Romano Màdera, Lo splendore trascurato del mondo
In vesti sempre nuove la Storia talvolta si ripete perché, come lamentava già Qoèlet, anticipando il nichilismo molto prima della nostra era, ciò che è accaduto accadrà di nuovo. Ciononostante la Storia ci sorprende quasi sempre: quando ci aspettiamo prosperità arrivano crisi economiche, quando ci aspettiamo la pace, scoppia invece una guerra. Così, mentre il XX Secolo si chiudeva pieno di speranza, il XXI ha snocciolato, nel corso dei suoi primi vent’anni e poco più, una serie sorprendente di avversità. All’inizio il terrorismo, poi una crisi economica di portata mondiale seguita, quasi senza soluzione di continuità, da una pandemia e da una guerra alle porte dell’Europa. Nel frattempo è risultato sempre più chiaro che molti valori etici e politici dati per acquisiti una volta per tutte non lo sono affatto, anzi oggi sembrano più traballanti che mai. Infine, forse persino più pericoloso di tutto il resto, il cambiamento climatico molto veloce che colpisce un mondo altamente antropizzato sembra annunciare l’estinzione di molte forme di vita, compresa forse la nostra.
In un simile contesto qualcuno indice un convegno intitolato Eterno (i francescani hanno dedicato a questo argomento l’ultimo Cortile di Francesco tenutosi ad Assisi nei primi giorni di settembre), o scrive un libro sulla mistica, come ha fatto il filosofo e psicanalista Romano Màdera che pubblica per Bollati e Boringhieri un saggio dal titolo tanto accattivante quanto, apparentemente, inattuale e al limite dell’inopportuno, Lo splendore trascurato del mondo. Una mistica quotidiana.
Cosa c’è di eterno in un mondo che basa la sua economia sulla velocità dei cambiamenti, che consuma, mastica, butta via così tanto da non riuscire a smaltire i rifiuti, rischiando di trasformarsi in un’enorme pattumiera? E quale incanto troviamo in quello che ogni giorno ci passa sotto gli occhi, nella disperazione dei sopraffatti, nelle difficoltà materiali e nei disagi psicologici che colpiscono ovunque attorno a noi, quando non li viviamo in prima persona? Oggi l’atmosfera è pesante ovunque, il mondo spaventa ed è spaventato, ci sentiamo come se fossimo in bilico su qualcosa che percepiamo senza vederlo e, non sapendo come affrontarlo, rischiassimo di buttarci nel baratro spinti proprio dalla paura, dalla cecità, dall’immaturità e dall’incompetenza ad essere umani.
A queste osservazioni, in fondo scontate, Romano Màdera risponde – e ha ragione – che è proprio in tempi come questi, bui e difficili, che bisogna alzare lo sguardo per salvare se stessi e il mondo. Uno sguardo dall’alto e dell’alto, di ciò che va oltre le apparenze e le circostanze, rende più chiara la vista e allarga il cuore mostrando la bellezza intrinseca del mondo inteso non solo come Terra, ma come il tutto che ci circonda, l’universo intero e la nostra presenza in esso. Un tale sguardo apre la strada alla meraviglia dell’essere che riporta una luce nella tetraggine del presente. E questo essere presi dall’incanto del mondo, afferma Màdera, è un’esperienza mistica.
Mistica è una parola che suscita oggi, per lo più, reazioni negative, di fastidio o di diffidenza. Originariamente, insegna Marco Vannini, uno dei più importanti studiosi italiani di storia della mistica, essa era un aggettivo della parola teologia e indicava un discorso su Dio, ma “al presente [è] una parola dai molti significati, anche assai diversi e contrastanti, carica di valori e disvalori ben consolidati nel corso dei secoli” (M. Vannini, Storia della mistica occidentale. Dall’Iliade a Simon Weil). Attualmente, l’esperienza mistica è non di rado associata a qualche forma di disturbo psichico, o a fantasticherie e fughe dalla realtà, oppure a fenomeni straordinari vissuti da persone profondamente religiose. Romano Màdera sgombra il campo dagli equivoci spiegando di volere “invitare a esplorare una via diversa… [quella di] una mistica senza confini, ‘selvaggia’ come un fiore di campo”.
Un’esperienza mistica che l’autore definisce anche percezione estatica, e che non è rara; può accadere a chiunque sperimenti, di norma del tutto involontariamente, quello che Romain Rolland – insieme a Pierre Hadot e Michel Hulin autore di riferimento del saggio di Màdera – chiama sentimento oceanico. Questa emozione, continua, è un elemento comune che sta alla base di tutte le esperienze mistiche. Come diceva Simone Weil, e come chiunque si occupi di mistica constata facilmente, tutte le tradizioni mistiche, di ogni tempo e cultura, si assomigliano fin quasi all’identità. Il sentimento oceanico è “uno slancio che connette, che ci scioglie nell’universo; un abbandono potente, la meraviglia per lo splendore del mondo”.
L’effetto di questa esperienza è un senso di gioia profonda e inesprimibile, come del resto è l’esperienza mistica stessa di cui ogni mistico dice di non poterla tradurre in parole. D’altra parte, l’etimo della parola mistica rimanda proprio al silenzio. Chi è colto dal sentimento oceanico ha la percezione estatica di una realtà irraggiungibile dall’esperienza ordinaria, riconosce la vera natura della realtà e dell’essere, avverte l’interconnessione del molteplice che confluisce in una unità che non annulla le singolarità ma al contrario le esalta. Per farci un’idea possiamo usare come metafora il bianco, un colore senza tinta che contiene in sé tutti i colori esistenti e li esalta.
Nel suo saggio Romano Màdera affronta diversi temi, quali il rapporto tra mistica e psicanalisi, segnato dalla corrispondenza tra Romain Rolland e Sigmund Freud (che considerava le esperienze mistiche come espressione di disturbi psicologici e regressioni infantili); quello tra mistica e religioni istituzionali in cui approfondisce il senso dell’affermazione fatta da alcuni secondo cui la religione del futuro o sarà mistica o non sarà; quello delle esperienze estatiche indotte da sostanze psichedeliche e quello tra mistica e filosofia, a mio parere particolarmente interessante.
Màdera parla della filosofia del sentimento oceanico sostenendo che la filosofia non è solo una disciplina di studio ma è piuttosto uno stile di vita. Almeno così la intendevano gli antichi, per i quali la finalità del filosofare era quella di formare uomini, “capaci di migliorare se stessi, di raggiungere pienezza di vita, di contribuire alla costruzione di una città, di una polis – e quindi di una politica – orientata al bene e alla giustizia”. Persone capaci di apprezzare l’esistenza di comprenderne lo splendore al di là del dolore e degli orrori contingenti della vita personale e della storia, come testimonia l’esperienza straordinaria di Etty Hillesum che giustamente l’autore porta ad esempio di un “misticismo irriducibile a una classificazione”. Filosofi non sono gli insegnanti di filosofia, sostiene Màdera, e neppure quelli che scrivono di filosofia, ma quelli che vivono in modo filosofico cioè consapevole, interrogante, aperto alla meraviglia e alla contemplazione del mistero dell’essere.
Per Màdera la filosofia in un certo modo coincide con il sentimento oceanico, con la percezione di un’armonia, di una danza che la velocità della vita e il caos del mondo velano e oscurano, ma che è l’intima e permanente verità del reale. Così si può anche dire che il sentimento oceanico corrisponde al sentimento della realtà. La meraviglia che, come diceva già Platone, è la vera profonda passione del filosofo e sta all’origine di una vita filosofica, ne è ugualmente il fine. La filosofia dunque è uno stile di vita ed è, allo stesso tempo, una vera e propria terapia contro la “malattia del vivere inconsapevoli” e contro le passioni negative che ci avvelenano inutilmente come il risentimento, il rimpianto, l’ansia per il futuro. Quanto tutto questo oggi ci sia necessario, credo lo possiamo capire tutti. Una maggiore educazione alla pratica filosofica intesa nel senso che le dà Màdera nel suo libro ci avrebbe resi uomini e donne più profondi, meno manipolabili, meno fragili, più sereni e più consapevoli di quanto interdipendenti siamo gli uni dagli altri, di quale è il corretto rapporto tra noi e con la natura per vivere una vita più felice. Forse.
Certo è che abbiamo bisogno di una rinascita della spiritualità che vada oltre le appartenenze religiose senza escluderle, di un nuovo umanesimo finalmente laico, cioè che comprenda tutti non in una confusa indistinzione, ma in una vera unità in cui ogni diversità aggiunga senza togliere niente, come spiega molto bene Màdera richiamando un passo dell’Apocalisse di Giovanni in cui è detto che, alla fine, Dio dimorerà con gli uomini ed essi saranno suoi λαοί, parola da cui deriva laico, cioè suoi popoli. Nella Gerusalemme futura del sogno escatologico non c’è tempio né sacerdozio, solo i popoli e Dio, perché “l’intermediazione religiosa – il tempio e il sacerdozio – sono un passaggio, un mezzo, ma il senso compiuto, escatologico, del messaggio cristiano è il superamento di ogni intermediazione: la ‘laicità’ è quindi una finalità del mezzo istituzionale religioso, e non certo il contrario”.
La meta è l’unione nella diversità. L’amicizia che unì Thomas Merton, monaco trappista, Raymon Pannikkar, presbitero cattolico e filosofo, Thich Nhat Hahn, monaco zen, citati da Romano Màdera, è un bell’esempio di una comunione senza fusione, che rende chi vi partecipa una versione migliore di se stesso, che ingloba pur lasciando ciascuno all’interno della propria tradizione religiosa.
“La mistica è una dimensione antropologica” (Pannikkar). Tutti possiamo sperare di essere travolti dall’onda oceanica della meraviglia e, come Leopardi, naufragarvi dolcemente.