Vittore Fossati sulle rive del Tanaro
Se un titolo non è mai casuale e, anzi, è il tentativo di cogliere l’essenza di un’opera, bisogna partire da “Quaderno”, il nome che Vittore Fossati ha dato a due libretti pubblicati da Studio CCRZ.
Parola umile e famigliare, il quaderno è l’interlocutore silenzioso e intimo dove i pensieri vengono trattenuti in segni, che possono letti e interpretati per essere poi riletti e reinterpretati in una catena senza fine.
All’inizio quando fotografi ti accorgi solo delle cose più grosse, ma dopo un po’, camminando sulla riva di un fiume cominci ad ascoltare, arriva il suono dell’acqua sui ciottoli, poi senti lo scricchiolio dei tuoi passi e lo metti in relazione col rumore dell’acqua, guardi una cosa vicina ed una cosa distante, magari ti accorgi di un segno bianco su una pietra che indica una direzione e cerchi di intrecciarla col resto, e solo alla fine riesci a fare esperienza di un luogo, unendo tutte queste cose.
Le fotografie come esperienza reiterata, lettura continua e rinnovata di segni tante volte visti e apparentemente immutati. Esperienza che si è ormai consolidata in storia, se si considera che una sua fotografia, Oviglio, Alessandria, del 1981, apriva la sezione A perdita d’occhio del libro Viaggio in Italia di Luigi Ghirri.
Quel progetto pionieristico giocava sulla perdita d’occhio come dimensione dello spazio e come limite alla ritenzione della visione e della memoria. Se dunque l’occhio si perde nella moltitudine dei segni, è necessario uno strumento, un quaderno che li annoti, ne faccia un registro e li riproponga, senza clamori né enfasi, non come eventi, ma disponendoli in un continuum spazio-temporale. Dove, tuttavia, ogni elemento ha la sua esatta posizione, un suo preciso punto determinato da coordinate, le x e le y di un piano cartesiano dove ogni descrizione è possibile e dove ogni singola combinazione acquista senso in relazione alle altre. Il fotografo scatta e poi, assieme a chi le guarda, deve unire i puntini, come in un gioco enigmistico, per dare forma e figura ad una realtà. Fossati, di professione bibliotecario, trasforma i luoghi in segni, fa della topografia la sua fotografia, la sua scrittura di luce.
Negli spazi del Collettivo Tiff, a Piacenza, sono esposte trenta fotografie scattate in diversi anni, di un progetto chiamato Il Tanaro a Masio. Ogni giorno, recandosi al lavoro, Fossati passa vicino alle rive del fiume Tanaro, nella località di Masio. Non c’è nulla di particolarmente rilevante. Il fiume di Fossati è ben distante da certi luoghi descritti da Fenoglio: hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato (…) Un’acqua più porca e avvelenata, che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna. Nelle sue fotografie compaiono pochi elementi: alberi, foglie, rami secchi. E il Tanaro che non scorre, non si infuria come un torrente in piena, ma è immobile, ricorda gli specchi d’acqua rafferma delle paludi. Persino le stagioni si avvicendano quasi impercettibilmente, e sono proprio gli alberi a rivelarle, dalle chiome folte in primavera e con i rami spogli in inverno. Sembrerebbe quasi un paesaggio da cui l’uomo non è attratto, poiché non ha il fascino della libertà suscitato dallo spazio che tende all’infinito dell’orizzonte marino, e nemmeno la magnificenza di una montagna che incombe minacciosa. Non si nota alcuna presenza umana o animale, solo la vegetazione abita quei luoghi immersi nel silenzio. Fossati fa sua la questione posta da Carlo Arturo Quintavalle nell’introduzione al Viaggio in Italia, e cioè che il problema era quello di porsi di fronte al paesaggio come luogo ignorato e quindi emarginato, e quindi escluso, una ricerca dell’Italia dei margini, (…) che però è anche la sola che noi conosciamo, comprendiamo, viviamo.
Per questo l’apparente impenetrabilità di quei luoghi, come un’epifania resistente a qualsiasi percezione frettolosa, esige, nel senso più autentico della parola, attenzione. Ed è in questa dimensione che qualcosa accade. Un lungo ramo sottile attraversa quasi tutto il fotogramma e tocca la punta di un albero; un altro ramo, per un effetto ottico, attraversa il fiume e va a sfiorare un albero sulla sponda opposta; le punte di due rami appaiono ai lati del fotogramma, come uncini che agganciano il fiume in primo piano a ciò che resta fuori dall’immagine. Fossati dà voce alla natura, e significato ai segni di cui si compone il paesaggio, che in assenza del suo intervento resterebbero confinati nel silenzio. Ciò che è lontano convive con ciò che è vicino, ed i singoli elementi si rafforzano a vicenda, permettendo a chi osserva di spingersi oltre il primo apparire della realtà.
Fossati li definisce “incidenti visivi”. Osserva i segni già presenti nel paesaggio, si limita a togliere loro veli e coperture, li svela, li scopre. Incidente può derivare sia da cadĕre che da caedĕre, cadere o tagliare, e questa ambiguità etimologica arricchisce il senso dell’esperienza di Fossati. Perché, se da un lato il fotografo si ritrova, si potrebbe dire suo malgrado, ad essere mero osservatore di una realtà sottratta alla sua volontà, dall’altra è proprio quest’ultima a decidere di ritagliare una porzione, e solamente quella, di una realtà sconfinata e sconfinante. In entrambi i casi il dato rilevante è l’oggetto, il segno lasciato sul Quaderno, in nulla diverso dalle incisioni dello stilo sulla tabula di cera nell’antica Roma, da quelle sulle tavolette d’argilla dei sumeri, o di quelle rupestri di Capo di Ponte.
In concreto, Fossati supera l’apparente contraddizione e la risolve in un modo originale, se non addirittura sovversivo. Prendiamo ad esempio alcuni scatti in cui si intravede chiaramente la sua presenza, attraverso un’ombra, una sagoma di occhiali.
Qui l’incidente visivo è la caduta del fotografo dentro la fotografia, è il superamento del rapporto tra soggetto e oggetto e la loro fusione. Il rifiuto della contrapposizione logica tra Io e Mondo è la negazione del paradigma fondante del pensiero occidentale classico, la dialettica tra Cultura e Natura, dove la prima ha l’assoluto predominio sulla seconda, anche quando la pone, suspiciosamente, al primo posto tra i valori da tutelare.
La poetica immersiva di Fossati cancella il dualismo e fonde, ribadisco in modo sovversivo, il soggetto Cultura dentro il ventre che lo ha generato. Sembra voler affermare che esiste solo una Natura, un tutto che è fatto da tutto e che non ammette gerarchie. L’idea va contro il pregiudizio antropocentrico e specista, vale a dire di tutta l’esperienza non solo giudaico cristiana, ma anche della filosofia occidentale dai precursori ai nostri giorni. Il viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich che, dall’alto di una rupe, guarda sotto di sé le svettanti montagne e le acque turbolenti, è agli antipodi di Vittore Fossati che vi si è fuso. Se si osservano attentamente le foto, si può notare che l’ombra delle gambe sfuma senza soluzione di continuità nella pozza d’acqua, che il braccio alzato della sagoma disegnata sul suolo sembra impugnare un ramo secco che somiglia a una falce, che un filo d’erba funge da seconda stanghetta per la montatura degli occhiali. In queste foto la didascalia non può essere: io c’ero, più realisticamente dev’essere noi siamo.
La mostra, inaugurata il giorno 15 aprile, curata da Silvia Camporesi, rimane aperta fino al 20 di maggio. L’allestimento, semplice e rigoroso, rispecchia l’esigenza di autore e curatrice di creare un’estrema prossimità tra fruitore e fotografia, “costringendo” l’osservatore ad una sequenza minimalistica, addirittura monotona, esaltando il contenuto delle foto e rifuggendo da “effetti speciali” così comuni in questi ultimi anni. Se a questo si aggiunge il formato estremamente ridotto delle stampe, l’intento non può essere più chiaro: il senso delle foto potrà essere evidente solo a condizione che il visitatore faccia dei passi verso di loro, si sforzi di leggere dettagli che non sono percepibili se non avvicinandosi o immergendovisi. Si richiede intelligenza e partecipazione emotiva, nessuna concessione allo spettacolo, close to meraviglia.