Tutti gli animali immaginari

13 Marzo 2023

Perché abbiamo avuto e abbiamo ancora bisogno di inventare creature fantastiche, ibridi, mostri, mutaforma? Perché gli unicorni percorrono la Rete? Perché ci si affeziona al Tamagotchi? Perché Bigfoot, il gigante ricoperto di pelo, assomiglia ad Enkidu, protagonista dell’Epos di Gilgameš? Perché Kafka dà vita ad Odradek e Manganelli al Versipelle? E, perché, come suggeriva Borges, “la zoologia dei sogni è più povera di quella di Dio”? 

Dieci anni fa lo storico e scrittore americano Boria Sax pubblicava Il grande libro degli animali immaginari (il Saggiatore), che ora viene reso disponibile per il pubblico italiano nella traduzione di Valerio Camilli. Per fare ingresso e addentrarsi nell’universo degli animali che non esistono, anche grazie a un ricco apparato iconografico, si tratta di uno strumento indispensabile. Sax – di cui si possono leggere gli studi dedicati ad Animali e nazismo (edito da Le Monnier) e ai dinosauri (Dinomania, edito da Odoya) – parte da un presupposto: come insegnano sia la biofilia (secondo cui, come afferma Edward O. Wilson, gli animali immaginari sono la rappresentazione del legame emotivo tra uomo e animali) sia la antrozoologia e la zoo-antropologia (rappresentata in Italia soprattutto da Roberto Marchesini), ciò che noi sapiens siamo come specie lo dobbiamo all’interazione con gli animali.

A differenza di quanto sostenuto dal pensiero umanistico, l’uomo non è posto al vertice di una scala gerarchica, da cui plasma a proprio piacimento la natura circostante, ma sta dentro a una rete di relazioni con le cosiddette alterità non umane. Dunque non solo l’animale ci insegna e ci ha insegnato a vivere – lo evidenzia, in particolare, il legame tra uomo e cane – ma sull’animale abbiamo proiettato costantemente aspettative, desideri, paure, sogni. In definitiva, abbiamo costruito l'idea di umanità attraverso l'incontro con gli animali. 

In tale direzione, spiega Sax, entrano in gioco gli animali immaginari, che non sono dunque derubricabili come innocui esiti di giochi di fantasia. O meglio, la fantasia c’entra, ma con dinamiche più complesse del semplice gioco. La nostra natura proteiforme ed “elusiva” – il nostro non essere facilmente definibili, il nostro essere aperti a tutto, il nostro includere ed escludere componenti umane inserendo nella specie chi non vi appartiene (nella cultura occidentale è capitato all’orso, alla scimmia, al cane, tra i karam della Nuova Guinea è toccato a un uccello, il casuario) od escludendo chi invece ne fa pienamente parte (è il presupposto di ogni razzismo, etnocentrismo, discriminazione di genere) – infatti ci conduce a usare l’immaginazione per creare anche quello che non c’è. L’animale fantastico ha origine dalla stessa pulsione che conduce gli artisti del Paleolitico ad affrescare la grotta di Chauvet con bisonti e cavalli realistici. È questo il primo assalto di Sax ai luoghi comuni: l’animale reale e quello immaginario vanno a braccetto.

In qualche modo sono figli dello stesso padre, perché a entrambe le categorie abbiamo attribuito un senso ulteriore, rilevante per noi umani. L’animale immaginario ha in sé particolari incongrui, strane conformazioni. È elaborato partendo da presupposti erronei, ispirati ad animali con difetti congeniti o estinti (mammut e megaterio), di cui si tramanda oralmente memoria o di cui sono ritrovate le ossa, che, prima di Cuvier (1769-1832), si attribuiscono a misteriosi animali sconosciuti. Ma, su tutto, l’animale immaginario è il più umano tra i viventi (deriva da qui il numero limitato di combinazioni anatomiche notato da Borges?), quello su cui riversiamo le nostre incertezze. La sua presenza, non a caso, si infittisce nelle epoche di crisi e di profondi cambiamenti, destinati a rimettere in gioco la nostra identità e la nostra posizione nel mondo.

La parola mostro, d’altra parte, deriva dal latino “monere”, ammonire. Gli indovini interpretano l’apparizione dell’animale mostruoso come segno di un disastro imminente. Descriverlo è quindi “un modo di registrare i cambiamenti a cui l’umanità va incontro mentre assorbe, rivendica o cerca di disconoscere caratteristiche che scopre nelle altre creature”. A lui ci affidiamo per gettarci alle spalle timori profondi. È così da quando Empedocle, nel V secolo a.C., ne fissa il modello archetipico, sostenendo che la creazione del mondo è stata seguita da un periodo di caos dominato dai mostri. È un’idea che si ritrova nei miti, nelle leggende, e persino nella scienza, visto che Stephen Jay Gould in La vita meravigliosa, analizzando l’esplosione della fauna di Burgess nel Cambriano, la definisce come la “trascendente stranezza”, una sorta di intreccio inverosimile di attitudini e morfologie. Le creature fantastiche sono allora “un portento portato dal caos”, ma “perché la vita ordinaria continui il suo corso, i mostri vanno distrutti”.

Gli animali immaginari compaiono prima del ritorno all’ordine. Sia nelle caverne paleolitiche che nelle cattedrali medievali si trovano dopo la soglia e prima dei dipinti più maestosi. Gli autori medievali li collocano sul margine dei manoscritti. Compaiono nei luoghi disabitati: “deserti, foreste remote, isole lontane, ghiacciai, profondità oceaniche, picchi montuosi, caverne, paludi”. Riempiono l’inconscio, emergendo nei sogni, nelle fantasie e nei momenti in cui le barriere della razionalità si sgretolano. Li ritroviamo nelle macchie di inchiostro, nella forma delle nuvole, sulla pietra lavorata dal tempo. Perché sono lì? Secondo Jurgen Baltrušaitis possiedono un potere magico e rappresentano una sorta di fertilità primordiale. I mostri medievali come i gryll e i gargoyle, che popolano le facciate delle cattedrali, permettono agli artisti di liberare l’immaginazione prima di rientrare nel territorio della ragione. 

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Cos’è allora un animale immaginario? “Per il singolo individuo, un’associazione di persone o persino per l’umanità intera è un secondo sé. Qualcosa che forse siamo stati, che potremmo diventare, in cui abbiamo paura di trasformarci o che aspiriamo a essere”. Per questa via il contatto tra uomo e animale “può liberarci, anche se solo parzialmente e momentaneamente, dai freni e dalle limitazioni della nostra cultura"e spingerci a interrogarci "sulle questioni fondamentali di vita, morte, tempo e identità”, obbligandoci ad abitare un territorio dove raramente l'uomo è al centro, ma dove, al contrario, è posto su un piano di eguaglianza con le altre forme viventi. 

Alla luce di tutto ciò Sax non ha dubbi: la tentazione di creare animali immaginari è una costante della storia umana, non è confinabile a uno stadio primitivo della civilizzazione. A renderla possibile è stata l’elaborazione di una teoria della mente. Secondo l’antropologo Steven Miten, gli ominidi, circa 500 mila anni fa, hanno acquisito l’abilità di interpretare il comportamento altrui, attribuendo ai propri simili “convinzioni e desideri diversi dai propri”. Di qui deriva la formazione di società relativamente complesse fondate sulla divisione del lavoro. Circa 50.000 anni fa la comprensione è stata estesa agli animali, rendendo gli umani capaci di entrare in una più vasta rete di relazione con altre creature. Il risultato è stato la “fluidità cognitiva”, ovvero “il collasso delle frontiere concettuali che un tempo separavano gli esseri umani dalle altre creature”, che ha posto gli artisti nelle condizioni di “dipingere fantastici ibridi” tra persone e altre creature e ha permesso in seguito di sviluppare “la relazione simbiotica” che ha consentito l’addomesticazione.

Quando entriamo nella mente di un animale, lo sdoppiamo: all’animale che vediamo di fronte a noi, ne associamo un altro, “meno visibile, costituito dalla sua natura intima, che chiamiamo coscienza”. Mente e corpo si dividono e si dà avvio così alla possibilità di metamorfosi. La fluidità cognitiva permette la fusione tra sé e l’altro, così come quella tra realtà e fantasia, che è alla base di gran parte della cultura umana. Ma non è tutto. Una teoria della mente potrebbe appartenere anche ad alcune specie animali, che, in tal modo, avrebbero acquisito la facoltà di creare animali fantastici. Da qui deriverebbero numerose relazioni interspecifiche, in particolare quella che regola il rapporto tra predatore e preda. Così lupo e renna potrebbero fondersi in una sola creatura. Così i cani si potrebbero immaginare come in parte umani o potrebbero pensare che gli uomini siano per metà cani. 

Appare certo che ci siano state epoche in cui la distinzione tra animale immaginario e reale – letteralmente – non venisse colta. Facendo riferimento all’impianto metodologico dell’antropologo Philippe Descola, Sax sottolinea che là dove prevale la mentalità animistica e totemica – come nelle culture indigene americane e in quelle aborigene australiane – la “linea di demarcazione tra realtà e fantasia è porosa” e la distinzione non ha senso; nelle culture dove invece spicca la mentalità analogica, quale quella rinascimentale, e, fino a tempi recenti in Cina ed in Asia orientale, la creatura fantastica stabilisce un legame metaforico con quella reale. È solo dunque nella prospettiva del naturalismo, tipica della cultura europea occidentale modellata dalla scienza sperimentale e dall’Illuminismo, che verità ed esperienza si separano, provocando la divaricazione tra animale immaginario e animale reale. Solo nel momento in cui l’immaginazione viene vista come una deviazione dal vero (c’è una continuità temporale se non etimologica tra la circolazione del termine “imaginary” e “magic”, entrambi entrati in uso in Inghilterra dal XIV secolo), i due continenti si separano, complice pure l’insofferenza delle Chiese riformate verso ogni apparente superstizione.

Seguendo un altro tracciato, si può dire che mentre gli antichi greci e romani cercano di standardizzare le creature fantastiche per classificarle come quelle reali, nel medioevo la cultura cristiana le demonizza, mentre la cultura ebraica, islamica e protestante proibisce la loro rappresentazione. Non bisogna però dimenticare che la crescita del pensiero razionale e laico non annulla gli animali immaginari. È significativo che gli avvistamenti di sirene aumentino a partire dal XVI secolo. E che ancora oggi con una certa frequenza si segnalino esseri non riconosciuti dalla scienza ufficiale, dal Bigfoot nordamericano al mokèle mbèmbé, presunto dinosauro sopravvissuto all’estinzione di massa in Africa centrale, al mostro di Loch Ness

Ma andiamo oltre. Se lo statuto di “immaginario” in qualche modo pertiene a tutti gli animali, ne derivano due corollari. Il primo è una dichiarazione di insufficienza: siamo destinati a non riuscire a vedere l’animale per quello che è . Perché il punto di vista dell’osservatore – esito di incroci personali, culturali e storici – ci impedisce di non concettualizzare e di non antropomorfizzare, ovvero di non essere sapiens. Noi, anche quando siamo armati delle migliori cautele, siamo quelli che diamo il nome agli animali: nome del genere, della specie, del singolo esemplare con cui conviviamo. E, nominando, li incaselliamo in un sistema, costruito sulla nostra visione delle cose. Mettiamoci il cuore in pace, dentro all’universo animale – lo ha suggerito un secolo fa per primo Jacob Von Uexküll – non ci arriveremo mai.

Anche se ci possiamo provare. Per Temple Grandin, per esempio, gli animali, come gli autistici, vedrebbero il mondo sotto forma di immagini più che di astrazioni, dove non esistono specie ma una infinita varietà di creature individuali. E “forse questa fantasmagoria è una specie di ambito originale della percezione a cui gli uomini tornano quando le loro abitudini e il loro modo di pensare sono sconvolti da una grave crisi”. La nostra unicità potrebbe allora non essere quella di immaginare creature fantastiche ma di crearne di reali. L’incontro con il limite produce però contraccolpi proficui. È l’immaginazione animale che ci conduce a “un tempo primordiale in cui non avevamo ancora racchiuso il mondo in una serie di nomi, categorie ed elaborate strutture concettuali". 

Il secondo corollario impone un bel bagno di umiltà e ci invita a fare uno sforzo aggiuntivo. Anche se le acquisizioni della scienza moderna e contemporanea hanno una solidità straordinaria, non possiamo dimenticarci che qualsiasi approccio al mondo degli animali non umani è da storicizzare. Vale oggi, ma non vale a tempo indeterminato. Il concetto odierno di animale è parte della visione scientifica del mondo, ma poggia su premesse difficili da spiegare e impossibili da provare. Scienza, religione e legge occidentali si basano sull’accettazione di categorie stabili come animali, piante ed esseri umani, che sono però tutt’altro che ovvie e universali.

Le tassonomie, come dimostra il Systema naturae di Carlo Linneo (1735), sono figlie del loro tempo. Su che cosa ci si siamo basati per classificare e nominare le forme viventi? Siamo sicuri di essere riusciti a far a meno del “senso comune” (Linneo non ci riesce del tutto, visto che ritiene le balene pesci e i rinoceronti roditori)? A distanza di secoli ci saranno ancora quegli animali? Non avranno forse cambiato abitudini e apparenza (si pensi all’ampia serie di studi oggi dedicata alla fauna urbana)? E poi, soprattutto, quali dettagli susciteranno l’attenzione degli uomini del futuro? Né dimentichiamoci che la nostra idea degli animali è condizionata sia dalla sottolineatura dell’unicità umana (è la linea di Cartesio, che riprende vigore quando le teorie evoluzionistiche di Buffon e Lamarck prima e di Darwin e Wallace poi sembrano equiparare le scimmie all’uomo), sia da quella, opposta, volta a “enfatizzare la nostra somiglianaza con le altre creature” (è la linea che decolla con Aristotele, ripresa da Eliano nel II secolo d.C. e, in ambito cristiano, seguita da san Paolo e da san Francesco, ma ripresa anche da Michel de Mointagne e, nell’Ottocento britannico, dal reverendo-scrittore J.G.Wood).

Con questa prospettiva, risulta innanzitutto evidente che qualsiasi tassonomia finisce col fare affidamento “su un senso intuitivo dell’ordine naturale”. Che vale per gli animali reali esistenti (il bonobo è uno scimpanzè?) o esistiti (la tigre della Tasmania che abbaiava era forse un cane?) e per quelli immaginari (l’unicorno è un cavallo, una capra, un rinoceronte o qualcosa di completamente diverso?), il cui statuto (animali reali o immaginari?) dipende in definitiva dalle nostre risposte, dai limiti delle nostre aspettative e dalle nostre conoscenze. Il punto d’arrivo è comunque uno: anche gli animali esistenti prima o poi potranno far ingresso nella categoria degli inesistenti.

Oggi, del resto, esperienza ed immaginazione non sono più così distanti. Appare più evidente che la percezione consiste in un esercizio di immaginazione, che coinvolge dimensioni biologiche e culturali. Per cui il modo in cui “dividiamo ogni forma di vita in organismi separati … finisce per rivelarsi tutt’altro che obiettivo”. Sulla base di che cosa, per esempio, non pensiamo a un alveare come un organismo unico? E perché non consideriamo l’armillaria ostoyae, ovvero il fungo chiodino, che ricopre in Oregon un’area di diecimila chilometri quadrati, un unico organismo anziché un insieme di piccole unità? Se i funghi sono più affini agli animali che alle piante questa sarebbe una creatura mostruosa e smisurata, il più vero degli animali fantastici. 

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