Solo i folli cambieranno il mondo

25 Marzo 2023

Quando la luce dell'alba illumina l'isola di Scheria, la terra dei Feaci emerge in tutta la sua bellezza e appare agli occhi di Ulisse, stremato dal naufragio. La foce del fiume immersa nel verde, con acqua che scorre abbondante, limpida e spontanea, è il paesaggio in cui un gruppo di fanciulle giunge festoso su un carro trainato da mule per lavare le vesti. L'incontro tra Odisseo, nudo, e Nausicaa, favorito da Atena, come ad esempio è rappresentato da un'anfora a figure rosse del 440 a.C. ca., trovata a Vulci e ora conservata allo Staatliche Antikensammlungen di Monaco di Baviera, contiene gli elementi essenziali per definire un’esperienza estetica. Quegli elementi, almeno provvisoriamente, possono essere così individuati: un creatore che narra una storia o un artista che decora un’anfora; la storia narrata e l’opera di arte visiva; un osservatore che ascolta, legge o osserva la scena; la risonanza con chi ha creato la narrazione e l’opera, una risonanza che fa sentire e vivere lo stupore e l’attrazione originaria simulandola a livello incarnato, come ognuna/o può sentire; la narrazione di quella esperienza a un'altra/o o ad altre/i e l’ulteriore risonanza che si produce. L’esperienza estetica è un’esperienza sociale, per esseri intersoggettivi quali noi siamo, che diventano quello che sono e sentono quello che sentono nella relazione con gli altri. 

Lo stupore e l’imprevedibilità, che aprono a qualcosa che prima non solo non c’era ma non trovava posto nel mondo interno, rompono l’abitudine che nasconde spesso gli aspetti più profondi del mondo e delle cose. Ecco un punto in comune tra l’artista e il folle, tra l’arte e la follia: la capacità anticipatrice per cui l’esperienza estetica conduce in un territorio interiore che svela parti di noi a noi stessi – parti che senza quell’esperienza sarebbero inaccessibili –, e la follia e il folle fuggono dal pensiero cristallizzato per vivere in un presente e un futuro diversi, aprendo spesso strade che solo più tardi saranno percorse con spontanea naturalezza anche dai cosiddetti normali. 

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L’educazione sentimentale a vivere la discontinuità, lo stupore, le opportunità di break down che il mondo e le relazioni ci propongono, può forse fare di noi degli esseri umani diversi, meno indifferenti e più sensibili verso sguardi plurali, esplorazioni inaudite, percorsi inediti. Questo può procurarci l’arte, nelle sue molteplici manifestazioni. Nella sua prolusione in occasione della consegna del Premio Nobel, nel dicembre 1987, Josif Aleksandrovič Brodskij dice:

“Nel complesso, ogni nuova realtà estetica rende la realtà etica dell’uomo più precisa. Perché l’estetica è la madre dell’etica; le categorie di “buono” e “cattivo” sono, in primo luogo, estetiche, e almeno etimologicamente precedono le categorie di “bene” e “male”.

Lamberto Maffei sembra muoversi su un sentiero affine quando nel suo libro, Solo i folli cambieranno il mondo. Arte e follia [Il Mulino, Bologna 2023], scrive: “La bellezza, concetto potenzialmente mutabile, non salverà nessuno; piuttosto mi azzardo a immaginare uomini diversi, fuori dalle convenzioni, un po' folli (come avrebbe detto Einstein), che forse non salveranno sé stessi ma cambieranno il mondo, o un pezzettino di esso” [p. 8]. Cercare sé stessi è la condizione per capire qualcosa del mondo e per cercare di cambiarlo: “Forse è l’ora anche per noi di uscire nelle piazze con la lanterna della mente, in pieno giorno, e alla folla che ci domanda cosa mai facciamo rispondere: cerchiamo l’uomo”, come Diogene di Sinope. È ad Erasmo da Rotterdam che Maffei affida l’inizio del proprio percorso di esplorazione del rapporto tra arte e follia. Quell’amica intima della fantasia e del pensiero irrilevante, che è la follia, è posta in relazione alla creatività e all’arte da un’ampia letteratura. I riferimenti non sono alle diagnosi di gravi malattie, ma ai fenomeni non gravi o transitori di bipolarismo, in cui si alternano stati di eccitazione e depressione accompagnati da stranezze comportamentali o intellettuali e che sembrano collegati alla creatività, sin dai tempi di Aristotele. 

Socrate, scrive Mattei, ha pagato con la vita la propria follia creativa. E Shakespeare in Sogno di una notte di mezza estate fa dire al re Teseo:

“Amanti e folli hanno così fervide menti,
Fecondo immaginare, che concepisce
Più idee che la fredda ragione non intenda.
Il folle, l’amante, e il poeta
Son tutti fantasia”

[Atto V, Scena 1].

Il riconoscimento della follia come una delle manifestazioni possibili dell’umana esperienza è stato ed è tuttora un cammino particolarmente faticoso, anche se contributi come quelli di Michel Foucault e di Franco Basaglia hanno consentito di riconoscerne le molte facce e la connessione con la vita di tutti noi. Foucault, in Storia della follia nell’età classica scrive: “Dall’uomo all’uomo vero, il cammino passa attraverso l’uomo folle”; e Basaglia formula una frase sulla follia che la restituisce alla fisiologia del sistema nervoso: “La follia è una condizione umana. In noi esiste ed è presente come lo è la ragione”. Per cercare di comprendere qualcosa di più del rapporto tra arte, follia e creatività è utile approfondire quali interdipendenze esistano tra abitudine e prevedibilità da un lato, e arte, creatività e innovazione, dall’altro. Di quel rapporto che abbiamo ricondotto a una distinzione specie specifica di homo sapiens, la tensione rinviante, [U. Morelli, Mente e bellezza. Arte, creatività, inovazione, Allemandi & C, Torino 2012, 2.a edizione], è necessario riconoscere la costitutiva ambiguità. Se l’abitudine, come aveva intuito Michel de Montaigne, “ci nasconde il vero aspetto delle cose”, dal punto di vista delle basi neurologiche, l’abitudine indica che alcuni circuiti nervosi si sono rinforzati a causa delle ripetizioni di funzione a cui sono stati sottoposti con il risultato che le loro connessioni sinaptiche sono diventate più stabili ed efficaci. L’abitudine, quindi, non solo fa parte dell’apprendimento, ma svolge una funzione di rassicurazione e di prevedibilità, mentre però vincola le possibilità di concepire e praticare l’inedito.

Nel campo dell’arte, ad esempio, come sostiene Francis Bacon, non si tratta di rappresentare la realtà, ma di riordinarla in maniera diversa. Maffei si mette in dialogo con gli artisti, i poeti, i musicisti per cercare di ascoltarsi al ritmo della loro creatività. Così considera il percorso di Alda Merini e del suo rapporto tra l’esperienza della follia e quella della poesia; e si lascia coinvolgere dalla musica di Mozart, “il più geniale dei folli”, scrivendo: “Come i tramonti danno il senso della pace, della quiete, della serenità, così la musica di Bach, ma Mozart è la migliore droga per essere un po' felici, uscire dal corpo così inchiodato alla terra non solo dalla gravità, ma anche dalle necessità del vivere: Mozart è la musica che suonano in paradiso”.

Posto che, come tutto quello che ci riguarda, anche la creatività e la creazione artistica si muovono tra base genetica ed esperienza, l’analisi di Maffei consente di evidenziare come esse non abbiano a che fare con qualche tipo di determinismo. Come scrive Mozart in una lettera: “Da dove e come vengano non so e non posso forzarle…” [N. C. Andreasen, The Creating Brain. The Neuroscience of Genius, Dana, New York, 2005]. Ancora una volta siamo di fronte al primato dell’azione, come accade nella terapia musicale, laddove l’efficacia maggiore si raggiunge non tanto quando il paziente si limita ad ascoltare la musica, ma quando la esegue.

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Il fatto è che “i matti fanno paura”, come sostiene Maffei. Anche se è la cosiddetta normalità ad avere confini ampi e mal definiti, è il malato mentale a venire considerato “un essere meno umano, meno uomo, che senti così diverso da te e dal quale vuoi allontanarti”. La malattia mentale mette in campo il perturbamento della differenza e dell’imprevedibilità, mentre gli esseri umani tendono a rinunciare al grande dono della libertà del pensiero, preferendo che qualcuno limiti la plasticità dei loro circuiti nervosi e quindi liberamente scelgono di non essere liberi. Persino la civiltà può essere ritenuta “una forzatura del processo biologico”, di quel processo che è ovviamente in divenire e basato su differenze che generano differenze. La stessa informazione può diventare un messaggio diverso ed evocare una risposta diversa. Nella selva dei simboli e della comunicazione si esprime anche l’esperienza estetica e ancora una volta siamo nel regno delle differenze.

Lo storico dell’arte Ernst Gombrich ha sostento che sta all’osservatore, divenuto artista egli stesso, terminare l’opera, che sarà diversa per ciascun osservatore. Mettere in relazione il cervello umano all’arte e alla creatività vuol dire considerarne le manifestazioni più articolate, differenziate e complesse. Il cervello, sostiene Maffei, è allo stesso tempo razionale, irrazionale e folle. Basti considerare la disposizione degli artisti a spingersi oltre i canoni consueti e abitudinari, e la propensione alla miopia che all’inizio, quasi sempre, accompagna le rivoluzioni e le trasformazioni nel campo delle arti. Dall’impressionismo, all’astrattismo, al cubismo, manifestazioni artistiche ora divenute canoniche, all’inizio furono rifiutate o ritenute di nessuna rilevanza artistica. Cosa capiamo da queste vicende?

Quello che già Henry James aveva evidenziato, che gli esseri umani possono modificare la propria vita modificando la loro mente che emerge dalle relazioni e dal loro cervello. Dopo una vita trascorsa a studiare il cervello umano e la sua particolare plasticità, Maffei sostiene: “posso assicurarvi che il cervello è come l’argilla e che si può plasmare per costruirvi idee, immagini, sentimenti”. Le mani plasmatrici degli stimoli che riceve, e che cambiano la sua attività di base. Come sosteneva Einstein il cervello è come il paracadute e va tenuto aperto. Dal punto di vista neurofisiologico, infatti, il cervello è un po' come il muscolo, più lo usi e più diventa robusto ed efficiente, e più resistente anche all'usura degli anni. Le forze dell’inconscio che ci compongono e che agiscono in noi in modo preintenzionale e prevolontario, sfuggono in qualche modo al controllo razionale. Possono farci regredire a un’epoca di preciviltà, ma anche prendere la strada della creatività e della creatività artistica in particolare. Del resto, la follia, l’insieme di concetti e comportamenti alternativi alla ragione, è anche il risultato di relazioni e costrutti culturali che influenzano la sua stessa definizione, cambiandone continuamente i confini, secondo quanto la storia mostra con evidenza.

Come ha sostenuto Michel Foucault, la follia non può essere trovata in natura, non esiste se non in una società, non esiste al di fuori delle forme di sensibilità che la isolano e delle forme di repulsione che la escludono e la catturano. Il razionale sembra essere preceduto da uno stadio emotivo che poi viene analizzato inconsciamente nelle sue componenti di base che ne costruiscono l’armonia, e passa da percezione emotiva a consapevolezza razionale. La velocità del nostro tempo canalizza molto spesso in modalità conformiste le emozioni e le riduce a bisogni da inseguire in pascoli per nuove greggi, verso un finto benessere che “consiste nel brucare piuttosto che nel pensare”, secondo lo spirito critico di Maffei che attraversa tutto il libro.

Nel terzo capitolo del suo libro Maffei ripercorre gli aspetti essenziali del funzionamento cerebrale e si concentra sulla teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner. Il suo scopo è tentare di individuare negli equilibri e negli squilibri tra funzioni dell’emisfero destro e dell’emisfero sinistro alcune delle possibili determinanti della creatività e della produzione artistica. Ne emerge un quadro complesso che esclude ogni forma di determinismo possibile, come si evince con evidenza nell’analisi del caso di Maurice Ravel e della composizione del famoso Bolero. La malattia di Ravel, di per sé non facilmente riconducibile a una diagnosi chiara, caratterizzata da due disturbi diversi – una afasia progressiva primaria, per erosione dei centri del linguaggio, e una degenerazione corticobasale che priva la persona del controllo del movimento –, non consente di discriminare tra l’evoluzione della patologia e lo sviluppo artistico. Il Bolero contiene di fatto solo due temi, ognuno ripetuto trenta volte, ma ha anche venticinque diverse combinazioni di suono.

È nell’esame della memoria, e in particolare in quella che chiama la memoria del futuro, come già aveva fatto Wilfred R. Bion, che Maffei ravvisa la tensione, allo stesso tempo angosciante e generativa, dell’esperienza umana correlata alla creatività artistica. Quella memoria paradossale, del futuro, appunto, ha a che fare con la morte. Avvalendosi del contributo dello psicoanalista Irvin Yalom e del suo lavoro dal titolo Fissando il sole, l'autore affronta il problema della paura associata alla consapevolezza della morte e, seguendo Yalom, discute e consiglia una modalità psicoterapeutica per contrastare l'angoscia ad essa correlata, suggerendo di guardare la morte con coraggio in una strategia di analisi che, per così dire, mira a fissare questo sole, senza pericolo per la vista. L’occasione a scadenza che non si ripeterà è l’unica che può essere colta e allora possiamo sentire il divenire e sentirci l’acqua che si vede passare nel fiume per ascoltare e cantare o dipingere le manifestazioni della vita mortale. Mettendosi sulle tracce dei movimenti artistici che nei tempi più recenti hanno evidenziato il rapporto tra creatività, discontinuità e trasgressione, Maffei dialoga con Paul Klee, con la secessione viennese, fino alla fuga dal razionale e al surrealismo e col surrealismo al femminile soffermandosi ad esempio su quella Leonora Carrington, autrice di quell’opera, The Milk of Dreams, che avrebbe poi dato il titolo alla Biennale d’arte di Venezia del 2022.

Anche nell’epoca in cui gli esseri umani rischiano di diventare seriali, – tema dell’ultimo capitolo del libro –, è l’immaginazione, con un richiamo alla potenza della follia, che può rappresentare la via per cambiare il mondo. “Il folle ha più occhi del normale e più orecchie e più parole”, scrive Maffei, “meglio volare che camminare, guardare il cielo piuttosto che la terra che si calpesta”. E aggiunge: “In questo periodo di virus, di armi, di morte, di prepotenti che giocano con i loro soldatini e vantano i morti del nemico, l'immaginazione, che è il cervello, che va a spasso sui monti e si sdraia sui cuscini delle nubi, che riesce a vedere con occhi di pianto il dolore e ad ascoltare il canto degli usignoli nel silenzio della notte, è una fuga dal reale per defecare l'ignominia, il brutto, la violenza e diventare speranza di un mondo migliore”.

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