Guerra e cinema / “1917” e il falso tempo del racconto

4 Febbraio 2020

Alcune scene furono girate mentre la guerra ancora non era finita, e a distanza di un secolo J’accuse (Per la patria, 1919), di Abel Gance, resta una delle opere più importanti del cinema della Grande Guerra. Ho ripensato a questo film, dopo aver visto 1917, perché mi è tornata in mente la famosa sequenza del “ritorno dei morti”, vale a dire il momento in cui uno dei protagonisti, che la guerra ha fatto impazzire, torna a casa, convoca gli abitanti del villaggio e, sotto forma del racconto delirante di un sogno, fa riapparire i soldati uccisi, che risorgono dalle loro tombe per chiedere ai vivi ragione della loro assurda morte: 

 

 

 

 

Come la maggior parte dei capolavori dedicati alla Grande Guerra, J’accuse rende visibile e fa agire scenicamente un tragico irredimibile, aggredendo e smentendo temi e retorica della propaganda trionfalistica; possiamo ricordare, per limitarci a qualche esempio, Charlot soldato (Shoulder Arms, 1918), di Charlie Chaplin, o L'uomo che ho ucciso (Broken Lullaby, 1932) di Ernst Lubitsch, o Orizzonti di gloria (Paths of Glory, 1957) di Stanley Kubrick, o La grande guerra (1959) di Mario Monicelli.

 

Timothy Carey, “Orizzonti di gloria” (Stanley Kubrick, 1957).

 

Vittorio Gassman, Alberto Sordi, “La grande guerra” (Mario Monicelli, 1959).


Rispetto a questo insieme, 1917, candidato a dieci Premi Oscar e vincitore di sette BAFTA (gli Oscar britannici), non è certamente così grande; però credo che i difetti di cui si è molto parlato siano capi d’accusa di un’esecuzione sommaria che non fa giustizia al cinema come lavoro e costruzione di illusioni, anche in senso tecnico; soprattutto, poi, i difetti del film di Sam Mendes possono essere significativi per discutere di come, a distanza di un secolo dall’evento storico che ha generato il cinema della Grande Guerra, 1917 costruisca un immaginario abbastanza diverso, fino al punto che potrebbe diventare complicato definirlo un film di guerra, almeno nel senso classico di una grande epopea. 

 

Ripartiamo, allora, proprio dai principali limiti rimproverati a 1917, che in sintesi sono tre: assomiglia troppo a un videogioco per l’uso di un falso piano sequenza piegato essenzialmente nella resa di super effetti speciali spettacolari; la storia è piena di stereotipi, e di vicende sin troppo scontate; è noioso. Nessuno dei tre argomenti è del tutto falso, ma nessuno, guardando al film nell’insieme, può valere come discorso assoluto. Questi tre punti critici si possono allora riconsiderare, per esempio anche attraverso il confronto con J’accuse, di Abel Gance, ripensando anzitutto allo stesso identico motivo con cui inizia e finisce il film di Mendes, con il protagonista in mezzo a un assolato campo fiorito che evoca un non-tempo e che ha già qualcosa di ultraterreno (assomiglia ai Campi Elisi). C’è un giovane (George MacKay), appoggiato a un albero, a occhi chiusi, che riemerge da uno stato di semiveglia, corre per tutta la durata (drammatica e visuale) del film, e finalmente tornerà a fermarsi nel medesimo scenario, buttandosi al suolo come una foglia, un sasso, un ramo, in una posizione di riposo e di adesione fisica alla terra. Proprio questa specularità che unisce le due soglie di 1917, tracciando una sorta di cerchio magico, una «corolla di tenebre» come l’avrebbe chiamata il poeta soldato Ungaretti, mi ha fatto ripensare a J’accuse, per il tema del revenant, del ritorno di qualcuno che si risveglia da un sonno, anche simbolico, per rivivere e entrare in contatto con il mondo dei vivi. La morte che chiede alla vita di non dimenticarla.

 

Il cartello di apertura del film ci dice che è il 6 aprile 1917. Grazie alla trovata di un apparente piano sequenza, vale a dire di un'unica ripresa, che ad eccezione di un solo stacco visibile inseguirà ininterrottamente il corso dell’azione, le prime immagini del film ci risucchiano, letteralmente, nel flusso ininterrotto di eventi e situazioni visuali che, come un corpo gigantesco, ci inghiottiscono, ci trascinano e ci chiedono di aderire senza soluzioni a una missione impossibile contro il tempo e contro la morte che due soldati inglesi hanno avuto l’ordine di tentare. 

 

 

Mentre l’esercito tedesco si sta ritirando dal Fronte occidentale, e il colonnello inglese Mackenzie sta per lanciare all'attacco il 2º Battaglione del Devonshire Regiment, le ricognizioni aeree hanno scoperto che i tedeschi in realtà non si sono ritirati, ma spostati poco più indietro, pronti a distruggere il battaglione britannico composto da più di milleseicento uomini che sta per attaccare. Poiché le linee telefoniche sono interrotte, il Generale Erinmore incarica i due giovani Tom Blake (Dean-Charles Chapman) e William Schofield (George MacKay) di trasmettere al colonnello Mackenzie l'ordine di fermare l'attacco. Per Tom Blake riuscire a consegnare l’ordine significa anche salvare la vita al fratello Joseph, che combatte nel 2° Devonshire. Attraversando la terra di nessuno, sopravvivendo al crollo di un bunker, allo schianto a terra di un Albatros Flugzeugwerke e al furore omicida del suo pilota, continuando a correre e a scappare, Schofield dapprima si farà dare un passaggio da un camion, poi, nella parte più esagerata e meno risolta, continuerà a piedi perché i tedeschi hanno fatto saltare i ponti; e, ancora, mentre il piano sequenza butta anche noi in una confusione vertiginosa che ci rende vulnerabili – perché anche noi non sappiamo più dove guardare – il nostro eroe continua ad andare verso la meta, malgrado gli attacchi di un cecchino, le fiamme, le esplosioni e il rischio di annegamento, in un fiume che però lo trasporta vicino alla posizione del battaglione. 

 

John Everett Millais, “Ophelia” (1851-52).

 

 

Stremato, Will arriva quando l'attacco è già in corso, ma riesce a impedire che la seconda ondata possa aggiungere altre vittime riuscendo a consegnare il messaggio al colonnello Mackanzie (Benedict Cumberbatch). La sua missione non è ancora finita perché deve trovare Joseph (Richard Madden), per informarlo della morte del fratello minore, consegnargli gli oggetti dell’amico morto e chiedere di scrivere alla loro madre. 

 

La ricerca/riscoperta del “fratello”, che è un tema simbolico fortissimo nelle narrazioni di guerra, anche contro il patriottismo facile; la vita in trincea come non-vita a contatto continuo con la polvere, il fango, esattamente come un topo; il sentimento del corpo come luogo estremo in cui perdersi e nascondersi, quando il mondo circostante è un inferno; gli occhi aperti o chiusi che alzano e abbassano lo sguardo sull’orrore. Non sono soltanto stereotipi quelli che 1917 riattiva; perché ognuno di questi motivi vale anche come grande archetipo. Ma la vera questione, quella su cui si sono più divisi i giudizi su 1917, riguarda l’uso del piano-sequenza. E qui le generalizzazioni non funzionano: non serve a molto ricostruire i migliori piani-sequenza del cinema e confrontarli a sfavore di 1917, perché nel cinema, come in tutte le altre arti, le forme sono inseparabili dai temi e dai mondi di invenzione costruiti dall’opera. Il tempo “finto” – nel senso di fittizio – ricreato da 1917 è un “falso tempo” non solo perché il tempo reale raccontato è più lungo (l’azione dura otto ore), malgrado l’apparenza di un flusso continuo. È un falso tempo in cui la nostra percezione come quella del soldato si dilata, anche perché, come dichiara la dedica di 1917 nei titoli di coda, quello che ci sta raccontando quel lungo e intenso piano-sequenza non è direttamente un’azione, come nella maggior parte dei film di guerra, ma un racconto: il racconto ascoltato dal nonno soldato del regista. 

 

L’effetto di stordimento incantato di cui ci parlano molti testi di guerra è come raddoppiato, o caricato da un effetto di sordina, perché la situazione che ci inghiotte, secondo l’artificiosa coincidenza di spazio e sceneggiatura a cui il piano-sequenza piega il film, non è la missione dei due soldati il 6 aprile 1917, ma la trasformazione di quell’azione in un racconto, in un mito, raccontato e ascoltato chissà quante volte. Andare avanti, sempre, ininterrottamente senza fermarsi, come in una fiaba dove la vicenda corre verso il suo destino finale. Da questo punto di vista il piano-sequenza, così come lo reinventa il direttore della fotografia Roger Deakins, non serve al senso epico della storia, perché l’empatia a cui rispondiamo non riguarda tanto l’esperienza quanto l’effetto di immediatezza (per questo si è parlato, anche troppo e troppo sbrigativamente di “videogame”). Il piano-sequenza nemmeno serve soltanto, alla suspense; ma compone, più che altro, l’effetto di un racconto mitico, che è anche fiction, perché quello in cui dobbiamo immedesimarci non è il fatto, ma – prima e dopo di esso – l’effetto che si prova a sentirsi raccontare qualcosa che ormai è leggenda. A differenza di tanto cinema precedente sulla Grande Guerra, è dunque interessante che 1917 lavori su forme nuove di sentimento della patria – e di un’Inghilterra che ha combattuto per l’Europa. Senza dimenticare che si tratta di cinema, di una fabbrica di illusioni, di sogni e di emozioni, non di manuali di storia.

 

 «Che giorno è oggi?» chiede il tenente Leslie (Andrew Scott) ai due protagonisti; la loro risposta risuona come un’eco fuori dal tempo storico: è venerdì. Venerdì 6 aprile 1917, cento anni fa come per sempre. Tutto il resto non esiste, come se fossimo entrati in trasognato e favoloso contatto con la voce di un fantasma. Questa è la storia, la situazione che ci fa vivere 1917. Per questo vuol farci emozionare e ci emoziona così tanto. Perfino troppo, ma non c’è nulla di male. 

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