Teodolinda a Monza
Santa Pasqua 1446
Una carrozza percorreva, veloce, la pianura lombarda ‘pervasa dall’irriguo’. Era quella ducale ma a bordo la figlia del duca non c’era. Bianca Maria preferiva cavalcarle a fianco. Non montava all’amazzone, come avrebbe prescritto il protocollo, per questo, sotto l’ampia gonna indossava le calzebrache. Alla stregua di suo padre, il duca Filippo Maria Visconti – che al Castello di Porta Giovia possedeva una straordinaria scuderia – anche lei amava i cavalli e le piaceva cavalcare. Era una cavallerizza provetta e non si dava la pena di prestare orecchio ai rimbrotti delle sue dame di compagnia, primi fra tutti quelli della sua antica balia, Caterina Meravigli, che le ripetevano di continuo quanto fosse disdicevole per la futura signora di Milano cavalcare come un uomo, sbuffare come un mantice e sudare come uno scaricatore del Laghetto[1]. L’abito di gala se lo era portato con sé. Giunta a Monza, prima dell’inizio della cerimonia, lo avrebbe indossato, dopo essersi rinfrescata, naturalmente. Non si poteva permettere di presenziare all’inaugurazione della cappella dedicata alla regina Teodolinda nel duomo di San Giovanni Battista se non con abiti degni del suo rango e del suo censo e di quelli della celebrata. Poiché suo padre era a letto con la febbre e Francesco Sforza, il suo sposo, era impegnato a guerreggiare per estendere i confini del ducato, sarebbe toccato a lei rappresentare la Signoria milanese e, come sempre, lo avrebbe fatto in modo inappuntabile. Ora però si voleva divertire.
Spronò il cavallo e superò la carrozza.
“Presto! Presto! Dovete far presto!” risuonava la voce dell’arcidiacono esortante i servitori che si affannavano a ripulire le tracce di sangue dal pavimento della cappella. Simili incidenti non erano infrequenti quando si smontavano i ponteggi, ma che quel giovane apprendista fosse precipitato al suolo, sfracellandosi, proprio il giorno dell’inaugurazione, anche sì quello della Santa Pasqua, non ci voleva. “Le sacre celebrazioni sono ormai prossime” aggiunse, in un sussurro, il prelato costernato.
“Giovanni, Giovanni, dove sei?” gli si sovrappose d’un tratto la voce trafelata di un uomo entrato all’improvviso nella Cappella. Era quella di Gregorio Zavattari, uno dei mastri pittori che avevano eseguito le pitture murali, venuto in cerca del suo giovane fratello.
Giovanni non gli rispose. Da quando era occorso l’incidente non si era mai mosso. Era rimasto, come pietrificato, in un angolo a osservare i becchini portare via il cadavere.
“Dai Giovanni, vieni via” lo invitò Gregorio, che lo aveva nel frattempo raggiunto. “Ormai qui non si può fare più niente. E poi la figlia del duca sta per arrivare. Non vorrai che ti veda in questo stato. Ne va della nostra dignità di artisti.”
Questa immagine e le seguenti: Bottega Zavattari, Cappella di Teodolinda, Monza, Duomo di San Giovanni Battista, 1444, pittura murale a tecnica mista, dettagli
E Giovanni si lasciò trascinare via ma non perché gli importasse qualcosa della propria dignità d’artista; semplicemente perché non aveva la forza di muoversi da solo. Si sentiva in colpa. Se l’apprendista era precipitato dai ponteggi malfermi era stato unicamente per colpa sua. Non avrebbe dovuto coinvolgerlo in un’impresa tanto pericolosa.
Il trabattello in fase di smontaggio aveva subito ondeggiato sotto il loro considerevole peso ma lui non se ne era curato e aveva seguitato a lavorare; doveva dare gli ultimi colpi di punzone allo sfondo in foglia d'oro zecchino della cappella absidale sinistra del Duomo di Monza, che con suo padre Francesco e suo fratello Gregorio aveva appena terminato di dipingere. Giovanni era un orafo-pittore, perciò si occupava degli sfondi d’oro e di tutto quanto doveva essere rifinito a rilievo e a punzone sulla foglia d’oro. Se voleva fare in tempo a cambiarsi d'abito per non sfigurare alla cerimonia d’inaugurazione doveva affrettarsi. Suo padre e Gregorio, puntigliosi e precisi, erano sicuramente già pronti. Si girò di scatto e il ponteggio cedette. Con l’abilità dettata dall’esperienza, agguantò, svelto, un trave con entrambe le mani e si sostenne. Stava ancora ondeggiando sospeso a mezz’aria quando udì un tonfo sordo e un rumore di ossa fratturate. Non senza difficoltà, si girò a guardare in direzione del suono e vide il corpo del giovane Genesio giacere a terra come un cumulo di cenci immersi in una pozza di sangue. Mentre i sensi di colpa già iniziavano ad attanagliarlo, non riuscì ad esimersi dal pensare quanto stridesse quella scena cruenta e reale con la dolcezza mondana, e ieratica al contempo, delle immagini dipinte tutt’attorno a lui.
A quell’ora del mattino – nell’adiacente altare Maggiore si era appena concluso l’Ufficio della Terza[2] – la cappella sembrava brillare di luce propria. Tutto vi riluceva nel fulgore dell’oro. Come in una grande miniatura monumentale, l’oro era dovunque: sporgente a rilievo sulle pastiglie di gesso; punzonato sul fondo; sulle corone e sui gioielli dei personaggi, impreziositi da lucenti paste vitree; sul vasellame delle tavole imbandite e persino sui capelli biondi delle dame trattenuti da reticelle esse pure dorate; sulle loro vesti sontuose; sugli strumenti dei musici; sulle bardature dei cavalli; sulle armi dei cavalieri e sui paramenti sacri degli ecclesiastici. Ori lavorati con inserzioni a lamina di stagno. Filippo Maria Visconti, committente dell’opera[3], non aveva badato a spese. Solo in foglia d’oro zecchino e in pastiglia aveva fornito più di tre libbre grosse, corrispondenti a 84 once di 72 denari. In nessuna chiesa del ducato si era mai profuso un simile ingente patrimonio.
Cinque anni erano durati i lavori e finalmente, tra breve, il mondo intero avrebbe potuto ammirarli. Si trattava di una superficie dipinta di un’estensione assai considerevole, quasi una pertica[4], con quarantacinque scene distribuite su cinque registri sovrapposti, animate da oltre ottocento personaggi. Giovanni e la bottega di famiglia vi avevano operato all’unisono: lui come orafo-pittore; suo padre Francesco in qualità di “dominus magister”, di regista cui era spettata la progettazione dell’insieme e dei dettagli di ogni singola scena; Gregorio, invece, che aveva doti di ritrattista, aveva dipinto i volti: volti bellissimi, perfettamente ovali e con gli orecchi quasi frontali, i nasi lunghi e diritti e le bocche piccole e ben modellate; Ambrogio, invece, il fratello minore, essendo impegnato sul cantiere milanese di Cascina Gatti ad eseguire un’immagine della Vergine col Bambino, veniva raramente a Monza e solo se chiamato per necessità. Gli Zavattari erano talmente orgogliosi del risultato ottenuto che avevano persino apposto la loro firma sulla scena trentaduesima, la più bella di tutte le pitture murali: de Zavatariis[5], vi avevano scritto accanto alla data 1444.
Quando Gregorio aveva udito le urla e i richiami, si trovava nella sacrestia contigua alla cappella, già agghindato di tutto punto, a crogiolarsi all’idea che tra poco avrebbe rivisto madonna Bianca Maria. L’aveva incontrata una volta soltanto, a Milano, durante una cerimonia nel duomo, e se ne era perdutamente invaghito, al punto da aver prestato il suo volto alla regina Teodolinda in ogni scena che aveva dipinta. In fondo, aveva pensato, le due nobildonne avrebbero davvero potuto assomigliarsi. La regina dei Longobardi era di origine bavarese, dunque avrebbe potuto aver avuto colori simili a quelli della figlia del duca di Milano: capelli biondi, incarnato chiaro e quegli splendenti occhi azzurri che quando ti guardavano parevano sondarti l’anima.
Ma quello della presupposta somiglianza fisica non era l’unico punto in comune fra Teodolinda e Bianca Maria; vi era un’analogia anche tra le loro vicende matrimoniali. Le nozze di entrambe avevano e avrebbero di fatto condotto i loro rispettivi consorti al potere: Agilulfo era divenuto re dei Longobardi grazie alle nozze con la loro regina, e Francesco Sforza, alla morte di Filippo Maria Visconti, sarebbe stato legittimato ad assurgere alla dignità ducale di Milano per mezzo di quelle con sua figlia.
Era stato il dotto Pier Candido Decembrio, fedele segretario alla cancelleria e biografo del duca, coadiuvato da un teologo monzese, il francescano Martino Reco, a dettare a mastro Francesco Zavattari il complesso programma iconografico da attuare nelle pitture murali. Per un fine gioco politico, di avallo della signoria viscontea, era infatti opportuno legarne l’incerta genealogia – presunta longobarda – alla stirpe regale di Teodolinda, come già aveva sostenuto la letteratura compiacente fin dai tempi di Azzone Visconti. Agli Zavattari dunque il compito di mettere in scena quella politica attraverso immagini capaci di “storicizzare”, agli occhi dei molti, il casato milanese e di coronare, al contempo, il sogno accarezzato da Filippo Maria di un regno visconteo. Ed ecco, allora, signa simillima verbis, avvicendarsi sulle parete della cappella, nel baluginio degli ori e nel tripudio delle lacche dai mille colori, scene nuziali, banchetti, feste, balli, battute di caccia, incoronazioni, cerimonie religiose, viaggi e battaglie che, sebbene ‘retrodatate’ all’epoca longobarda apparivano, negli usi e nei costumi, in perfetta sintonia con il clima cortese di stampo europeo che si respirava nella Milano dei Visconti.
Non appena Bianca Maria ebbe messo piede nella cappella, restò abbagliata dal fulgore degli ori. Nulla faceva supporre che vi si fosse appena consumata una morte cruenta. Sguatteri e diaconi avevano fatto un ottimo lavoro, i primi a nettar via il sangue, gli altri a profondervi centinaia di candele accese affinché tutto risplendesse.
La figlia del duca, muovendosi nella cappella, pareva una figura uscita dagli affreschi. Vestiva un abito regale, cangiante dal celeste al porpora, bordato d’oro e trattenuto sotto il seno da un aureo cordiglio, aperto sulle maniche parimenti bordate d’oro con inserzioni di gemme, del tutto simile a quello indossato dalla regina Teodolinda nella scena dell’incoronazione di Agilulfo.
E Gregorio, spiandone l’espressione estasiata, mentre osservava, stupita e compiaciuta, la sua somiglianza con la regina dei Longobardi, sorrideva, appagato.
[1] Il Laghetto urbano di Santo Stefano in Brolo (attuale Via Laghetto) era il punto in cui venivano scaricati i blocchi di marmo destinati alla Fabbrica del Duomo di Milano, provenienti dalle cave di marmo di Candoglia in Val d’Ossola. Dopo aver navigato lungo il fiume Toce, il Lago Maggiore e il Ticino, i barconi che li trasportavano entravano in città dal Naviglio Grande e poi, grazie a un sistema di chiuse, raggiungevano il Laghetto, a poche centinaia di metri dal cantiere. A progettare e a costruire la prima Conca di navigazione interna d’Europa, la Conca di Viarenna, erano stati gli ingegneri Fioravante da Bologna e Filippo Degli Organi da Modena nel 1439.
[2] Circa le nove e trenta del mattino.
[3] Lo stemma visconteo del vicariato imperiale, con l’arma de la serpe inquartata con l’aquila, campeggia nella lunetta che sovrasta la grande finestra centrale delle tre aperte nell’abside sinistra; su un’altra compare l’impresa del velo, noto anche come fazolo, sudariolo, tortiglio o capitergium cum gassa, con le due cocche pendenti, «imperialis divixia» che racchiude la colomba raggiata nel panno ravvolto in forma di cerchio, secondo la variante adottata da Filippo Maria; sull’altra lunetta è riprodotta invece l’impresa, anch’essa propria di Filippo Maria, della corona ducale coi piumai, insieme al motto visconteo «à bon droit», attribuito al Petrarca, qui modellato a pastiglia dorata. A lato degli stemmi è effigiato, sempre a pastiglia dorata, l’acronimo «FI - MA» (Filippo Maria) sovrastato dalle coroncine ducali. Inoltre, sullo sfondo delle pitture murali, ricorrono i gigli di Francia, entrati a far parte dell’araldica viscontea - e nello specifico delle imprese di Filippo Maria - con le unioni matrimoniali tra i Visconti e la casa di Valois, come mostra il codice Trivulziano (Milano, Civica Biblioteca Trivulziana, Codice Trivulziano 1390).
[4] Ammonta a cinquecento metri quadrati.
[5] Nell’ultima scena dell’ultimo riquadro o capitulo del quarto registro si legge l’iscrizione: 1444 / SUSPICE QUI TRANSIT, UT VIVOS CORPORE VULTUS / PENEQUE SPIRANTES, ET SIGNA SIMILLIMA VERBIS. / DE ZAVATARIIS HANC ORNAVERE CAPELLAM / PRAETER IN EXCELSO CONVEXAE PICTA TRUINAE.