Speciale Adolescenza | Delphine e Muriel Coulin. 17 ragazze

28 Marzo 2012

Iniziamo dalla fine. Il film delle sorelle Coulin è stato sdoganato, perdonato verrebbe da dire, dall’organo di censura nazionale. La storia è ormai nota: 17 ragazze inizialmente proposto per il divieto ai minori tutti e poi proibito ai soli minori di anni 14 ha, in seguito all’accoglimento del ricorso della Teodora, ottenuto la definitiva liberalizzazione presso i pubblici di ogni età e generazione.

Bastasse tale ripensamento a dirimere una questione già tanto controversa (oltre che rumorosa), tutto bene. Il problema è che il polverone, già alzatosi su gran parte dei media nazionali, non pare potersi diradare tanto in fretta. E se, com’è ovvio, qualsivoglia gesto di censura si porta dietro una quantità innumerabile di critiche, polemiche, riflessioni e battaglie ideologiche, arrivando di fatto a veicolare interessi, discussioni e speculazioni appartenenti a diversi e molteplici campi del sapere, quando si agisce nel terreno dell’arte è normale che ogni intervento che lasci il sospetto di operare un controllo o una limitazione, divenga oggetto di pesanti e feroci prese di posizione (contro o addirittura a favore).

Tuttavia, non sembra valere la pena, almeno a parere di chi scrive, di soffermarsi più di tanto sul merito dell’operazione censoria, sia perché, da un lato, si tratta di un atto di per sé talmente violento da non lasciar spazio alcuno a discussioni o ragionamenti che ne possano affossare ulteriormente la sostanza, sia, dall’altro, perché è esercizio sin troppo facile quello di andare a cercare motivazioni e argomenti atti a screditare una decisione tanto infelice. E così pare davvero inutile porre l’accento sul goffo intervento in pieno stile MinCulPop nel quale la censura nazionale si è imbarcata andando magari a sottolineare gli atteggiamenti più assurdi di cui la commissione di controllo si è resa protagonista.

Come l’inconcepibile tentativo di vietare il film a quello stesso pubblico cui è di fatto rivolto (proviamo solo a immaginare le conseguenze di un tale gesto in paesi come la Francia, la Germania o la Gran Bretagna) o quello di addurre a spiegazione (giustificazione?) delle proprie azioni, già di per se stesse indifendibili, argomenti quali quello della ritenuta portata diseducativa, in un film che parla di minorenni in gravidanza, non tanto della maternità precoce, quanto più della ripetuta messa in risalto all’interno della pellicola delle cattive abitudini delle protagoniste, mostrate a più riprese a fumare sigarette e spinelli.

 

 

Il problema semmai, tentando di riportare il tutto a una dimensione prettamente cinematografica, sta nel clima di sospetto che, complice l’atto censorio, ha finito per circondare l’opera. Un clima che ha fatto sì che si allegassero al film idee perlopiù erronee sia da parte di chi ha inteso leggere la pellicola come un esercizio oltremodo sconveniente o addirittura esecrabile, sia da parte di chi si è illuso di trovare nel lavoro delle sorelle Coulin un côté pruriginoso, se non financo rivoluzionario, particolarmente spinto.

Considerazioni che rischiano di risultare quantomeno preconcette tanto perché il film – che com’è noto narra la storia di alcune ragazze minorenni di Lorient, cittadina marittima della Bretagna, che decidono un po’ per gioco e un po’ per noia, di farsi mettere incinte tutte insieme –, ispirato a un fatto di cronaca registratosi negli Usa, non mette in scena nulla di tanto scabroso da dover essere celato, e tanto perché la precisa intenzione delle registe è quella di evitare la benché minima adesione o condanna nei confronti della scelta delle proprie protagoniste.

Proprio come in un film di Gus Van Sant, infatti, – modello cui le autrici si rifanno palesemente oltre che per l’interesse al tema dell’adolescenza, anche nella costruzione della messinscena – il pedinamento delle giovani avviene in modo profondamente distaccato, quasi asettico, con un’oggettività formale assai pudica. E già dalla prima inquadratura, splendidamente focalizzata sui ventri ancora piatti delle studentesse in fila per la visita medica scolastica, ci viene di fatto mostrato quello che è il dettaglio più significativo dell’intero film: il corpo. Nello specifico una serie di corpi femminili e giovani, carichi allo stesso tempo di armonia, acerba sensualità e innocente spudoratezza. Corpi che si pongono quali elementi metaforici e paradigmi fisici del messaggio che la pellicola intende trasmettere, nel loro diventare, soprattutto, vividi contenitori. Non soltanto contenitori e incubatoi di vita, com’è facile ritenere, ma anche contenitori di passioni, di ideali e di speranze.

 

 

Il corpo come possesso per eccellenza, come locus ideologico, come strumento attraverso il quale combattere – pur in un’interpretazione un po’ (troppo) sui generis del celebre mantra femminista dell’utero come dominio esclusivo e insindacabile della sua proprietaria – e attraverso cui scatenare l’offensiva al mondo dormiente della provincia, alle convenzioni familiari, ai riti borghesi, ai dogmi religiosi e al mondo adulto più in generale.

E poco importa se la battaglia che le giovani, tutte insieme, si illudono di combattere si tramuti ben presto, in un finale che restituisce la dimensione vagamente reazionaria di tutta la vicenda, nell’accettazione di una sconfitta. Perché in fondo al film interessa raccontare in maniera preminente la portata, questa veramente eversiva, del gesto di rottura del quale le ragazze si rendono protagoniste – non a caso non vediamo mai, nemmeno nel finale, nessuno dei quindici bambini che vengono alla luce.

Se è senz’altro esagerato, inoltre, ritenere queste ragazzine un collettivo politico o, come ha detto qualcuno, il riflesso più prossimo al femminismo degli indignados che occupano le strade delle nostre metropoli, è forse lecito pensare che lo spirito delle diciassette adolescenti di Lorient sia, nel bene e nel male, lo spirito che ogni adolescente dovrebbe mostrare, specialmente perché l’adolescenza è tutta fatta di idee balzane e gesti sconsiderati e pazienza se la voglia di cambiare il mondo non va sempre troppo d’accordo con la consapevolezza e la misura.

 

 

Tutte motivazioni, queste ultime, che non fanno che convincerci, una volta in più, della necessità di una distribuzione di questo film che sia non solo ecumenica ma anche capillare, e del fatto che il pubblico delle giovani e delle giovanissime sia proprio quello a cui consigliare con maggior forza la visione. Se non altro perché queste ultime possano avvertirsi dell’esistenza di un mondo di coetanee che, al di là del caso specifico, non collima sempre e per forza con quello cui il cinema e la televisione italiane degli ultimi anni le hanno abituate.

Un mondo non passibile di censura (nemmeno quella solerte di casa nostra) certo, ma sul cui ruolo “educativo” varrebbe forse la pena di farsi qualche domanda.

 

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