Roberto Saviano e Mimmo Borrelli in scena al Piccolo teatro / Sanghenapule tra mito e rito

6 Aprile 2016

Con il teatro in Italia non si diventa famosi. Il drammaturgo Mimmo Borrelli ha vinto tutti i premi del settore e conquistato senza sforzo il favore unanime della critica: provate però a nominarlo a qualcuno che non sia assiduo spettatore teatrale, e vi accorgerete di quanto flebile possa essere l’eco della scena.
Se la fama segue vie traverse, il talento dell’autore e attore napoletano non è però sfuggito a due vere e proprie star dello spettacolo italiano: Toni Servillo e, più di recente, Roberto Saviano.

 

Servillo ha dato pubblica dichiarazione di stima per il collega, ha interpretato i suoi testi e incluso alcuni brani in un fortunato recital dedicato a Napoli. Anche Roberto Saviano è rimasto profondamente colpito dalla immaginifica lingua di Borrelli: da questo vero e proprio innamoramento è nato il progetto di Sanghenapule, una produzione del Piccolo Teatro di Milano, firmata e recitata da entrambi per la regia di Borrelli.

 

Si tratta, dopo tutto, di una notizia sorprendente. In primis perché una celebrità che potrebbe facilmente ottenere il tutto esaurito – come già accaduto proprio al Piccolo, nel 2009 – decide di condividere la scena con un compagno ingombrante e di confrontarsi con una scrittura scenica lontana dalla propria. E difficilmente si potrebbe pensare a due personalità più diverse: Saviano misurato, cerebrale, meditabondo, proteso a una comunicazione limpida e immediata; Borrelli strabordante, viscerale, istintivo, vate di una poesia a tratti esoterica. 

Dal corpo a corpo di due individualità, ma anche di due codici, scaturisce la struttura stessa dello spettacolo, tutta costruita sull’alternanza tra mimesi ed esegesi, tra rito e discussione storico-politica.

 

 

Il punto di partenza è naturalmente Napoli, per entrambi patria amata nella sua polarità tra meraviglia e sfacelo, terreno vischioso da indagare senza sconti, centro delle opere prodotte fin ora. La materia si dipana intorno alla figura di San Gennaro, santo anomalo e anti-dogmatico che ben incarna l’anima sanguigna della città partenopea: un santo che non si scandalizza, che “entra nel merito”, che sembra capace di una speciale cura per la bassa umanità, un santo pietoso che arriva dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi.
“Raccontiamo le storie e non La storia del Santo”, avverte Saviano. Perché si tratta, a tutti gli effetti, della condivisione di un mito: un racconto molteplice la cui verità è da intendersi non in prospettiva razionalistica, ma come chiave di comprensione della realtà. Ed ecco allora che San Gennaro offre l’occasione per tornare sulla rivoluzione partenopea del 1799 (“la miglior classe politica che Napoli abbia mai avuto”), sulla piaga dell’emigrazione, e più in generale per delineare un ethos, quello dei partenopei, che pare sopravvivere tra le anse di una storia frastagliata e sanguinolenta. Roberto Saviano, vestito di nero, con un libro in mano, conduce lo spettatore dalla bocca Solfatara di Benevento, passando per le viscere bollenti e minacciose del Vesuvio, fino al centro immigrati Ellis Island: guarda gli spettatori, allude alla contemporaneità, strappa qualche sorriso con la sua pacata ironia, esplicita apertis verbis l’orizzonte nel quale si stanno muovendo lui e il suo “compare”.

 

Ma il mito, come ben sapevano gli antichi, è strettamente connesso al rito: alle parole si sovrappongono le azioni, la dimensione quotidiana dell’esistere viene sospesa, i gesti sono volti ad invocare potenze superiori e invisibili. Tale funzione rituale è visibilmente esercitata in prima persona da Borrelli, che offre al pubblico il suo corpo e la sua parola come un officiante e pare incarnare i fantasmi evocati dal racconto di Saviano: scena dopo scena indossa maschere, teli, posture che paiono allontanarlo da una dimensione meramente umana. Ad accompagnarlo nel viaggio verso una forma atea di sacralità è la musica eseguita dal vivo da Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione: una ipnotica partitura sonora di organi e di tamburi, di berimbau e campane, elemento drammaturgico di unione tra le diverse parti dello spettacolo.

 

 

Difficile negare, però, che la voce lirica di Borrelli e la funzione diegetica di Saviano restino di fatto ingredienti disgiunti, e che la struttura dello spettacolo finisca per sembrare troppo nettamente bipartita. Ma la scelta, pur manifestando inevitabili limiti, ha diversi motivi di interesse. Il primo è che l’azzardato tandem offre alcune opportunità ai (differenti) pubblici, ma anche ai due artisti coinvolti. Per i seguaci di Saviano Sanghenapule è una ottima occasione per incontrare un linguaggio poetico impervio ma di straordinaria forza, che richiede sforzo interpretativo ma che molto restituisce in cambio. Viceversa, la presenza di un narratore efficace, capace di entrare immediatamente in relazione con il pubblico, permette a Mimmo Borrelli di immergersi senza remore di comprensibilità in una lingua impastata e terrigna (difficile non pensare al nordico Testori, per gli innesti di dialetto e latino), di andare ancora più in là nella direzione del canto e del mistero, di sperimentare fino in fondo la relazione tra corpo e parola.

 

C’è poi un ultimo aspetto da rilevare. I due autori sottolineano, più di una volta, come la specificità di Napoli sia la contraddizione, la coesistenza di elementi inconciliabili, l’impossibilità di raccontarla in un solo modo. E in questa prospettiva, dunque, Sanghenapule trova una completa corrispondenza tra forma e contenuto.

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