Chi vogliamo diventare / Tempo incerto
Non fa per noi. La nostra specie non è fatta per vivere nell’incertezza. In coda per una visita medica, in coda per una denuncia – segni della ripresa del movimento urbano – è il refrain che si ripete di bocca in bocca.
Si sta come/d’autunno/sugli alberi/le foglie. A inizio anno, perché da tempo è la fine dell’estate il nostro capodanno, forse a unirci è proprio il si sta della poesia di Ungaretti. A molti insegnanti pareva il giusto inizio, perché, fino al 1977, si entrava in classe a ottobre. Nessuno spiegava agli alunni delle elementari che era stata scritta in trincea, nel 1918, nel bosco di Courton, tantomeno si parlava della tradizione poetica che paragona la condizione umana a quella delle foglie. L’accento era tutto su quel d’autunno, accompagnato spesso dal temutissimo disegno delle foglie. Anche il titolo, Soldati, era raramente ricordato. In una prima versione il poeta aveva pensato a Militari. Militari come militanti di una condizione umana che noi ora, nel tempo della pandemia, avvertiamo come un incessante cambiamento di stato. Quasi di status, se pensiamo al rapporto con l’animale e il naturale.
Si avanza incerti, uno sguardo al grafico saliscendi che segna l’andamento del virus, uno sguardo alle necessità più urgenti, a volte con rimpianto, a volte con senso di liberazione di quanto, nel frattempo, è evaporato. Da qui quel senso di incertezza, che tradizionalmente caratterizza le età di passaggio come l’adolescenza e la vecchiaia: il virus già un po’ lo si conosce, ma è tutto il resto che va risistemato. Se la mascherina è il segno collettivo dell’imprevedibile che ci è capitato, risulta faticoso mentalizzare gli effetti sistemici di aggregazione e disaggregazione di una vibrazione che si propaga dal sistema sociale a quello familiare a quello individuale. E viceversa.
Come se dovessimo tenere continuamente desta la funzione alfa, per trasformare gli elementi beta, come Bion chiama le impressioni sensoriali ed emotive, in capacità cognitive e immagini simboliche. Alcuni comportamenti paiono segnati non solo dalla psicologia, ma dalla dimensione dell’etologia: uscire di casa dopo mesi di rintanamento, andare a scuola dopo mesi di quotidianità simbiotica con i genitori, andare a teatro senza essere intimoriti dalla folla. E, soprattutto, sostituire il gesto della mano, “le mani che parlano” dei casi descritti da Oliver Sacks, le mani che illustrano e accompagnano la conversazione in tutte le culture nella classificazione di Eibl-Eibesfeldt. Le parole che eccedono – “parole schiuma” le chiama Kristeva – via skype e via zoom, saturano, non riescono a compensare l’assenza corporea, ci manca il contatto fiducioso che cura da sempre i grandi e i piccoli (si veda Claudia Baracchi, Senza mano nella tua mano). Così le mani si incontrano nel mondo infero, perché nei sogni si possono toccare. Si tendono tra individui sopravvissuti mischiati ai morti, tra i malati ricoperti di terra che, di nascosto, si danno la mano.
Come fossimo finiti in un non-luogo: una stazione o un aeroporto dove l’orario degli arrivi e delle partenze si è inceppato, un flusso sregolato trasmette l’impressione di dover continuamente ripartire. Intanto anche il significato di cosa è vicino e cosa lontano si è scombussolato. Una sensazione difficile da sintetizzare, e che risulta impossibile generalizzare. Perché se “Il virus, e il covid in particolare, è un’esperienza collettiva”, come scrive Pietro Barbetta (Covid: ognuno dica la sua), il macrocosmo dove naviga il soggetto collettivo si sparpaglia in una miriade di microcosmi: ognuno ha tematiche e problematiche proprie. Il mondo si è ristretto, la particolarità della situazione produce però l’infinità dei possibili, colpi di scena impensati in un fuoriprogramma continuo.
Il virus grava sull’economia, aggrava lo stato delle cose, affatica la quotidianità, eppure si danno combinazioni sorprendenti. La madre con il figlio disabile decide, con grande leggerezza, la pensione anticipata e la vita nella seconda casa; la coppia che scoppiava decide di avere un figlio; la coppia che ha già un pargolo decide, pur senza avere una lira, di fare il bis. La statistica ufficiale prevede un ulteriore calo delle nascite, nelle stanze d’analisi arrivano molte belle pance. E il lavoro di cura, affidato a badanti e babysitter, è avocato a sé. Chi ha appena avuto uno scatto di stipendio e di carriera, sogna di cadere, di essere investito da un tir, di essere sepolto da una montagna di email. Vorrebbe tornare a studiare, ma è un’impresa impossibile, meglio lasciare la città e immaginare un altro lavoro. Per anni l’amore scorreva sui binari alternati: in ufficio la/il collega, nel weekend la moglie/il marito. Il lockdown ha scomposto il copione e ora una scelta si impone.
Un io impotente e minacciato agisce da protagonista: si dichiara, esce allo scoperto, prende posizione. Trova il coraggio di cambiare vita.
La scomparsa di micro e macro contenitori sociali ha enfatizzato il contenuto. In un contesto in cui non c’è più un pubblico, in cui non incrociamo più spettatori in veste di arbitri, che possono approvare o disapprovare il nostro comportamento, l’io deve sospendere e parzialmente rinunciare alla domanda volta all’esterno, deve imparare ad aumentare la propria capacità di produrre auto-riconoscimento. A rivolgere all’osservatore interno l’interrogativo: qual è la buona condotta?
Certo, c’è l’insonnia e un aumento dello stato ansioso, ci sono gli attacchi di panico e una crescita del consumo di psicofarmaci, ma l’atmosferico della stanza d’analisi è affollato da una grande richiesta di chiarimento. E di orientamento. Come se nella sensazione di fine del mondo, di cui parlava De Martino, ciascuno volesse ritrovare il proprio campanile di Marcellinara (e l’attrazione per il piccolo borgo, forse, anche di questo si nutre). L’incontro ravvicinato con la malattia e la morte, una quotidianità condizionata da uno stato di fragilità, comunica la brevità dell’esistenza. Dato che non si sa che cosa accadrà da qui a dicembre, La vita sì che sarebbe un’alternativa, come appuntava la scrittrice tedesca Maxie Wander nel diario che ha accompagnato la sua malattia (Una vita preziosa, edizioni e/o, 1987).
Non so se il materiale raccolto dai terapeuti in questi mesi diventerà una documentazione per gli storici del futuro – I terapeuti sono i nuovi storici afferma Hillman in Storie che curano (Raffaello Cortina Editore, 1984) –, non so se emergeranno nuovi tipi psicologici. Difficile trovare il bandolo della matassa di fronte a soluzioni psichiche creative, a invenzioni di adattamenti che smentiscono molte teorie cliniche tradizionali. L’individuo spaurito e infantilizzato, che si aggira da mesi nello spazio interiore in perenne attesa di direttive dall’alto, si è trovato a pensare al soggetto che vuole diventare.
In Che cosa chiede Edipo alla sfinge? (in Il bambino dalle uova d’oro, Adelphi, Milano 2010), Fachinelli afferma: “C’è qui un problema nodale: che cosa significa fare il medico oggi, dopo che si sa che molte malattie, e forse tutte, sono in realtà malattie parlanti, per cui il medico dovrebbe sempre più farsi, evidentemente, interprete o linguista, e non soltanto linguista!”. Una lettura che può guidare nella comprensione degli effetti della pandemia. Unita alla sua visione della condizione umana come quella di creature ferite ci riporta al concetto freudiano di Hilflosigkeit. Etimologicamente la lingua tedesca intende il termine Hilflosigkeit, impotenza, come composto da due parole: Hilfe, aiuto e Losigkeit, perdita. Losigkeit, infatti, deriva dal verbo lősen, che significa sciogliere, risolvere, ma anche staccarsi da qualcuno. Impotenza come perdita degli strumenti utili a procedere da sé, come perdita di contatto con l’Altro. Senza l’idea di poter chiedere aiuto, dunque senza un Altro in mente. Per Freud l’esperienza originaria richiede l’intervento di un altro “essere-prossimo” che ha il triplo volto del Nebenmensch – primo oggetto di soddisfazione, primo oggetto ostile, unica potenza soccorrevole. “Freud chiama ‘intervento’ questo aiuto atteso dall’altro che si verifica al modo di un ‘aiuto estraneo’” (Cfr. l’introduzione di S. Mistura a S. Freud, L’avvenire di un’illusione, a cura di S. Mistura, trad. di E. Ganni, Einaudi, Torino 2015).
Freud parte da qui per riscrivere la storia dell’uomo che lo conduce alle riflessioni dei suoi due testi “culturali”, L’avvenire di un’illusione (1927) e Il disagio nella civiltà (uscito nel 1929) dove, seppure molti passaggi oggi non convincano, intuisce possibili connessioni tra gli stati della psiche e la crisi della modernità. Non siamo troppo lontani dall’idea antropologica che ogni cultura abbia una sua psiche e dal considerare il lavoro di cura una pratica di esistenza e un processo di umanizzazione. E di ri-umanizzazione.