Robert Capa: Immagini dal reale

2 Novembre 2022

Dire Robert Capa vuol dire aprire una finestra sul grande fotogiornalismo, sul reportage di guerra, sull’Agenzia Magnum da lui anche fondata nel 1947, su alcune immagini diventate iconiche catturate durante la guerra civile spagnola o lo sbarco in Normandia. Capa è forse diventato egli stesso icona di questo genere, della spinta a catturare, tramite la fotografia, la verità del reale, del fatto come avviene sotto gli occhi per darne testimonianza oltre i confini in cui si trova ad accadere.

Come anche ricorda la mostra curata da Gabriel Bauret “Robert Capa – L’opera 1932-1954” ora in corso a Palazzo Roverella, a Rovigo, Capa nasce nel 1913, in Ungheria. Negli stessi anni in cui si svilupperà la sua carriera di fotoreporter, la fotografia vedrà contemporaneamente aprirsi di fronte a sé dei varchi totalmente inediti sulle proprie possibilità espressive: negli Stati Uniti, in particolare, Minor White formulava la sua teoria dell’equivalenza, grazie alla quale permetteva di sganciare la tecnica fotografica dalla realtà materiale, per vedere semmai attraverso di essa i significati allegorici che poteva includere e nascondere. Si sentiva una sorta di propulsione per fuggire dai significati che la materia nelle sue tre dimensioni usualmente offre, e che pareva l’unico argomento trattabile dalla fotografia. 

Le immagini di Capa implicano un ritorno o, meglio, la volontà di sostare nel reale, nei significati che possiede rimanendoci senza fuggirlo, e rimanendo in tutto ciò che questo comporta. Implicano, quindi, l’annullamento della legge dell’equivalenza di White: un volto, un’azione, un luogo, vengono visti dal fotografo per far parlare unicamente loro, dare spazio alla loro storia, non tanto per assumerli come simboli o per far loro assumere significati diversi nella mente di chi li osserva, quanto proprio per dare voce a una realtà contingente, al suo senso che alle volte rimane univoco.

Il fotografo, in questo caso, “vede” solamente, non si appropria di figure retoriche per parlare di ciò che ha davanti, ma fa un passo indietro per lasciare la parola a quel volto, gesto, spazio che parleranno in prima persona a chi li guarderà.

Le immagini di un reportage sono infatti solitamente dirette a una comunità distante dalla realtà che ritraggono per favorire la divulgazione di un sapere che altrimenti rimarrebbe ignoto, e per questo ci si può appellare solamente al grado di sensibilità degli occhi che vedranno e non tanto alla valenza allegorica del contenuto dell’immagine, perché in quel caso, semplicemente, non ne ha.

Tutte le oltre 360 immagini esposte, dal violinista col volto distrutto dopo la deportazione, alle donne che scappano sui marciapiedi dopo l’allarme di un attacco aereo, ai soldati che riposano tra le trincee prima di assaltare il nemico, sono sì simbolo del conflitto, delle sue conseguenze, delle derive che l’uomo può prendere, ma in quel momento sono e rimangono volti, luoghi e azioni che significano e possono significare soltanto se stessi, parlare di ciò che sono nel momento in cui esistono e si manifestano all’occhio.

La fotografia non dà nomi, dà semmai volti, forme, luce per renderle immobili nel tempo.

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Robert Capa, Violinista: Marzo 1939, Argelès-sur-mer o Le Barcarès, Francia.

Il valore estetico nelle fotografie di Robert Capa va individuato quindi nell’assioma secondo cui il reportage dimostra che la realtà può autonomamente disporsi nel modo più perfetto possibile per essere colta e comunicata. Il vero potere del reportage è affermare in modo definitivo che il reale può essere raccontato: il suo significato verrà estratto e riassunto secondo le sole scelte che il fotografo farà per individuare il punto di vista, la distanza, quanti e quali elementi dovranno entrare nella lente. 

Se riusciamo a capire che un uomo è stato colpito da un proiettile ed è morto, o che un esercito si sta preparando all’attacco, significa che il senso di un’azione è comprensibile attraverso gli occhi, trascinabile attraverso il tempo e la storia grazie alla sola vista.

La luce, nel reportage, serve e viene usata per dare forma al fatto evidente, all’accaduto testimoniato e testimoniabile, ed è per questo che sarà sempre la più giusta: ogni fatto trova il suo senso nel momento esatto in cui accade, che sia notte o giorno, mattina o sera; in lui si annullano le differenze, quelle che preferirebbero una o un’altra condizione per rendere al meglio un contenuto, trovando in ogni condizione possibile giustificazione e motivo d’essere. 

L’intento di Robert Capa è quello di denunciare la direzione che ha assunto una data realtà, ovvero di trovare nelle molteplici situazioni in cui si è mosso, in più di cinque conflitti bellici, i gesti, i momenti e la forma che l’uomo assume nel compierli che possano trasportare un messaggio eloquente in se stesso, trasferibile così com’è, per sollevarne il dramma e rivelarne gli incubi. La denuncia di Capa è il contenuto implicito delle sue immagini, nascosto nella forma che l’autore ha dato loro nel cogliere i momenti che le compongono: l’azione colta così com’è, significando solo se stessa, permette al fotografo di imprimere in essa anche il proprio sguardo, ed è per questo motivo che guardando il soldato del D-Day immerso in mare con l’ombra dell’artiglieria che dallo stesso mare tenterà di farlo sopravvivere il più possibile, non vediamo soltanto qualcosa che è successo, e quel “non soltanto” è lo sguardo di Capa nascosto tra le forme e tra le ombre dell’immagine.

Le immagini di Capa paiono sollecitare lo sguardo non tanto a provare quello sconvolgimento che avrebbe di fronte agli orrori della guerra, ma lo spinge semmai verso una infinita desolazione, quella specifica disperazione e comune sconforto che l’uomo affronta quando si trova al limite di un qualsiasi stato di esistenza, e l’umanità che a volte riesce a sopravviverci dentro. La signora anziana che scappa da sola per strada o la fila di crocifissi di legno chiaro che segnalano l’indistinta morte di altrettanto indistinti uomini sfollati per fuggire agli scontri, la desolazione di una Germania neo-nazista che poco della sua presunta grandezza imperiale ha da mostrare sono il risultato di uno sguardo che tra ogni scenario possibile sceglie di far sopravvivere ciò che di più misero significa ogni circostanza bellica che l’uomo si prodiga di creare e alimentare. 

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Robert Capa, Crocifissi: Inverno, 1939, Francia. 
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Robert Capa, Germania: Settembre 1934, Saarbrucken, Saarland, Germania.

Allo stesso tempo, se uno scenario qualunque, un qualunque volto o uomo può talvolta trovare significato al di là di se stesso, la guerra elimina semantiche ulteriori che possano valicare i confini della sua unica esistenza: la guerra significa soltanto se stessa.

Ciò in qualche modo può implicare che la guerra, le sue dinamiche umane, fisiche e corporee, non significano altro da ciò che sono, ed è per questo che possono rimanere confinate in ciò che di loro si vede. Ogni intenzione autoriale, l’occhio stesso, dovrà trovare spazio e incunearsi tra le crepe del dato visibile, reale e testimoniato per trovare sfogo e spazio negli occhi che la accoglierà. 

La guerra, quindi, essendo essa stessa confinata nel corpo e nella mortalità delle cose viventi, non ha dimensione ulteriore in cui trovare esistenza e giustificazione. 

Fotograficamente, ciò comporta relegare la fotografia alla materia in cui nasce per farle svolgere il compito che più le è proprio: registrare per comunicare. 

Camminando tra le fotografie in mostra, significativamente esposte senza cornice né vetro per dare l’impressione di procedere in uno svolgimento continuo dal flusso quasi filmico, si annullano le differenze e le distanze tra quelli che di sala in sala paiono essere gli stessi soldati, uomini, volti, perfino luoghi e stagioni, riuscendo così ad accorgersi, finalmente, degli occhi dello stesso Capa.

Se da un lato, infatti, si cammina procedendo in avanti, seguendo cronologicamente il percorso del fotografo, un secondo cammino pare svolgersi a ritroso, riavvolgendosi in un’esplosione simile a quella che impunemente porterà via il fotografo nel 1955, facendoci d’un tratto ritrovare nel suo stesso sguardo, esattamente congruenti al suo dirigersi di fronte e rispetto al muoversi dei popoli che ha accolto, e i soldati, i fuggitivi inermi, i ribelli in combattimento, così da rendere palpabile anche il suono della campana che da John Donne arrivò in esergo al capolavoro di Hemingway che, tessendo la guerra civile in Spagna, tesse in fondo quella di ogni luogo in cui pure Capa ha ritrovato quegli stessi volti, luoghi, azioni, elementi di una realtà non solo confinata in se stessa, ma ripetibile senza variazioni, in grado di offrire forme identiche alle immagini che la racchiuderanno.  

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ITALY. Near Troina. August, 1943. Sicilian peasant telling an American officer which way the Germans had gone.
©Robert Capa © International Center of Photography / Magnum Photos.

Nello sguardo di Capa ognuno dei suoi soggetti ha trovato un luogo in cui sostare per ritornare a quel ventaglio di significati che l’accadere possiede, e che il conflitto in ogni caso cancella, accorgendosi così che Capa per poterli contenere tutti non ha mai potuto abbassare le palpebre su quegli occhi che, in verità, non si sono mai chiusi. 

“Robert Capa – L’opera 1932-1954”, A cura di Gabriel Bauret, dall’8 ottobre 2022 al 29 gennaio 2023 a Palazzo Roverella, via Laurenti 8/10, Rovigo.

Sito ufficiale

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M. Belpoliti, Robert Capa a colori

INDOCHINA (VIETNAM). May, 1954. Motorcyclists and woman walking on the road from Nam Dinh to Thai Binh. ©Robert Capa © International Center of Photography / Magnum Photos.

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