Vivian Maier. I am a camera

8 Novembre 2012

 “I am a camera, camera, camera”

(Yes, Into the Lens)

 

 

La storia di Vivian Maier sembra una favola. Schiva, riservata, incurante della celebrità, questa fotografa scoperta da poco, e per caso, ha tutti i requisiti per rendere la sua biografia e il suo lavoro interessanti non solo a chi si occupa di fotografia. Una mostra recente alla Galleria dell’Incisione di Brescia fino al 15 novembre – la prima in Italia – offre la possibilità di un iniziale contatto con le sue opere, già esposte in numerose mostre a Chicago, Londra, Oslo, Monaco, Amsterdam.

 

Sconosciuta fino al 2009, anno della sua morte, Vivian Maier viene casualmente scoperta da John Maloof, un agente immobiliare che sta scrivendo la storia di Portage Park, il quartiere dove vive a Chicago e durante un’asta è convinto di acquistare materiale utile alle sue ricerche. In realtà diviene l’erede di un tesoro, gran parte del patrimonio artistico appartenuto alla fotografa: un numero imprecisato di rullini, alcune delle sue macchine fotografiche, un’infinità di ritagli di giornale e da quel momento inizia a diffonderne l’opera.

 

Senza titolo (Ombra di Vivian Maier). Fine Anni ‘60. Stampa ai sali d’argento cm 30,5x30,5 Stampata nel 2012, esemplare 2/15. Image courtesy The Jeffrey Goldstein Collection, VivianMaierPhotography.com

 

Non si sa molto delle sue origini. Vivian nasce a New York nel 1926 da madre francese e padre austriaco. Il suo primo contatto con la fotografia avviene in tenera età: nel 1930 la madre divide l’appartamento con la ritrattista Jeanne J. Bertrand e molto probabilmente da qui ha inizio la sua avventura di fotografa. Trascorre poi l’infanzia in Francia e nel 1951 torna negli Stati Uniti dove lavora tutta la vita come baby sitter.

 

Ma durante il tempo libero si trasforma: cappello da detective e sguardo da flâneur si aggira nelle strade di New York e Chicago, documentando senza tregua la vita negli anni del dopoguerra come prima di lei fecero Lisette Model e Helen Levitt.

Realizza così migliaia di scatti – forse più di centocinquantamila – molti dei quali devono ancora vedere la luce: bambini, panorami urbani, persone incontrate per caso, piccoli fatti quotidiani privi di eroismi e soprattutto volti sconosciuti divisi fra la necessità e l’impossibilità di comunicare la loro esistenza.

 

Senza titolo (Due bambine), n.d. Stampa ai sali d’argento cm 30,5x30,5 Esemplare 7/15

 

Se la parola fa sorgere l’immagine, nelle opere di Vivian Maier è l’immagine che fa nascere la parola: un’Antologia di Spoon River fotografica dove, ciascuno di questi individui porta in sé una situazione, un ricordo, un paesaggio, che è cosa indicibilmente sua, come scrive Cesare Pavese a proposito delle poesie di Edgar Lee Masters. La missione di Vivian sembra sia quella di accompagnare i soggetti raffigurati fuori dal tempo, nell’“attimo estatico” dell’immagine fotografica, l’istante irripetibile in cui i loro sguardi dialogano con la fotografa.

In questo modo Vivian riesce a mutare la sua invisibilità in presenza tangibile, grazie a una sorta di scrittura automatica, dove il fotografo e il soggetto divengono “campi magnetici”: forze che reciprocamente si attraggono e interagiscono in un movimento che qui si traduce in immagine.

 

È ciò che si legge negli occhi della bambina che non riesce a guardare oltre la rete e incontra l’obiettivo della fotografa, oppure nell’istante in cui alcuni ragazzini toccano l’acqua prima di decidere se fare il bagno osservati a distanza dall’obiettivo di Vivian, o nella fusione del suo sguardo in quello stupito di due passanti di fronte a una vetrina e ancora nell’identificazione con il bimbo che guarda dentro una scatola, allo stesso modo della fotografa, sempre con lo sguardo dentro il mondo che la circonda.

 

New York, NY, n.d. Silbergelatine Print 12 × 12 inches (30,5 × 30,5 cm)

 

Un “occhio interminabile”, come si vede in molti dei suoi autoritratti, espliciti nell’evocare le potenzialità connesse al proprio sguardo: la vertigine della visione suggerita dal gioco di specchi che nega la bidimensionalità dell’immagine, la medesima idea espressa in una fotografia esposta in mostra, dove si vede una ragazza, forse in un parco, seduta all’interno di una struttura circolare – dentro l’obiettivo? – che ricorda la forma di un apparecchio fotografico, il dispositivo che Vivian ritrae spesso al centro del suo corpo e da esso indistinguibile.

 

È ciò che accade anche alle ombre di se stessa che la fotografa si diverte a riprodurre in diverse forme: ingigantita su una parete di assi incurante delle linee nere che le attraversano il volto, oppure riflessa sulle onde del mare, immune dal moto dell’acqua che non ne cambia i contorni. L’ombra qui diviene quasi la rappresentazione metaforica della sua solitudine oltre che riflesso di una fragilità esibita senza timore, grazie al potere del dispositivo fotografico, capace di restituire il riflesso della dissoluzione e insieme il suo annullamento.

 

Se la definizione di “rayogramma” data nel Dictionaire abrégé du surréalisme, è quella di una fotografia ottenuta per semplice interposizione dell’oggetto fra la carta sensibile e la fonte luminosa, anche le immagini di Vivian sono ossidazioni di desideri fissati dalla luce e dalla chimica. E il suo desiderio è quello di vedere ed essere vista, prima ancora di sviluppare le sue immagini.

 

Autoritratto, giugno 1953. Stampa ai sali d’argento cm 30,5x30,5 Esemplare 12/15

 

Mentre cammina per strada, con il suo terzo occhio, come Gisèle Freund chiamava la propria macchina fotografica, essa stessa si fa carta fotosensibile, supporto mobile in grado di instaurare un “dialogo ottico” – ma non solo, visto che John Maloof pare abbia trovato molti nastri con le interviste ai soggetti fotografati – nell’intento di mostrare con sguardo complice il dolore, la felicità, le speranze e l’esistenza di tutti.

E se la luce è la scrittura del medium fotografico, nel caso dell’invisibile Vivian, lei riesce ad essere luce e camera oscura.

 

 

 

La mostra “Vivian Maier. Lo sguardo nascosto” è esposta presso la Galleria dell’Incisione di Brescia sino al 15 novembre.

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