Mobilità mentale / Vecchi

9 Maggio 2017

Quando si comincia a parlare di vecchiaia si ha sempre e subito la tentazione di ficcarsi nel fitto bosco delle magagne che essa porta, a partire da quelle del corpo. Il flash mentale che immediatamente si accende è quello dell’avvizzirsi della pelle, del piegarsi della postura, del ralentie dei passi. Ma non è corretto, quelle sono le conseguenze, per così dire, della vecchiaia, sono gli esiti ultimi di un cammino che ha un punto di inizio, un momento in cui tutto comincia. Da questo, credo, vale la pena partire per circoscrivere il tema e collocarlo negli ambiti che gli sono propri.

 

C’è bisogno di sintesi, di qualcuno che tiri le fila del mondo, ma purtroppo nessuno ce la fa, il panorama delle cose è sempre più frastagliato e scivoloso, si naviga nella tempesta e non si riesce più a gettare facilmente l’ancora per fermarsi da qualche parte a capire, a ragionare: questo è il sentimento di tutti gli individui che invecchiano. Non è il grido di disperazione per il pianeta che ribolle di tensioni paurose, per i diritti e le coscienze finiti alle ortiche, per i politici matti che prendono il potere, no, è il sentire comune di un sostanziale progressivo disorientamento in cui si esprime il più individualistico dei bisogni umani, cioè l’istinto di sopravvivenza. E con questo, a un certo punto, dobbiamo fare i conti.

 

Al Pacino, nel 2013, quando gli chiesero cosa pensasse del peso dei suoi settantatré anni, rispose: “Al parco mi chiedo continuamente perché gli alberi vanno più lenti. Che sta succedendo agli alberi?”. Già, perché sono gli alberi che a un certo punto prendono a fare cose diverse, vanno più lenti. La trovo una splendida immagine della vecchiaia, una descrizione precisa e lieve di uno status di nuova instabilità a cui tutti andiamo incontro con una progressione che aumenta man mano che passano gli anni. 

 

Non si sa bene quando cominci la vecchiaia e l’idea che il countdown sia iniziato è tra le più disturbanti per chiunque, per questo le barriere psichiche di difesa lavorano via via sempre più intensamente per proteggerci il più a lungo possibile. Naturale che ti venga la voglia di buttare addosso agli alberi la responsabilità della nuova condizione di crescente smarrimento, di angoscia, di paura in cui ti trovi. 

 

Pierre Bonard, autoritratto.


A dispetto di ogni ricerca e statistica la vecchiaia vera, quella “tua”, nessuno capisce esattamente quando abbia inizio. Ognuno assiste, in soggettiva, al proprio accadere, solo l’individuo può cogliere il momento in cui il suo proprio declino sta per prendere il via. Con maggiore o minore consapevolezza, solo lui può certificare della novità che lo invade. 

 

Si dice che essere vecchi “è una questione di testa”. Il fatto è che non c’è un profilo universale dell’età avanzata, perché la vecchiaia è anzitutto un dato soggettivo, per l’appunto. Essa infatti comincia a esserci nel momento in cui io percepisco il mio invecchiare, che è tutto mio. Certo c’è una fenomenologia precisa che identifica lo status di vecchio, il fisico prima di tutto. Ma l’osservazione oggettiva della vecchiaia, a chi vecchio non è ancora, in sé offre poco, può solo suggerirne una generica sensazione, e una suggestione non è un vero e proprio contatto. Un giovane geriatra saprà tutto dei vecchi, ma li “sentirà” solo astrattamente. Quando io giovane guardo un vecchio, pur scorgendone le evidenze, cioè le generalità, posso percepirlo come un essere che mi è simile soltanto in una prospettiva futura. Egli ora non è un mio simile. Solo dal momento in cui anch’io comincerò a invecchiare piano piano percepirò dapprima gli altri come più vecchi di me fino a quando, più in là nel tempo, vedrò il vecchio come un altro me stesso. Una proiezione che lentamente diventa incarnata, embodied

 

Per questo, probabilmente, è più facile raccontare la vecchiaia dal punto di vista del singolo individuo. Descriverla in generale è utile ma è poco efficace, proprio come è più utile il particolare del singolo romanzo rispetto al generale della letteratura. Parlare in generale della vecchiaia è come dire cosa essa possa essere. In particolare, invece, è come dire che cosa essa è. 

 

Ma la mia età si colloca in una certa epoca, e la mia età, in questa certa epoca, corrisponde, grosso modo, a un determinato insieme di saperi/esperienze. E lo sperdimento generale che è proprio dei vecchi di ogni tempo, oggi a noi tocca viverlo in condizioni mutate rispetto al passato, perché le condizioni in cui si vive sono in perenne mutamento. È l’aggiornarsi della vecchiaia, il diverso modularsi dell’invecchiare. Ci sono vecchiaie deliziose e vecchiaie spaventose, scorci di vita affrontati con levità e conclusioni orribili e il solo elemento che le accomuna è la conta del tempo. Ma la categoria del tempo non può da sola istituire un’ontologia. L’ansia definitoria, direi tutta occidentale, in questo campo non ha molto senso (se non per stabilire convenzioni scientifico-sociologiche: gli young old, gli old old, gli oldest old, la terza età, la quarta età…).

 

Anche perché si rischia di ancorarsi a concetti che in sé possono non avere un’utile consistenza. Cicerone descrisse la vecchiaia che più gli stava a cuore prendendo come esempi i vecchi e ricchi senatori romani. Avesse raccontato nel De senectute i vecchi romani umili tutto sarebbe stato diverso nell’immagine che dei vecchi avremmo avuto per secoli. Tra il settantatreenne Mick Jagger e il settantatreenne ex-impiegato mio vicino di casa non ci può essere alcuna relazione. Il numero 73 non è che una futile casualità che li accomuna, come potrebbe esserlo il colore verde di una loro giacca. Vecchi tutt’e due, certo, ma che senso comune ha una parola che viene usata per designare fenomeni così distanti?

 

Abbiamo dovuto aspettare il 1970 per capire, grazie al sempre fondamentale La terza età di Simone De Beauvoir, che “vergogna” fosse la vecchiaia. «I vecchi sono degli esseri umani? – scriveva – A giudicare dal modo con cui sono trattati nella nostra società, è lecito dubitarne: la vecchiaia resta un segreto vergognoso, un soggetto proibito. È proprio questo il motivo che mi ha indotto a scrivere queste pagine. Ho voluto descrivere la condizione di questi paria e il loro modo di vivere, ho voluto fare ascoltare la loro voce: saremo costretti a riconoscere che si tratta di una voce umana.” 

 

Pierre Bonard, autoritratto.


Conclusione: 1. la vecchiaia vera è quella mia e 2. questa realtà effettiva tutta mia non so bene quando comincerà. So soltanto che sarà diversa dalle vecchiaie che mi hanno preceduto. Essa è un fatto temporaneo molto strettamente legato al momento storico in cui accade. Per questo, a mio modo di vedere, è necessaria una continua revisione della nozione di invecchiamento. Solo se questa prospettiva è messa a fuoco si può cercare di capire il proprio presente. Non il presente in generale, ma il proprio determinato presente individuale.

 

Fino agli anni Sessanta-Settanta c’era come un protocollo dell’invecchiare, l’invecchiamento era ancora sostanzialmente inscritto nella codificazione antica, c’erano dei modelli sociali invalsi, per uomini e donne, e man mano che le persone varcavano la soglia fatidica bastava conformarsi e il gioco era fatto, le femmine dentro a un certo cliché, i maschi in un altro, le ricche, i ricchi, tutti avevano le loro modalità di invecchiamento già predisposte. E tutti questi modelli erano strutturati sui diversi, e ben distinti, valori della classe sociale di appartenenza: invecchiare da contadini voleva dire una cosa precisa, da ricchi possidenti un’altra altrettanto precisa, da operai, da segretarie… Il resto lo faceva la salute.

 

Con le mutazioni prodotte dalle crisi e dalle ribellioni degli anni Sessanta-Settanta, tutto ha preso a cambiare (come gli alberi di Al Pacino) e i baby-boomers, i giovani di allora che oggi stanno cominciando a invecchiare, non ne vogliono sapere di schemi e copioni già scritti, gradualmente ciascuno di loro sta provando a invecchiare alla maniera sua propria. Secondo strani conformismi tutti loro, che spesso diventano vere bizzarrie sociali e culturali: ci sono divertenti e impuniti rockers a spasso per le città, vecchi intellettuali, militanti-comunque-e-sempre con la mazzetta dei quotidiani sotto braccio, scout macilenti ma indefessi, femmine incazzatissime for ever… (quanto grande sia, in Italia, l’affezione a questi cliché “di lotta” lo dimostra Lidia Ravera con il romanzo Il terzo tempo, Bompiani 2017, e il suo blog). 

 

La capacità, il gusto e il piacere di esercitare il libero arbitrio sulla nostra vita, di decidere il nostro Che fare?, appannaggio fino a ieri delle classi privilegiate, oggi è di ciascuno di noi, tutti quanti possiamo praticare la libera scelta, almeno sul piano del costume sociale. La gabbia economica rimane un preciso confine entro cui questa libera scelta si comprime, ma il diritto a invecchiare secondo costumi di vita ispirati alle libertà è senz’altro una concreta acquisizione di progresso di cui disponiamo. Su questo, per altro, si fonda l’attuale inedita dinamica sociale tra i neotenici baby-boomers che non ne vogliono sapere di invecchiare e i loro figli, i millennials (ne parlano estesamente Marco Aime e Luca Borzani nel loro recente, Invecchiano solo gli altri, Einaudi 2017). 

 

Dagli anni Sessanta-Settanta in poi l’invecchiamento si è come disciolto, deregolamentato, e adesso a invecchiare siamo sostanzialmente soli, dobbiamo ciascuno trovare o inventare la nostra strada. Si può sicuramente ancora scimmiottare il vecchio di un tempo, fare quello che bivacca fisso alla bocciofila (ma ci sono ancora le bocciofile?), puoi fare l’umarell (l’anziano – tipicamente bolognese – che segue i cantieri, qui per approfondire), o la vecchierella indaffaratissima a pulire una casa che nessuno più frequenta, ma sarebbero tutte, diciamo così, citazioni, post-modernismi, vite inautentiche governate in realtà da una sostanziale perdita di orientamento (sulle molteplici strategie di difesa attuate nella nostra società varrà la pena fare uno specifico approfondimento). 

 

Ecco, il disorientamento, il perdersi generalizzato, è questo che ci obbliga a reagire con flessibilità, che dovrebbe essere la cifra della nostra vecchiaia individuale e brada di oggi. Non ci si può più affidare a modelli stabiliti o irrigidirsi in comportamenti esteriori, schiaccianti e massificanti. Per i vecchi sono sempre più necessari molti e continui adattamenti, pena l’espulsione sociale e affettiva. Ma paradossalmente – salute a parte – proprio questa necessaria “mobilità mentale”, questa capacità di cambiare e adattarsi alla svelta alle situazioni di vita, può diventare l’arma che ci permette di sostenere la guerra della vecchiaia. 

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