Speciale Ai Weiwei | Scultura sociale

30 Gennaio 2012

L’impegno, il dissenso, la resistenza di artisti e intellettuali lungo il corso del Novecento sono ormai materia di riflessione storica. Quali siano oggi i confini della libertà creativa e in che modo si possa concepire un ruolo critico e politico per l’arte è invece questione assai più urgente e controversa. Almeno in apparenza, una relativa “libertà di espressione” è giunta anche in paesi dove per lunghi decenni l’autonomia di pensiero è stata considerata un delitto e la produzione artistica severamente regolata o censurata. L’ubiqua industria culturale dell’epoca postmoderna non ha certamente bisogno delle brutali forme di oppressione tipiche dei regimi autoritari; le basta in effetti mostrarsi tollerante verso tutti i linguaggi e tutte le idee (purché “si vendano”, ma questo è un altro discorso) per depotenziare in partenza la loro efficacia politica: l’eresia non spaventa più, la trasgressione è diventata un ingrediente del successo e anche le pratiche più radicali hanno trovato alla fine il loro posto nel Museo. Con poche e tutto sommato scontate eccezioni (l’Iran, la “solita” Corea del Nord…), il mondo globalizzato appare uniformemente immerso in una gelatina mediatica e pubblicitaria in cui idee, scritture, immagini, testimonianze, circolano in apparenza senza ostacoli e in modo sempre più veloce, soprattutto da quando internet sembra aver trasformato in realtà l’utopia di una comunicazione istantanea a scala planetaria.

 

Alla “passione per il Reale” che aveva segnato il XX secolo, alla sua tragica metamorfosi nel proprio rovescio – l’irrealtà assoluta delle finzioni ideologiche, il simbolismo senza tempo dell’arte “di regime” –, è seguita un’epoca in cui l’orizzonte sembra essersi incurvato all’indietro sino ad avvolgerci in un immutabile presente, dove ogni ipotesi discorde, ogni “dissidenza”, sembra destituita di senso in via preventiva: il capitalismo si è naturalizzato al punto tale che ogni critica all’imperativo del massimo profitto (e ogni aspirazione alla giustizia sociale) può apparire ai nostri stessi occhi un’illusione perduta, un’impensabile contraddizione all’ordinato, ineluttabile, corso del mondo. A termini dal suono desueto come rivoluzione, militanza, engagement, si preferiscono così ai nostri giorni vocaboli più sfumati, meno perentori o carichi di passato, come attivismo, azioni “relazionali”, campagne “virali”, al limite “petizioni on line” e via dicendo, tutte prassi a dimensione invariabilmente individuale, anzi atomizzata, e buone un po’ per tutte le situazioni, dai campus universitari statunitensi alle periferie europee, dalle realtà decolonizzate sudamericane e africane alle nuove potenze dell’Asia.

 

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Il tramonto delle utopie di liberazione non ha ovviamente eliminato le ingiustizie che esse combattevano, e certo non mancano oggi torti da raddrizzare e libertà da difendere. Ma nell’orizzonte globale, ci viene ripetuto, sarebbero diventate superflue (desuete, patetiche, false, al limite) figure che testimonino con il proprio comportamento, le proprie opere, letteralmente con il proprio corpo vivo, una diversità, una irriducibilità radicale, insieme simbolica e politica, che pongano domande scomode alle quali non è possibile rispondere col mantra abituale: godere di più, consumare di più. La verità è un’altra: il coraggio di dissentire, la capacità di scovare crepe nelle narrazioni ufficiali, di denunciare il cinismo della maggioranza, restano, come mostra la vicenda di Ai Weiwei, una minaccia per il potere, un intralcio al suo costante tentativo di rimuovere le proprie contraddizioni. Ed è sintomatico che proprio un artista, uno dei maggiori protagonisti della scena contemporanea, abbia creato a questo scopo non “opere” in senso tradizionale, ma un mezzo banale nell’epoca di internet - il blog - trasformandolo in una testimonianza, insieme artistica e politica, tra le più originali emerse nella Cina contemporanea.

 

Nel suo percorso Ai aveva già affrontato, attraverso una mirata strategia di appropriazione di manufatti, simboli, immagini emblematiche della cultura cinese, le condizioni di una nazione esposta nel volgere di sei o sette decenni a una tragica serie di sommovimenti sociali e politici: i preziosi vasi antichi ridotti intenzionalmente in frantumi, falsificati in sequenza o ricoperti con i marchi-simbolo del consumismo occidentale, sono in questo senso forse le sue opere più provocatorie ed eloquenti, al pari dei caotici assemblage di arredi ed elementi decorativi tradizionali che svelano la natura traumatica della modernità cinese e fanno i conti con le successive rimozioni della storia che i diversi regimi hanno invariabilmente messo in atto. Una valenza presente anche nel “tappeto” di milioni di semi di girasole in porcellana dipinta esposto nel 2011 nella Turbine Hall della Tate Gallery, un’installazione in cui eredità tradizionale, cultura popolare, “capitale umano”, lavoro seriale e forza del numero compongono un profilo complesso e contraddittorio della realtà cinese (e globale) contemporanea.

 

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Ai Weiwei è da tempo anche una figura pubblica, impegnata nell’organizzazione e nella polemica culturale, soprattutto da quando la sua attività di architetto lo ha spinto a intervenire direttamente sui problemi dell’habitat urbano in una “nuova” Cina preda di una febbre edilizia senza precedenti. La dimensione della città e l’urbanistica come elemento chiave nell’evoluzione del sistema sociale hanno affiancato la produzione propriamente artistica di Ai e spinto quest’ultima in direzione di una dimensione “relazionale”, basata sull’apporto di altri soggetti al processo di creazione. L’esempio più importante è da questo punto di vista il progetto Fairytale (“fiaba”) presentato a Documenta 12 a Kassel nel 2007, in cui 1001 cinesi, scelti in modo da rappresentare la grande varietà di culture, stili di vita, occupazioni e mentalità presenti in Cina, furono invitati nella cittadina tedesca in un viaggio di scoperta, di “possibilità e di immaginazione”.

 

Il blog tenuto tra il 2006 e il 2009 ha reso l’artista una delle voci di opposizione più ascoltate del web cinese e ne ha fatto un personaggio pubblico anche in Occidente, dove il suo “caso” è diventato uno dei più seguiti dai media. Ma che genere di “dissidente” è Ai? Il termine non piace all’artista, come ricorda Lee Ambrozy nella sua prefazione, forse perché troppo legato alle memorie dell’ex blocco sovietico, agli intellettuali perseguitati, dichiarati pazzi o deportati in Siberia, e forse anche perché, potrei aggiungere, la sua dissidenza è di un genere completamente nuovo, inclassificabile, dato che il suo obiettivo non è un regime totalitario, un’economia collettivista ovvero una delle molteplici incarnazioni del socialismo “reale”. Ai è in effetti un “dissidente” in un regime a capitalismo puro dove le diverse forme di controllo democratico, protezione sociale, accountability politica, risultano assenti o del tutto nominali. Libri e reportage, oltre che il flusso incessante di strabilianti dati economici, hanno nel frattempo reso meno oscuro il profilo del “miracolo” cinese, laboratorio economico e sociale del neoliberismo capace in soli trent’anni di creare dal nulla una forza lavoro di centinaia di milioni di uomini e donne, intere metropoli e una potenza finanziaria ormai senza rivali. Un sistema che sembra poter godere indefinitamente di tutti vantaggi di un sistema capitalista senza dover assumere neppure in superficie i caratteri democratici che ne hanno accompagnato l’affermazione in Occidente. Libertà economica senza giustizia sociale, massimi profitti a minimi costi, sfruttamento senza limiti delle risorse umane e ambientali, hanno contribuito a creare in Cina un modello del tutto nuovo, un paradiso neoliberista la cui efficienza nell’eludere i nodi cruciali della distribuzione della ricchezza e dei diritti individuali non ha tardato, com’era prevedibile, ad attrarre ammiratori ed emuli anche nel resto del mondo.

 

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L’attivismo di Ai Weiwei ha alle spalle il modello degli “intellettuali pubblici” della Cina novecentesca, la loro militanza per la verità contro le ipocrisie del potere, un ruolo – ereditato dalla lunga tradizione confuciana e aggiornato in senso marxista e rivoluzionario – incarnato nella tormentata biografia di suo padre, il poeta Ai Qing, precoce sostenitore della rivoluzione maoista poi epurato e costretto a decenni di esilio e “rieducazione”. Un altro parallelo, ancora più diretto, può essere stabilito con la nuova generazione di intellettuali freelance – letterati, ricercatori, giornalisti, avvocati non legati all’establishment tradizionale – che negli ultimi vent’anni ha riconquistato un ruolo pubblico, rinnovando, in forme radicalmente diverse e non violente, l’eredità “antisistema” della Rivoluzione Culturale e le rivendicazioni di pluralismo e apertura soffocate nel sangue a piazza Tian’anmen nel 1989. Promuovendo l’uso dei nuovi mezzi di comunicazione e di internet per dar voce alle loro battaglie – come ha fatto ad esempio, fino alla sua incarcerazione, Liu Xiaobo, promotore del manifesto democratico Carta 08 e premio Nobel 2010 per la pace – questi intellettuali hanno contribuito a denunciare i limiti e le conseguenze materiali e morali dell’infinita crescita cinese occultate dall’incessante propaganda di regime: la mancanza di diritti politici, il feroce sfruttamento del lavoro, la distruzione dell’ambiente e della memoria storica, la repressione violenta delle minoranze, l’arroganza impunita dei ricchi e dei potenti.

 

Il blog è stato per Ai anche lo strumento di una maturazione politica grazie alla quale ha potuto distaccarsi dall’ambigua posizione di voce “tollerata” dalle autorità che in qualche modo aveva avuto sino a quel momento e gli aveva permesso, tra l’altro, di condividere con gli architetti Herzog & de Meuron la responsabilità dell’ufficialissimo progetto dello stadio olimpico di Pechino. Intuendo la possibilità di creare con mezzi elementari inedite forme di resistenza in un paese dall’opinione pubblica rigidamente controllata, Ai ha così iniziato a far interagire nei suoi post critica culturale e attivismo politico “dal basso”, come nel caso dell’inchiesta (svolta sul campo da migliaia di volontari) sui bambini vittime del terremoto del Wenchuan, uno dei pochi esercizi di democrazia diretta che sia riuscito a scuotere l’altrimenti inossidabile nomenklatura cinese. E questo in nome di una sensibilità civile che lo accomuna a Liu Xiaobo e ad altri dissidenti nell’opposizione al cinismo e alla rassegnazione indotta da un potere che alterna paternalismo e mano dura per mantenere i propri cittadini in una sorta di eterna infanzia, dove i riti consumisti hanno sostituito le liturgie di massa e la mobilitazione permanente dell’epoca di Mao. Non sorprende dunque che dopo la cancellazione del blog imposta dalle autorità, l’artista abbia subito una serie di ritorsioni sempre più gravi, culminate nella sua incarcerazione nell’aprile 2011 e la successiva liberazione in attesa di processo per imprecisati “crimini fiscali”.

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Pieno di riflessioni amare, di invettive, di osservazioni impietose, il blog di Ai si presenta oggi al lettore italiano non solo come una testimonianza dall’interno della società e della cultura cinese contemporanea, ma anche come una vera e propria opera d’arte sui generis. Da diario in cui annotare le contraddizioni dell’impetuosa trasformazione culturale e materiale del suo paese, esso ha infatti assunto via via il valore di una sperimentazione in vivo della forza di resistenza dell’arte, che fa della partecipazione e della cura gli antidoti alla fascinazione feticistica e all’irrilevanza mondana che sembra essere oggi il destino coatto dell’esperienza artistica. Non è difficile scorgere in queste idee l’ascendente delle concezioni di Joseph Beuys, ormai spogliate dei sottintesi messianici e dell’atteggiamento carismatico del grande artista tedesco e tradotte dall’intelligenza ironica di Ai nella misura scettica, ma non indifferente, della cultura postmodernista. Il concetto beuysiano di “scultura sociale” ­– ovvero la conquista di una dimensione trascendentale per l’atto creativo individuale, il ribaltamento della contemplazione estetica solitaria in una azione collettiva di trasformazione della vita – risulta in effetti particolarmente utile a definire il carattere del lavoro di Ai di questi ultimi anni e in particolare proprio del suo diario digitale, un vasto corpo smaterializzato che vive nella prassi quotidiana delle decine di migliaia di suoi lettori e che anche dopo la sua forzata chiusura seguita a sollecitare, per noi che lo leggiamo oggi, domande scomode e prive di risposta immediata sul ruolo e la responsabilità tanto dell’artista che degli spettatori. Una “scultura” viva, dunque, un agente di trasformazione del mondo grazie al quale la moltitudine acquista autoconsapevolezza, scopre il valore della relazione e la possibilità di un tempo e di uno spazio diversi, a misura di un’umanità più completa, e più libera.

 

In un’epoca distratta e superficialmente tollerante, il blog di Ai Weiwei ci parla in nome di una intransigente esigenza di emancipazione che sollecita tutti, cinesi e occidentali, a una coraggiosa presa di coscienza. Allo stesso tempo, addita una diversa possibilità per l’arte, quella di farsi politica non solo assumendo temi, iconografie o parole d’ordine, ma divenendo essa stessa, nella propria costituzione interna, nel proprio muoversi verso e nel mondo, il segno visibile di una differenza, di uno “svolgimento” imprevisto attraverso cui reintegrare la durata e il movimento dialettico negati dall’eterno ritorno delle merci. Pagina dopo pagina il blog ormai trasformato il libro pone anzitutto una richiesta di verità come utopia fondamentale e necessaria, anche perché, scrive l’artista, se “una nazione rifiuta la verità rifiuta il cambiamento; se le viene a mancare lo spirito della libertà resta senza speranza”. È un avvertimento che al lettore italiano deve suonare particolarmente attuale.

 

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