà “diversamente abile”, e una eterna girandola di acronimi ministeriali (il Ministero si chiamava MIUR, ora si chiama MIM) dovrà essere appresa nei periodici soporiferi corsi di aggiornamento.
Riaccenderci ogni mattina, per riaccenderli
Fiaccole non vasi. Confronto critico sulla scuola di oggi e, soprattutto, su quella di domani (Rubbettino 2023) è una raccolta di brevi interventi coordinata dal giornalista del “Corriere della Sera” Alessandro Vinci. «I giovani sono fiaccole da accendere, non vasi da riempire» lo avrebbe detto Plutarco 2.100 anni fa circa, poi citato da Michel de Montaigne 450 anni fa circa. Dopo almeno 150 anni di pedagogia anche geniale ed eroica, di riforme ministeriali anche epocali e sensate, leggendo questi contributi e leggendo la terza e ultima parte della “trilogia di Cenci” di Franco Lorenzoni (Educare controvento. Storie di maestre e maestri ribelli. Sellerio 2022) la cosa più efficace da fare per un prof che voglia fare qualcosa di meglio del dovuto per i suoi studenti è tornare ai grandi maestri della Grecia classica.
Quintessenza di ogni possibile saggezza acquisibile durante una vita intera e condivisibile con bambini, ragazzini e ragazzi: conosci te stesso, sapere di non sapere, il male più grande per l’Umanità è l’ignoranza (Socrate), e poi Pitagora con il progetto della edificazione da zero di una città “filosofica”, e poi il teatro, gli stoici, la poesia. Poi c’è stato Rousseau. Poi ci sono stati Pestalozzi, Montessori, Piaget, Dewey, Vygotskij, Freinet, Milani, Brunner, Gardner…
In Fiaccole e vasi rileggiamo le idee chiarissime e inascoltatissime di Daniele Novara e Umberto Galimberti, ritroviamo le azioni-progetto di prof come Lorella Carimali e Carlo Mazzone o dirigenti come Eugenia Carfora, vediamo finalmente ospitati e sdoganati prof-influencer come Sandro Marenco e Matteo Saudino (seguitissimi dai liceali; noi prof preferiamo sghignazzare ogni tanto con le parodie del collega-teatrante Filippo Caccamo). Le esperienze meno note, e ammirevoli, sono quelle che arrivano da chi lavora nelle carceri, negli ospedali, nel volontariato sociale e internazionale (Nicolò Govoni ha trent’anni e sta lavorando in Kenya con la sua ONG Still I Rise!)
Si-può-fare!!!
Certo, rileggere Lorenzoni è un’altra cosa: il suo italiano è bello, le emozioni e le intuizioni che ha suscitato e trascritto per decenni a Cenci sono sempre stupende e ispiratrici. Cosa può scrivere, di nuovo, Lorenzoni? Questa volta aggiunge alcune pagine finali sulla necessità di avere finalmente in Italia una legge sulla cittadinanza che sia almeno uno ius scholae o ius culturae, come una civiltà europea oggi richiede. Ma tutto quanto Lorenzoni ha sperimentato, applicato in tutta la sua vita di maestro, pedagogo, attivista, ricercatore, resta ancora perfettamente da fare o fattibile; ce lo ripete ancora in Educare controvento tra un omaggio e l’altro ad alcuni suoi maestri e compagni di esperienze. Tutto quello che ho provato a realizzare, tra le azioni che Lorenzoni consiglia, ha funzionato e funziona: soprattutto la consapevolezza che in realtà le maglie all’interno del sistema burocratico ministeriale sono molto larghe; il diritto costituzionale alla libertà di insegnamento esiste eccome! “Si-può-fare!!!” come urla Gene Wilder in Young Frankenstein.
Quando si evita la lagna in aula docenti si può andare dai propri studenti e fare di tutto: sessioni di narrazione orale, scrivere e rappresentare insieme copioni teatrali, spostare i banchi aprendo in mezzo alle mura un’agorà di empatia e di dialogo, cambiare gli spazi per cambiare l’apprendimento, scrivere e cantare canzoni, disegnare in silenzio, uscire nel bosco e osservare la natura, ribellarsi – oh sì – a luoghi comuni, pregiudizi e regole stupide.
Qualcosa ho fatto anche nella classe di Angela, anche se secondo lei “non c’abbiamo la vocazione”. Certo non bisogna avere fretta. Non bisogna avere paura. Non bisogna essere stanchi. Bisogna cercare di sorridere. Entrare in scena con il proprio corpo. Avere pazienza. Farsi rispettare. Insegnare le buone maniere sparite ovunque. Ma Franco Lorenzoni ha sempre ragione:
«Trasformare le nostre pratiche educative è urgente e necessario perché ogni scuola diventi luogo di creazione culturale, perché il sapere di cui abbiamo bisogno ancora non c’è e va elaborato in più contesti possibili e in primo luogo nella scuola pubblica. È importante fare tesoro di ciò che di meglio è stato realizzato nel passato, come ho cercato di suggerire con qualche esempio in queste pagine, ma è altrettanto necessario essere in grado di intercettare e dare spazio con sensibilità e intelligenza a ciò che di positivo si muove nel presente, dando fiducia a chi viene dopo di noi e si trova a vivere in un mondo che, per molti versi, non siamo riusciti a rendere migliore di come lo abbiamo trovato».