Un libro di Gilles Châtelet / Vivere e pensare come porci

22 Settembre 2021

Scrivo davanti a una finestra che dà su un antico quartiere industriale di Londra, Hackney Wick, un luogo che, nonostante la grande rivalutazione immobiliare generata dalla costruzione degli impianti sportivi per le Olimpiadi del 2012, porta ancora i segni dei quartieri operai dei primi dell’Ottocento, c’è come un “aroma” (sia detto senza ombra di ironia) di quel mondo che qua e là l’Inghilterra conserva ancora. Quando, come diceva mio fratello, “mangiavo pane e Grundrisse”, queste tracce me le ero andate a cercare (con Dickens nel tascapane) anche su a Edimburgo e poi a Glasgow e a Manchester. Lo sguardo un po’ scientifico e un po’ sentimentale mi avvicinava a quell’umanità, provavo uno slancio autentico di rispetto per le sofferenze pregresse delle grandi masse sfruttate. 

 

Il fatto è che l’anima feroce di quel capitalismo storico oggi si è in qualche modo sublimata e ha prodotto, con l’odierno Neoliberismo, uno sfruttamento sociale ancora più feroce e diabolico. La stessa parola “rivoluzione” sembra quasi che si sia spostata dalla semantica dell’emancipazione, che le apparteneva da più di due secoli, a quella dell’astronomia: come i pianeti compiono una rivoluzione attorno al sole per tornare alla posizione di partenza, così il “moto rivoluzionario” degli umani delle società capitalistiche li fa tornare sempre allo stesso punto di partenza. Per questo fa bene leggere questo libro di Gilles Châtelet, Vivere e pensare come porci (Meltemi 2021, pp.159). È un intenso invito ad avere piena coscienza una volta per tutte di che cosa sia diventato il mondo che ci hanno costruito intorno, di quale inaudita forza oppressiva sia capace il capitalismo contemporaneo. 

 

 

Vivere e pensare come porci è un titolo certo violento e tuttavia, con la sua emotività orwelliana, è in qualche modo stimolante, diciamo un bel pugno nello stomaco che avresti voglia di scagliare addosso a certe “figure di spicco” al semplice pensiero che solo pochi “porci” traggono un enorme profitto dal grande disagio dei molti. E il sottotitolo rafforza l’istanza: L’istigazione all’invidia e alla noia nelle democrazie-mercato.

Ma ci sono altri buoni motivi per leggere questo libro e riguardano il come l’autore “attacca” il tema: le modalità comunicative sono categoriche, inflessibili, definitive. Non c’è spazio per tentennamenti di senso, per ombreggiature e ornamenti (poi vedremo che in realtà non è sempre così). D’altro canto, suggerisce l’autore, se la posta in gioco è una nuova medievalizzazione globale, una ricostituzione di gerarchie socialmente opprimenti per la maggioranza degli individui (ne accennavo tempo fa in Basta stare in superficie?), non bisogna certo andare per il sottile. Se quello di Châtelet è un pensiero militante, come si diceva una volta, allora certamente non c’è tempo per sfumature e dettagli: bisogna difendersi e aggredire! 

 

Come dice Mimmo Pichierri, scrupoloso curatore del libro, nella sua introduzione del 2001 ora riproposta nella nuova edizione: “Per quanto possa sembrare fuori moda, l’autore di Vivere e pensare come porci si fa portatore di un’autentica filosofia militante, che invita alla resistenza contro l’ordine cyber-mercantile, contro l’esito più perverso e tenace indotto dalle strategie del consenso delle nostre linde democrazie-mercato: costruire miliardi di psicologie per cittadini destinati ormai alla condizione di bestiame cognitivo, mettendo a punto così un processo multiplo di addomesticamento generalizzato per adeguarsi ai parametri di rendimento imposti dal nuovo ordine (economico) mondiale” (p.27).

 

L’analisi di Châtelet, molto densa e focalizzata principalmente – non è secondario – sulle dinamiche francesi, parte dalla fine degli anni Settanta, epoca in cui il post-gauchismo trasformava “l’ottimismo libertario in cinismo libertariano”, e la terza ondata postindustriale della Controriforma Neoliberale, dopo aver spazzato via il grande ingombro dello Stato-provvidenza portato dalla seconda ondata industriale, ha imposto il Grande Mercato come manifestazione delle virtù “creative” del Caos (p.37). Un grande sistema di individui liberi di agire in ogni direzione unicamente per arricchire la propria vita. Nel mare magnum del Caos creativo i tanti piccoli Robinson Crusoe sono capaci di tutto per fare impresa, ma, per quanto feroci, per l’establishment (la sovranità assoluta del sistema economico) “non sono altro che granelli di sabbia, unità di cupidigia, patetiche palle da biliardo che si fanno la guerra, che ogni sforzo per differenziarsi fa sprofondare ancor più in una grande equivalenza” (p.63). E questa, dice Châtelet, non è altro che una versione aggiornata della visione del potere che Thomas Hobbes nel Leviatano proponeva nel Seicento: un potere assoluto che domina sui tanti piccoli uomini “liberi”, tutti sempre più uguali. 

 

Così ci ritroviamo incastrati in una alleanza tra politica, economia e cibernetica capace di influenzare e orientare “le potenzialità esplosive di enormi masse umane” e mettere in armonia l’attività dei “tre prototipi della postmodernità: – l’homo economicus – il cittadino medusa –, il Robinson egoista e razionale, atomo di prestazioni e di consumi; l’”uomo medio” il cittadino-campione […]; l’homo communicans – il cittadino termostato –, trasparente creatura dei servizi terziari, […] che si vanta di esistere solo come tenia cibernetica, perfusa di input e vomitante output” (pp.86-87).

Al di là del gusto (piuttosto francese) di Châtelet di lavorare emotivamente sulla lingua, un aspetto che a volte può caricare l’argomentazione di aspetti ulteriori e in certa misura fuorvianti, il suo tono aspro e crudo urla in modo inequivocabile la condizione della società occidentale anche nostra contemporanea: “Fluidità massima che propaga il mimetismo come una cancrena, confusione della mobilità con il ‘nomadismo’ incerto dei ‘lavoretti’ e del part time, solidarietà spicciola da cameratismi di sopravvivenza, sono questi i caratteri della ‘nuova società civile’ asservita all’equilibrio” (p.82).

 

 

È senz’altro cruciale mettere in chiaro che Vivere e pensare come porci è stato scritto negli anni Novanta e pubblicato in Francia nel 1998 da Exils, poco prima che l’autore si togliesse la vita nel 1999. La prima edizione italiana di Arcana risale al 2002. Da quel momento le nostre società hanno dovuto affrontare una realtà il cui grado di complessità non ha fatto che crescere, dalla digitalizzazione “totale”, ai nuovi squilibri internazionali e ambientali per arrivare al grande test della pandemia. Châtelet avrebbe certo viste confermate e verificate molte delle sue intuizioni, ma rimangono delle perplessità sulla loro capacità di spiegare le pieghe profonde delle vite degli individui. Le descrizioni tecniche devono sempre poi fare i conti con le fisicità del reale: se le democrazie-mercato sono un dato di fatto e hanno sottratto “scienza e coscienza” agli individui, come può formarsi una forza sociale reattiva di massa? Sappiamo che danni le semplificazioni vigliacche dei populismi hanno prodotto. Come fa quel “bestiame cognitivo” a muoversi verso un cambiamento? Non può bastare, evidentemente, una semplice manifestazione di pensiero. Magari cominciamo semplicemente a non chiamarlo bestiame… Sono vecchie discussioni, lo so, da cui in un passato, che è passato, nascevano conflitti intra-politici, ci si scazzottava sui viene-prima-questo-no-viene-prima-quello. E intanto “l’ordine cyber-mercantile” veniva al mondo per inghiottire tutto.

 

Il limite, inevitabile, del libro credo stia nel non poter recepire a sufficienza le modificazioni profonde che negli ultimi vent’anni sono intervenute. Con Vivere e pensare come porci capiamo (e non è poco) com’è fatto lo scheletro, la struttura che permane, ma il resto rimane sullo sfondo. Siamo passati dall’epoca dei riti, come dice il filosofo Byung-Chul Han, ai dissolvimenti nella comunicazione, insomma: vent’anni fa per “umanità” si intendeva qualcos’altro, si sa. E che dire della perdita delle intermediazioni, sociali e politiche, e cognitive? L’esito è una società sfigurata dall’odierna “voglia di sangue” (consapevole espressione terribile e inquietante), dai deragliamenti sociali (irresponsabilità verso tutto, voglia di nuove identità, anche improbabili…ecc.), dalle irritualità purchessiano. Tutto questo sarà solo il frutto delle esasperazioni, delle estremizzazioni di un’umanità rinserrata nella cappa cosmica del Neoliberismo o nel frattempo abbiamo prodotto un qualcosa d’altro di cui sappiamo ancora troppo poco? A questo proposito un consiglio di lettura che vado ripetendo: L’età dello smarrimento di Christopher Bollas (Raffaello Cortina 2018). 

 

Nel ’98 Châtelet diceva: “il cuore della futura lotta politica-filosofica: fare di tutto perché l’uomo ordinario, questo essere che non è mai prodotto, né finito, non venga più confuso con l’Homo eco-communicans delle democrazie mercato. Sconfiggere il tecno-populismo, superare la yogurtiera, è anche vincere il nazional-razzismo… […] C’è ancora tempo per sussultare e rifiutare un destino da bestiame cognitivo, facendo più moti e meno moda” (pp.40-41). Sembra, ma non è così chiaro.

Qui ad Hackney Wick nel 1866 fu prodotta la prima plastica sintetica, uno dei gravi problemi con cui abbiamo a che fare, niente meno. Qui ad Hackney Wick nel settembre del 2021 ci sono tanti nuovi grattacieli e c’è un sacco di gente che vuole venirci ad abitare, ci sono dei nuovi aromi. C’è un bel fiume dolcissimo (il Lea), rimangono solo pochi segni del protocapitalismo, le persone, tra cui non vedo molta “formal urban middle class”, vogliono stare insieme nei locali lungo il fiume, a bersi una birra, e chissà che in quelle chiacchiere infinite non si stia plasmando un grande passo avanti: assecondiamolo.

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