Storytelling: il lato oscuro delle narrazioni
Nel fortunato L’istinto di narrare (The storytelling animal, 2012; vedi la nostra recensione qui) Jonathan Gottschall aveva mostrato, in maniera persuasiva e letterariamente accattivante, come la nostra specie nutra una profonda, invincibile attrazione per le storie. Una caratteristica ancestrale, che riconduce al passato più remoto: la stessa struttura della nostra mente si è sviluppata attraverso l’elaborazione narrativa dell’esperienza. L’intonazione del libro era marcatamente euforica: l’esposizione era intrisa del piacere di narrare, e nell’insieme si avvertiva il compiacimento dell’autore per l’importanza di una dimensione della vita – narrare e ascoltare storie – evidentemente connessa per lui (come per tanti di noi) a una serie di sentimenti positivi.
Nel suo nuovo libro la questione è impostata in termini diversi. L’idea di fondo è la medesima: la propensione a narrare ha modellato la mente umana, e tuttora (anzi, oggi più che mai) condiziona in misura preponderante i nostri comportamenti e le nostre reazioni. Il registro è però cambiato. Se le storie sono ciò che ci unisce, sono però anche ciò che ci divide: anche i pregiudizi, i sentimenti ostili, le esplosioni di aggressività sono alimentate dalle storie. Insomma: le storie sono anche una minaccia.
L’inversione di segno è enfatizzata dal titolo scelto per la versione italiana da Bollati Boringhieri: Il lato oscuro delle storie. Come lo storytelling cementa le società e talvolta le distrugge. Rispetto all’originale – The Story Paradox: How Our Love of Storytelling Builds Societies and Tears Them Down – due sono gli aggiustamenti. Alla neutra e problematica nozione di «paradosso» è sostituita l’inquietante metafora, di origine astronomica, «lato oscuro»; in compenso, il pessimismo è temperato dall’inserzione del prudente avverbio «talvolta».
Ottima come sempre la traduzione di Giuliana Olivero; l’unica osservazione che mi sentirei di fare è che a volte sarebbe opportuno, per certe espressioni-chiave, riportare fra parentesi la dicitura originale. In certi casi si indovina (ma la conferma è sempre utile), ad esempio «storilandia» per storyland, o «storiverso» (universo di storie) per storyverse; in altri è più difficile, come per l’appellativo «Grosso Trombone» usato sistematicamente per l’altrimenti mai nominato Donald Trump (Big Blare). A proposito, l’apparizione del Grosso Trombone, nel VI capitolo (significativamente intitolato La fine della realtà), segna per certi versi l’acme del discorso di Gottschall, e declina nel modo più esplicito il contesto storico-politico da cui il libro ha tratto impulso. Ma gli argomenti mobilitati non hanno nulla di contingente; anzi, si tratta di questioni generali e del massimo rilievo: se non sempre inedite, esposte in maniera organica e con piglio retorico efficace.
Gottschall prende le mosse da un’osservazione banale solo in apparenza. Gli umani, com’è noto, comunicano fra loro di continuo; e comunicare significa in primo luogo cercare di condizionare il prossimo. Lo scopo principale delle nostre parole, insomma, è influenzare le menti altrui. Ora, la narrazione è una forma (ancestrale e potentissima) di comunicazione; di conseguenza, raccontare storie è anche un modo di manipolare gli altri.
Ecco l’oggetto del libro: la capacità della narrazione di agire negativamente sui destinatari. In verità, potremmo chiosare, succede con le storie esattamente quello che succede con il linguaggio in generale. Il linguaggio è uno strumento dall’utilità portentosa, ma può essere usato sia con buone intenzioni, sia con cattive. Può essere usato per dire il vero o per mentire, per confortare o per offendere, per promuovere la concordia o per seminare zizzania. Lo stesso vale per quella forma particolare di comunicazione linguistica che è il narrare. Non diversamente, con un martello si possono piantare chiodi in un muro o fracassare il cranio dei vicini.
Ma Gottschall fa un passo in là. Parecchi studiosi, oggi, sollevano obiezioni alla celebre teoria di Noam Chomsky secondo cui esiste una grammatica universale, fondamento di tutte le lingue esistenti; più plausibile è invece che esista davvero una grammatica narrativa universale, che rappresenta l’implicita impalcatura di tutti i racconti – o meglio, di tutti i racconti capaci di conquistare il favore dei destinatari. I punti cruciali sono tre. In primo luogo, il potere della narrazione è immenso. Le storie incantano, rapiscono, portano via: suscitano «trasporto» (transportation). Per questo «chi racconta una storia governa il mondo», come recita il titolo del primo capitolo.
E anche se di solito non ne siamo coscienti, la maggior parte delle nostre stesse credenze poggiano su storie: gli argomenti razionali arrivano quasi sempre a posteriori, a legittimare persuasioni già acquisite per via narrativa. Secondariamente, perché una storia risulti interessante deve parlare di contrasti. Di contese, di conflitti. O quanto meno, di situazioni problematiche, suscettibili di degenerare in conflitti ovvero di produrre catastrofi. Una storia in cui tutto va bene non è una buona storia. Infine, nell’affrontare o nel subire tale situazione il protagonista deve misurarsi con un avversario: con quello che la teoria dei personaggi chiama appunto «antagonista». Detto in sintesi: «Le persone hanno bisogno di storie. Le storie hanno bisogno di problemi. I problemi hanno bisogno di cattivi che li causino».
La distinzione fra buoni e cattivi, ancorché elementare, e a dispetto di tutte le sfumature che può escogitare l’arte del racconto, rimane fondamentale. E la qualità che differenzia gli uni dagli altri, a ben vedere, è essenzialmente questa: i buoni sono altruisti, i cattivi sono egoisti. Diametralmente opposto è il senso del loro agire: unire un gruppo, o dividerlo. Aumentare la coesione della comunità di cui si fa parte, oppure guastarla, per conseguire rapidamente i propri obiettivi. Promuovere il benessere della collettività incrementando il senso di appartenenza, o mirare al solo tornaconto personale, accentuando le differenze, aggravando ingiustizie e discordie.
Beninteso, in origine – ma ancora a lungo in seguito, e fino ai nostri giorni – i cattivi per eccellenza erano, semplicemente, «gli altri», i nemici esterni, che minacciano la libertà o la sopravvivenza della collettività. Questo schema, elaborato nel corso delle migliaia di generazioni in cui la specie umana era composta da cacciatori-raccoglitori che vivevano in piccoli gruppi esposti agli attacchi di gruppi rivali, si adatta molto bene a condizioni lato sensu tribali. Il contesto in cui viviamo oggi è però assai diverso. Nelle società odierne, complesse e sovrappopolate, multiculturali e multietniche, la tendenza delle narrazioni a promuovere divisioni tribali costituisce un pericolo. Di qui, potremmo aggiungere, lo strepitoso successo della narrativa poliziesca negli ultimi due secoli: l’omicida, quanto a carica antisociale, è un «cattivo» perfetto (ma il discorso ci porterebbe lontano, e comunque non si vive di soli gialli).
Nel suo impegno a dar conto di fenomeni e tendenze generali Gottschall non teme di operare astrazioni e semplificazioni che potrebbero fare storcere il naso a cultori e cultrici delle belle lettere; si veda ad esempio la sua difesa della «morale della storia», una categoria che si presta a banalizzazioni e fraintendimenti, ma che, usata cum grano salis, nello studio dei meccanismi della lettura ha una valenza irrinunciabile. Ora, il fatto che narrare significhi evocare di continuo dilemmi etici – bene/male, giusto/ingiusto, con le relative antitesi noi/loro, buoni/cattivi – produce importanti conseguenze.
Le storie, infatti, sono macchine empatiche; ma all’empatia suscitata nei confronti dei personaggi positivi fa riscontro l’ostilità nei confronti di quelli negativi (a proposito, varrebbe la pena di considerare l’eventualità di tradurre il libro di Fritz Breithaupt, germanista tedesco attualmente in forza all’Indiana University di Bloomington, Die dunklen Seiten der Empathie, 2017). Detto in altri termini, la struttura conflittuale della grammatica narrativa fomenta in pari misura benevolenza, amore, solidarietà, e rancore, inimicizia, avversione.
Prima di proseguire conviene fare una precisazione. Gottschall parla di narrazioni in senso molto lato. Cita bensì alcune opere letterarie, ma l’oggetto della sua ricerca sono gli effetti prodotti dai racconti largamente intesi, cioè da quelle che oggi si usano designare «narrazioni», equivalenti in molti casi a assunti ideologici esposti in forma sequenziale. Sul piano teorico converrebbe forse cercare di mettere meglio a fuoco la differenza tra racconti veri e propri, racconti compiutamente scritti o profferiti, e racconti estrapolabili da altre forme di discorso: fermo restando che esiste un ampio ventaglio di possibilità, dalla fissità del testo canonizzato o d’autore alla variabile plasticità di miti e leggende, dall’enunciazione contingente alla narratività grezza, a volte poco più che potenziale, che sottostà a una reazione individuale o collettiva. Insomma, quella di storytelling è una categoria che rischia di essere dilatata oltre misura, diventando un po’ troppo lasca.
Non di meno, le questioni che Gottschall solleva sono di grande rilevanza, e su molti punti è difficile dargli torto, anche perché nella sua argomentazione fa riferimento a studiosi autorevoli; ad esempio a Bart Ehrman per quanto riguarda il nesso narrazioni-religione (vedi Il trionfo del cristianesimo. Come una religione proibita ha conquistato il mondo, tradotto da Carocci nel 2019): l’espansione di un culto è sempre legata al successo di una storia, e i Vangeli raccontano una delle storie più fortunate degli ultimi millenni.
Altrettanto condivisibile è la sua definizione della narrazione storica come «imposizione dell’immaginazione del presente» sul corpo inerme del passato: «La Storia è un continuo dare forma a un passato indisciplinato al fine di creare narrazioni ordinate che sono funzionali ai bisogni del presente». Ma il punto davvero cruciale è un altro, e riguarda – non a caso – il nostro presente, ossia gli effetti congiunti del big bang delle narrazioni e dell’introduzione delle nuove tecnologie («un pericoloso esperimento sociale che sembra andare decisamente male»). Le narrazioni, che in precedenti epoche storiche avevano svolto una funzione unificatrice, oggi sembrano moltiplicare le divisioni.
«Oggi siamo tutti dentro i nostri piccoli storiversi, e invece di renderci più simili, le storie ci fanno diventare versioni estreme di noi stessi. Ci lasciano vivere in mondi narrativi che rafforzano i nostri pregiudizi anziché metterli in discussione». Così siamo entrati nel mondo della post-verità, caratterizzato dal fatto che l’evidenza fattuale è spogliata di potere. E l’emblema di quest’epoca è il Grosso Trombone, personificazione di tutti i pericoli provocati dal dilagare incontrollato di storie svincolate da ogni confronto con la realtà.
Nell’ultima parte del libro acquista risalto lo sfondo politico-culturale su cui il libro ha preso forma. Il discorso di Gottschall sul potere divisivo delle storie è stato concepito e redatto in un’America divisa ai limiti della lacerazione. Particolarmente drastica l’antitesi fra due correnti interpretazioni dell’identità americana, denominate Mito I e Mito II per sottolineare il loro comune carattere unilaterale: da un lato la tradizionale, orgogliosa epopea della nazione eletta, la città sulla collina, nata e cresciuta all’insegna delle libertà, dall’altro la cruda requisitoria contro le sopraffazioni commesse ai danni dei nativi, degli africani deportati e ridotti in schiavitù, delle donne cui sono stati negati a lungo fondamentali diritti.
Due versioni speculari dell’eccezionalismo americano, una luminosa, l’altra oscura: ciò che una occulta, l’altra ingigantisce. Ma entrambe sono false perché sono storie, «e le storie non sono mai del tutto vere». Ogni storia seleziona, riduce e astrae, al fine di rendere più semplice l’immagine dei fatti. «Le nostre menti sono predisposte ad affrontare la realtà complessa attraverso la semplificazione narrativa: lo facciamo imprimendo sull’esperienza la grammatica universale, come uno stampo a forma di narrazione, e lo stampo trasforma il passato caotico in un resoconto storico fittizio ma ordinato e lineare». L’emergenza attuale – non si può non essere allarmati dalla diffusione di storie cospirazioniste vertiginosamente inverosimili, o dal numero di persone che dà credito ai messaggi di QAnon – è causata dal divario che si è aperto fra risorse tecnologiche e capacità di controllo.
E peggio: i «social media che super-diffondono idiozie» potranno in un futuro prossimo avvalersi dei cosiddetti deepfake. Siamo a uno «snodo cruciale nella Storia dell’umanità: il momento in cui la realtà è morta perché la tecnologia ha reciso l’antico legame tra vedere/ sentire e credere».
Gottschall presagisce una sorta di apocalisse dell’informazione, e riprende a questo proposito il fosco neologismo «infocalisse» (infocalypse). Ma sarebbe sbagliato considerare Il lato oscuro delle storie come un libro apocalittico. Tant’è vero che la conclusione esibisce un titolo – Una chiamata all’avventura – che riecheggia la voce iniziale delle teorie sull’intreccio (cinematografico o romanzesco): the call to adventure segna l’avvio dell’azione nell’influente manuale Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler (tradotto in italiano da Audino nel 1992). Che cosa può salvare il mondo dalle storie? Altre storie, inevitabilmente (anche questo libro, infine, racconta).
Forse, storie senza cattivi: qualche esempio esiste (Gottschall cita il film di Alejandro González Iñárritu Babel, 2006). O forse, storie che sollecitano di empatizzare con i personaggi negativi: non per approvare la loro condotta, ma per comprenderne le ragioni, e combattere la facile illusione di essere migliori di loro. Il che in buona sostanza significa che abbiamo bisogno soprattutto di buoni lettori. Di lettori capaci di fare buon uso delle storie che apprendono. E qui verrebbe a taglio un discorso sulla differenza che passa tra le narrazioni informi e gelatinose che popolano i media e le narrazioni codificate e chiuse, quelle che ci consegnano la letteratura, il teatro, il cinema. Se è vero che sono «le narrazioni» a governare il mondo, allora non c’è migliore prevenzione contro il pericolo di cadere nelle trappole delle storie che imparare a conoscerle nelle loro espressioni più compiute.
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