Agamben: che cosa fanno i filosofi?

11 Marzo 2023

Se il confronto è con le scienze la risposta è semplice e netta, niente. In Filosofia prima filosofia ultima. Il sapere dell’Occidente fra metafisica e scienze (Einaudi 2022) Giorgio Agamben parte proprio dall’inevitabile confronto con le scienze empiriche alla ricerca di una “definizione – nel senso stretto della definizione dei confini – della filosofia rispetto alle altre forme di conoscenza e di queste rispetto alla filosofia” (p. 3). Il problema si pone con particolare urgenza perché ormai quella che è stata “a lungo configurata come ancilla theologiae è ora, secondo ogni evidenza, semplicemente una impotente ancilla scientiarum” (p. 29). Appunto, un sapere ormai inutile (ricordiamo che durante la pandemia dire di qualcuno ‘è un filosofo’ era il modo per screditare definitivamente le sue parole).

Ma qual è allora l’oggetto della filosofia? È mai esistito un tempo in cui questo oggetto fosse per un verso del tutto evidente e per l’altro fosse chiaro quale fosse l’oggetto delle altre discipline? Secondo Agamben no, ed è proprio da qui che prende le mosse per provare a delimitare lo spazio di manovra della filosofia: “la sola conclusione possibile è che l’unità della prima filosofia resta fino alla fine problematica e che la sua relazione ai ‘tagli’ delle scienze particolari non può essere inequivocamente definita” (p. 26). Non esiste l’oggetto della filosofia, se non nel senso di lavoro continuo, e per definizione sempre mutevole, della soglia che divide e unisce il filosofo e lo scienziato. Quindi la domanda diventa, piuttosto: dov’è che le scienze e la filosofia non smettono di incontrarsi e, allo stesso tempo, di dividersi?

Ma che cosa dovrebbe propriamente fare, allora, il filosofo? Non tanto lavorare su concetti preesistenti – come chi pensa che la filosofia abbia il presuntuoso, e ingiustificato, compito di mettere in ordine i concetti del pensiero comune – quanto lavorare sul luogo in cui i concetti prendono, inavvertiti, forma. E i concetti, per gli esseri umani, nascono nel linguaggio, un linguaggio tanto più potente e pervasivo quanto meno pensato. Come Agamben già scriveva in Che cos’è la filosofia? (2016), “allora possiamo definire il compito della filosofia come il tentativo di esporre e di fare esperienza di quel factum che la metafisica e la scienza del linguaggio devono limitarsi a presupporre, di prendere cioè, coscienza del puro fatto che si parli”. È questo il punto, quello che Agamben chiama il factum loquendi.

Non si tratta di analizzare il linguaggio per chiarire la sua grammatica nascosta, perché il problema non sta nel significato delle espressioni linguistiche quanto nel fatto stesso, che è anteriore al piano del significato, che è nel linguaggio che quei concetti, e questo vale per la filosofia quanto per le scienze, vengono al mondo. Per questa ragione la filosofia può essere contemporaneamente prima, perché si colloca esplicitamente nel campo che precede il fissarsi dei concetti, ma anche ultima, perché la sua posizione dipende da quella occupata dalle scienze. Di conseguenza, come scrive Agamben, “la filosofia prima nomina, cioè, uno spazio epistemico la cui unità è da una parte apertamente rivendicata e dall’altra incessantemente in questione. […] Quella che la tradizione dell’Occidente ha finito col chiamare metafisica non è tanto una disciplina autonoma, quanto il luogo in cui si decidono i confini fra la filosofia e le altre scienze, allo scopo di assicurare l’unità del sapere e, insieme di governare i conflitti che nascono dalle partizioni interne a questa pretesa unità” (27). 

Come Agamben ci ha appena detto il “luogo in cui si decidono i confini tra la filosofia e le altre scienze” è il linguaggio. In effetti nel fatto stesso di parlare è implicita un’intenzionalità originaria, che ci lascia supporre (noi umani parlanti siamo, propriamente, questa stessa supposizione) che ci sia qualcosa a cui stiamo pensando e parlando. In questo modo un qualcosa viene al mondo, ma non perché questo qualcosa esista, piuttosto semplicemente perché il linguaggio incarna la supposizione che questo qualcosa debba esserci. Questo significa, in realtà, che il filosofo ha propriamente un oggetto, e quest’oggetto è l’esperienza del linguaggio. Ma non si interessa del linguaggio come se ne può occupare un linguista o un logico (e tantomeno un neurologo), si occupa piuttosto del linguaggio come luogo da cui tutte queste diverse possibilità derivano. .

Si occupa del linguaggio, allora, non come un oggetto come può essere qualunque altro oggetto d’indagine, bensì come quello spazio di apertura originario (e che per questo passa sempre inosservato) da dove nascono tutti i concetti. In sostanza, si tratta di mettere a fuoco non questo o quell’oggetto, ma l’idea stessa che ci sia un qualcosa da prendere in considerazione: “in questione è qui quel dogma dell’intenzionalità, costantemente in atto da Aristotele a Husserl, secondo il quale ogni pensiero e ogni discorso si riferiscono sempre a qualcosa. Anche l’essere è, in questo senso, qualcosa: il qualcosa […] che il pensiero e il linguaggio […] non possono non continuare a dire e pensare. Occorre invece attestare che – in quanto si situa nello scarto fra la significazione e la denotazione – il pensiero che il linguaggio sia o ‘che si dica’ è del tutto privo di qualsiasi intenzionalità, non è pensiero o logos di qualcosa” (p. 74).

Ogni espressione linguistica ha una denotazione (ad esempio, la parola “gatto” denota un gatto in baffi e coda), e una significazione (in un vocabolario è la definizione di una parola: “gatto”, ad esempio, significa “nome riferito a numerose specie di Mammiferi Felidi appartenenti al genere Felis e in particolare al g. domestico”). Denotazione e significazione presuppongono che al segno “gatto” – per continuare con questo esempio – corrisponda un oggetto; ecco, la filosofia, per Agamben, non si occupa dei gatti, bensì del gesto inaugurale con cui è stata posta l’esistenza dei gatti come oggetti del pensiero e del discorso.

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Agamben non sta sostenendo che i gatti, per esistere, devono essere nominati; sta piuttosto sostenendo che l’esistenza dei gatti in baffi e coda non ha che fare con l’esistenza dell’oggetto del pensiero e del linguaggio collegato alla parola “gatto”. D’altronde non è certo una scoperta che alla maggior parte delle parole di una lingua non corrisponde nessun oggetto nel mondo. Da questo deriva, prosegue Agamben, “l’ambiguità del termine ‘cosa’, sospeso com’è per così dire fra l’essere e la conoscenza” (p. 48). Appunto, non è che nel mondo esistono delle cose che poi vengono nominate dal linguaggio; vale piuttosto che nel linguaggio è insita la presupposizione che esistano delle cose, che per questo sono sospese fra l’essere e il pensiero, fra realtà e astrazione. 

Nello spazio fra essere e pensiero, ossia nello spazio che separa e unisce allo stesso tempo il linguaggio dal mondo, è lì che, per Agamben, dovrebbe collocarsi la filosofia. In questo senso la filosofia non ha un proprio oggetto di indagine già stabilito ed evidente: “ogni indagine di storia del pensiero deve muoversi costantemente su due piani inseparabili: la definizione del problema e l’identificazione della concettualità a esso connessa. Un’esposizione del problema senza i concetti che ne permettono l’articolazione è altrettanto sterile che una descrizione dei concetti senza il problema al quale si riferiscono” (p. 59). La filosofia non si occupa né della concettualità senza il problema che è stato il punto di origine di quella stessa concettualità, ma nemmeno del problema senza la concettualità che lo ha pensato e costituito come problema.

La filosofia si colloca, allora, fra problema e concettualità: “il fatto è che […] a ciò che la ‘cosa’ designa – cioè la stessa intenzionalità del linguaggio, il correlato di ogni nome e di ogni intellezione – inerisce costitutivamente una unidualità anteriore a quella distinzione fra essenza ed esistenza che la tradizione della filosofia si ostinerà per secoli a trarre da essa” (p. 45). Eccolo l’oggetto della filosofia, l’unidualità originaria di ogni oggetto del pensiero e del linguaggio, che per esserci (esistenza) dev’essere già qualcosa (essenza), ma allo stesso tempo può essere qualcosa soltanto se già esiste. Ma questo significa che la stessa esistenza di un oggetto – in quanto oggetto del pensiero – dipende dai discorsi che se ne possono fare, e viceversa, questi discorsi dipendono dalla presupposizione che siano discorsi che parlano di qualcosa che già esiste. È nel linguaggio che questo qualcosa viene al mondo, e se non si interroga questo gesto iniziale si continuerà a discutere di un oggetto come se la sua esistenza come oggetto fosse del tutto scontata.

La filosofia si occupa, allora, non di un certo oggetto rispetto ad altri oggetti che invece sarebbero di pertinenza delle scienze, quanto del luogo in cui gli oggetti del pensiero vengono posti come oggetti. Ecco perché, allora, “l’oggetto della filosofia prima è già […] scisso, non è propriamente un oggetto” (p. 27). È già sempre scisso, appunto. Per pensare questa scissione originaria, pertanto:

sarebbe necessario nulla di meno che una concezione del linguaggio radicalmente altra rispetto a quella che, almeno a partire dal De Interpretatione aristotelico, domina la nostra cultura. In questa il carattere proprio del linguaggio è definito attraverso l’intreccio di parole, concetti (affezioni dell’anima) e cose. La parola è semantike, significante, perché attraverso i concetti significa le cose e può riferirsi alle cose (cioè avere una denotazione) perché i concetti, di cui la parola è segno, sono a loro volta similitudini (omoiomata) delle cose. In questa concezione né il rapporto di significazione fra le parole e i concetti, né la relazione fra i concetti e le cose sono in alcun modo spiegati (p. 73).

Una concezione della filosofia del tutto inattuale, e che sicuramente non troverà molte adesioni. Soprattutto da parte di chi ritiene che per salvare la filosofia occorra accodarsi, senza peraltro essere stati invitati, al carro delle scienze empiriche. Il problema è, come è facile constatare, che queste scienze non hanno alcun bisogno della filosofia, se non per abbellire di qualche inutile citazione delle ricerche che sono invece la sistematica negazione di ogni discorso filosofico (si pensi alla triste consuetudine degli scienziati in avanti con gli anni che pensano, una volta in pensione, di risolvere in poche ingenue e frettolose pagine quelli che loro credono essere annosi problemi filosofici). Occorre, infine, che “la filosofia si decida” ad accettare come “pensare una cosa […] non sia mai separabile dalla sua apertura e un aperto mai separabile dalla cosa” (p. 100). Appunto, oggetto della filosofia è quel luogo, ma anche quella postura, dove appare la cosa prima di essere nominata, cioè la sua iniziale apertura; ma questa stessa apertura, a sua volta, presuppone tuttavia il pensiero di quella stessa cosa, ossia la sua nominazione. Nel linguaggio fuori del linguaggio, sta lì la filosofia. 

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