Rio de Janeiro. Simone Bacamarte, psicofarmacista
A Itaguaí, nello stato di Rio de Janeiro, l’alienista Simone Bacamarte costruisce una Casa di folli chiamata Casa Verde, dove ricovera le persone per curarle. Simone Bacamarte è un uomo che dedica la sua vita alla scienza, allo studio della malattia mentale. In un certo senso si accorge che la follia, più che un’isola perduta nell’oceano della ragione, è un vero continente e comincia a ricoverare torrenti di folli, in nome della scienza, una nuova psicologia per ampliare il territorio della follia e, forse un giorno, debellarla.
È plausibile che gli operatori della salute mentale di Rio de Janeiro siano stati influenzati da L’alienista di Machado de Assis (1839-1908), pubblicato tra il 1881 e il 1882, certo è che rispetto alla ripetizione del fenomeno Simone Bacamarte a livello mondiale - mi riferisco alle idee chiave della nuova edizione del Manuale Diagnostico dei disordini mentali (DSM-V) - mantengono il medesimo sguardo ironico di Machado de Assis a oltre cent’anni dalla sua morte. Dal racconto scopriamo che l’alienista, contestato dal popolo, deciderà di ricoverare se stesso e di morire alla Casa Verde diciassette mesi dopo. Nemesi, l’unico davvero folle era lui.
L’ospedale Pinel di Rio de Janeiro si trova nei pressi della Spiaggia Rossa, così denominata causa una rivoluzione comunista del 1935. Proprio sotto il Pan di Zucchero. Scendere a piedi dal Pan di Zucchero è impresa folle se non si è allenati, ma durante il cammino s’incontrano scimmie e l’arrivo alla Spiaggia Rossa è spettacolare. Lì giace l’Ospedale Philippe Pinel - costruito circa un secolo prima della rivolta comunista della Spiaggia Rossa - sulla base dell’ideale filantropico e manicomiale descritto da Michel Foucault nella Storia della follia.
La medesima tipologia architettonica europea. Però il grande edificio coloniale - oggi adibito a strutture sanitarie differenti - ha quel fascino doppiamente esotico, quel doppio cannibalismo che ho cercato di descrivere nell’ultima cartolina. L’ospedale è bianco e fa subito venire in mente il racconto di Machado de Assis, benché la Casa di Bacamarte fosse verde.
Molti uffici sono rimasti simili, vengo invitato a entrare in una grande sala, tavolo enorme, ricoperto di vetro, inizio secolo, sedie della medesima epoca in pelle, mi pare di essere in un mondo che ho dimenticato. In fondo anche le nostre università del Centro-Sud, dove ho studiato, ai tempi erano così.
Insomma, grande tavolo rettangolare, tutti seduti, mi mettono capotavola, dietro di me una grandissima lavagna di ardesia (o qualcosa di simile) e gessi bianchi per scriverci sopra. Una ventina di persone mi guardano: psichiatre infantili, pediatre, psicologhe, terapeute familiari, psicoanaliste. Scrivo al femminile perché nella stanza uomini eravamo in due.
Una lunga conversazione intorno a un caso clinico. Una moltitudine eterogenea di prospettive riguardo a un giovane la cui passione somiglia alla Passione secondo G. H., di Clarice Lispector (1920-1977):
“Non so che forma dare a ciò che mi accadde. E senza dare una forma nulla esiste. E – e se la realtà è come se nulla esistesse?! forse non accadde nulla? Posso solo comprendere ciò che mi accade, ma accade solo ciò che comprendo – che ne so del resto? il resto non esiste. Forse nulla esiste! Solo una lenta e grande dissoluzione. La mia lotta contro questa grande disintegrazione è tentare di darle una forma. Un forma contorna il caos, una forma costruisce la sostanza amorfa – la visione di una carne infinita è la visione dei folli, tagliare la carne in pezzi e distribuirli per i giorni e le forme – allora non sarà più perdizione e follia: sarà nuovamente vita umana. La vita umana. Avevo umanizzato troppo la vita.” (p. 12).
Qualcosa che sfugge passando da un periodo di compulsiva sottomissione - lavarsi troppo spesso per il timore di virus e batteri, avere una visione quasi sacrale del mondo adulto, dare forma a tutto, compulsivamente – a un delirio molare in cui racconta di trovarsi in situazioni affollate con maschi adulti che lo molestano eccitandosi, strofinandosi contro di lui. E di perdere la testa. In una famiglia militare - ambiente marcatamente omofobo - sperimenta la perdita del senso.
Alla psichiatria infantile di Rio queste conversazioni sono sensate, spazi di confronto in cui è ancora ammesso pensar la clinica.
Anche qui aspettano le medicalizzazioni affrettate e semplificatrici del DSM-V, le si attende come un evento dissolutivo, disintegratore, che distrugge la lingua della vita quotidiana e la frammenta, come in un balbettio schizofrenico formato da pezzi di carne da distribuire per i giorni e le forme. Anche qui, come da noi, si attende l’avvento del grande mostro farmacologico che, con mezzi e poteri ben più grandi del Dottor Simone Bacamarte, sacrificherà tre quarti della popolazione alla follia della guarigione. Quando, per prevenire le psicosi, verranno dati piccoli dosaggi di antipsicotici ai bambini a rischio, la follia sarà padrona dell’umanità. Non c’è molto da attendere, a meno che queste galline farmaceutiche dalle uova d’oro non facciano il bel gesto di Bacamarte. Uno dei componenti del gruppo clinico che ho incontrato parla un buon italiano e ha coniato un bel termine per definirli: psicofarmacisti.