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Agenda per il nuovo governo. L’università delle aule vuote
A ottobre comincerò il mio sesto anno da insegnante alla Federico II di Napoli e posso dire di aver già visto due mondi diversi passarmi davanti agli occhi. Il primo è rimasto in vita fino all’inverno del 2019. Può sembrare surreale, ma non era distante da quello che avevo sperimentato da studente, nello stesso ateneo, studiando lettere moderne fra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo. Le aule erano strette e insufficienti per ospitare tutte le persone intenzionate a seguire le lezioni. In casi estremi si faceva ricorso al collegamento audio con altre stanze: da lì potevi trovare un comodo posto a sedere, senza essere costretto a raggomitolarti sul pavimento, e ascoltare la voce del docente che arrivava attraverso piccole casse di amplificazione attaccate ai muri. L’avventuroso espediente produceva suoni un po’ gracchianti, ma era funzionale allo scopo. Tutto sommato l’effetto finale era simile a quello prodotto dall’ascolto di una trasmissione radiofonica, anche se mancavano le sigle di apertura e chiusura. Sembrava di essere sintonizzati su Radio 3, anche perché in quegli anni il famoso canale Rai era contraddistinto dal segnale disturbato.
Il corso universitario era un rituale sociale fondato sulle capacità di adattamento di studentesse e studenti. Chi accettava la sfida poteva godere dell’invidiabile status di “frequentante”, raccogliere appunti, cederli agli amici meno fortunati, o anche venderli per guadagnare qualche soldo e affrontare le spese per mezzi pubblici o affitti. I “frequentanti” erano gli abitanti di una fluida terra di mezzo, nella quale si rielaboravano, sintetizzavano, riducevano o distorcevano i contenuti delle lezioni: grazie al loro lavoro – più o meno remunerato – l’attività didattica riusciva a ramificarsi e a trasformarsi in “materiale didattico” non ufficiale, oggetto di scambi e condivisioni, ma anche di gelose protezioni. I frequentanti li distinguevi sull’autobus o sul treno, mentre armeggiavano con i loro preziosi quaderni. Li riconoscevi anche durante gli esami, perché avevano (o forse ostentavano) uno sguardo più sicuro, erano già informati sulle domande proposte dai docenti, dispensavano consigli e osservazioni sulle risposte da dare. Riuscivano in tal modo a ingannare le attese interminabili, che potevano durare intere giornate. Rispondevi all’appello alle 8,30 di mattina, e l’attesa chiamata per capire se saresti tornato a casa con un voto sul libretto poteva arrivare anche alle 7 di sera.
Il secondo mondo, invece, sembrava essere possibile solo nei nostri immaginari distopici. È diventato reale nel marzo del 2020, da un giorno all’altro, in virtù di eventi che ci hanno travolti senza chiederci il permesso. La pandemia è stata lunga, come tutti sappiamo. Semestre dopo semestre, abbiamo imparato a convivere con il “mostro” e anche il lavoro accademico ha affinato le sue metodologie. Abbiamo acquisito dimestichezza con tecnologie che ci erano estranee, ma siamo sempre stati guidati dall’idea che tutto avesse un carattere provvisorio. Ci siamo ripetuti più volte che il “ritorno alla normalità” era vicino, con una punta di anacronistico romanticismo, nella convinzione che anche l’università avrebbe riacquisito la sua vecchia tempra dopo la fine dell’emergenza. Difficilmente avremmo potuto coltivare un’aspettativa più illusoria. I cambiamenti che stiamo osservando ancora oggi sono profondi, pressoché irreversibili. Le lezioni virtuali sono diventate parte integrante della nostra esistenza. Il 2019 sembra lontanissimo, prigioniero della gabbia dei ricordi, inscatolato in una dimensione onirica che non verrà più a farci visita.
Vivere nell’università è ormai un’esperienza surreale. Ogni tanto passeggio fra i corridoi del Dipartimento di Studi Umanistici della Federico II e approfitto delle porte socchiuse per vedere quello che accade nelle varie aule. La situazione è quasi sempre la stessa e, da quello che tanti amici sparsi per l’Italia mi riferiscono, risulta essere comune alle istituzioni che ospitano moltissimi fuorisede o pendolari: un docente parla di fronte a un computer portatile, con 10, 20, o talvolta 50 allievi seduti fra i banchi, mentre le persone connesse a distanza sono più del triplo. A fine marzo del 2022 si era ventilata l’ipotesi di “interrompere le trasmissioni” (l’uso del gergo televisivo è intenzionale), ma il passaggio dalle parole ai fatti si è scontrato con problemi enormi. Non sono state emanate direttive categoriche, né a livello ministeriale, né dai singoli atenei. L’autonomia nelle scelte si è allargata a dismisura, fino a comprendere i dipartimenti, i corsi di laurea, e persino i singoli docenti. Ciascuno è stato chiamato ad adattarsi alla situazione concreta nella quale si trova a operare e, soprattutto, ad ascoltare le richieste degli studenti.
Ho provato a farlo e le reazioni mi hanno fatto riflettere. Ho osservato volti smarriti, quasi rassegnati a sentirsi rivolgere quella domanda prima o poi: “Possiamo tornare a far lezione solo in presenza. Cosa desiderate fare? Cosa preferite?” Le risposte sono state incerte, pronunciate con il tono di chi non pensa di avere diritti, ma si riduce a chiederti un favore, quasi a rivolgerti una preghiera: “I mezzi pubblici funzionano male, sono costosi, c’è caos, le aule e le strutture sono inadeguate, non è cambiato nulla. Scegliamo la modalità mista. Continuiamo così, fino alla fine del corso. Davvero non avrebbe senso percorrere vie diverse”. Alcuni frequentanti – in verità isolati – hanno provato a esprimere un punto di vista diverso, sostenendo che la didattica a distanza ci ha “impigriti”, ci ha sottratto lo “spirito di sacrificio”, portandoci ad abbandonare le aule e a preferire le comode postazioni domestiche. Secondo loro, sarebbe necessario uno “sforzo” da parte di tutti per tornare a vivere la socialità accademica, come avveniva in passato.
È dunque lecito chiedersi cosa fare, sia nel futuro immediato che in quello più lontano. Le retoriche del dibattito politico sono incentrate sulla promozione di un’università che non appare più come un luogo di formazione, ma ha ormai ridefinito i suoi contorni in maniera radicale, proponendosi come un prodotto da vendere sul mercato. Anche nelle scorse settimane si sono susseguiti roboanti annunci da parte dei rappresentanti del governo: nuovi centri nazionali per la ricerca, nuovi istituti di “eccellenza”, nuovi “ecosistemi” per la competitività internazionale, e nuove infrastrutture per l’avanzamento tecnologico. Sarebbero iniziative lodevoli, se si riuscisse al contempo a mettersi nei panni di chi l’università la vive, sperimentandone le contraddizioni giorno dopo giorno, pagando rette salate, sottoponendosi a sacrifici enormi solo per poter studiare.
La grande assente nel dibattito post-pandemico è la didattica. Eppure sono state proprio le esperienze di condivisione del sapere a subire le trasformazioni più corpose negli ultimi due anni. Uso ancora un esempio tratto dalla mia esperienza personale, sperando di non abusare della pazienza di chi legge. Pur sapendo di non poter imporre regole, mi sono spesso trovato a fare una richiesta informale durante le lezioni telematiche. “Accendete le telecamere, per favore, se avete modo di farlo”. Le discussioni erano animate da pochissime persone, mentre la presenza di tutti gli altri era testimoniata solo da un’impersonale icona: mi sentivo quindi disorientato nel parlare per ore a cerchietti e quadratini colorati. Le reazioni a questo piccolo grido di aiuto sono state variegate. Qualcuno ha lasciato transitare le immagini provenienti dal suo spazio privato. Altri hanno preferito affidarsi alla sola voce, sentendo il bisogno di scusarsi per non potermi accontentare.
Non li ringrazierò mai abbastanza per aver scelto comunque di dialogare, perché mi hanno permesso di comprendere un particolare cruciale. Dietro molti di quegli account digitali non si nascondono le “frequentanti” o i “frequentanti” dei tempi andati, bensì persone che non hanno mai messo piede all’università, se non per sostenere esami e spicciare noiose pratiche burocratiche. Hanno impieghi di vario tipo, badano ai loro bambini, abitano in località appenniniche mal collegate ai capoluoghi. Alcuni hanno addirittura confessato di connettersi alle lezioni durante il lavoro e di provare ad ascoltare in maniera rocambolesca quello che accade in aula. Durante la pandemia, in buona sostanza, queste persone hanno intravisto la possibilità di uscire fuori dal consumato schema dell’esamificio, di avere contatti più frequenti con insegnanti, colleghi e amici. Gli è bastato accendere un dispositivo per osservare da casa un piccolo segmento di un mondo accademico che non hanno mai conosciuto davvero.
Ero stato ingenuo a non intuirlo prima. Siamo bombardati dalle statistiche, ma facciamo fatica a capire cosa riescono a dirci davvero sul funzionamento di un’istituzione. Pur avendo costi sempre più alti, i nostri corsi di laurea perdono da decenni quasi 8 studenti su 10. La rinuncia agli studi è la triste costante della mia vita da studente e di quella da docente: tantissimi si iscrivono e non arrivano al traguardo. Si potrebbe pensare che il tutto derivi da una giusta “competizione”, che alla fine prevalga il “merito”, che sia “naturale” la distinzione fra vincenti e perdenti. Ma si commetterebbe un errore macroscopico, per una ragione semplice: i risultati accademici sono, in massima parte, la ratifica di una selezione che si è già consumata altrove, in altri contesti sociali.
Le eccezioni esistono, non possiamo negarlo. Ma dobbiamo essere prudenti nell’innalzarle a esempi, perché rischiano di svolgere un ruolo assolutorio nei confronti di un sistema dominato dalle ingiustizie. La prassi è infatti segnata da fallimenti legati a motivazioni precise, che potremmo definire addirittura “ereditarie”. Il profilo dello studente che “rimane indietro” ha purtroppo contorni chiari: abita in aree periferiche, ha un reddito familiare basso, ha pagato già a scuola le conseguenze della condizione occupazionale precaria dei genitori, non ha frequentato i licei dei grandi centri urbani, non ha avuto modo di trascorrere periodi di studio all’estero, non ha avuto accesso a percorsi formativi costosi (corsi di lingua, lezioni private, perfezionamenti, etc.). Nel contesto accademico, quello stesso studente deve sottrarre tempo all’apprendimento per lavorare, deve sottoporsi a un estenuante pendolarismo, mentre i suoi colleghi riescono a seguire i corsi, partecipano alle attività extracurricolari, e vivono la vita accademica con un differente grado di intensità. Persino il rifiuto del “voto basso” – una pratica più che diffusa nei nostri atenei – ha dei risvolti importanti sul piano dell’equità. A potersi permettere un tale gesto è infatti solo chi non dipende dalle borse di studio e può sostenere eventuali versamenti straordinari di tasse per poter ripetere gli esami.
Avremmo dovuto favorire i meccanismi di inclusione con la difesa del diritto allo studio attraverso i decenni, ma non è andata così. Abbiamo preferito nasconderci dietro la consolante coperta di una didattica trasmissiva e ratificatoria, aperta a tutti sul piano teorico, ma in realtà solo utile a confermare le disuguaglianze già presenti nella società. Basti pensare alle nostre lezioni: produciamo lunghi monologhi di fronte a centinaia di persone (in presenza o collegate a distanza) senza avere la possibilità concreta di aprire un dialogo costruttivo con la maggioranza dei partecipanti. Alla fine del percorso, siamo chiamati a chiudere la pratica entro scadenze prestabilite – meglio conosciute come “appelli” – nelle quali ci sforziamo di distinguere i “bravi” dagli “incapaci”, i preparati dagli impreparati, senza preoccuparci di cosa siamo riusciti a dare prima di giudicare. Trasformiamo le “prestazioni” in voti o punteggi, ma non abbiamo alcuna idea di cosa si muova dietro i semplici numeri.
La via d’uscita da questo pantano è quasi obbligata: ripensare il sistema universitario – insieme all’intero sistema scolastico – dalle fondamenta, a partire proprio dalla centralità della didattica. Bisogna avere il coraggio di superare i vuoti artifici retorici e affermare un semplice principio: la vera “eccellenza” – così come la vera “innovazione” – può essere sviluppata solo in classi ristrette, con una costante attenzione alla condivisione e al confronto. Non è sufficiente arroccarsi in una difesa astratta dell’insegnamento “in presenza”, ma è necessario creare le condizioni materiali che permettano di farlo diventare una pratica virtuosa e democratica, capace di creare opportunità e di rompere le barriere sociali. Dobbiamo offrire spazi condivisi, biblioteche, sale di riunione e mense. Dobbiamo soprattutto garantire sostegno economico a studentesse e studenti che si sono rassegnati ad assaggiare il mondo universitario attraverso libri ed esami occasionali, senza mai poterlo vivere davvero, o contribuire in prima persona alla sua trasformazione.
Proprio su questo terreno si giocano le sfide più importanti per il futuro. In Italia gli alloggi studenteschi sono poco più di 50.000: la Francia ne ha più del triplo, mentre la Germania si avvicina al quadruplo. Solo il 3% della nostra popolazione studentesca vive all’interno di studentati, a confronto di una media europea del 18%. Il costo medio di una camera singola è salito a 439 euro, con punte di 620 euro nel caso di Milano. Beneficiando di questa situazione, gli atenei telematici hanno visto crescere il loro giro di affari, con un’impennata di iscritti che ha raggiunto il 150%. Il rischio concreto è che le università “tradizionali” vedano estremizzarsi un processo già in atto da lungo tempo e diventino circoli esclusivi per gli eredi delle élites, facendo in modo che le persone meno facoltose trovino rifugio in percorsi di formazione compatibili con le loro possibilità economiche.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza – ormai noto a tutti con l’acronimo PNRR – prevede stanziamenti ingenti per invertire la rotta, con l’obiettivo di creare 100 mila nuovi posti letto entro il 2026, da assegnare in via prioritaria ai “capaci e meritevoli anche se privi di mezzi idonei al conseguimento della borsa di studio e dei prestiti d’onore”. Tutto potrebbe apparire lineare, se non fosse per il fatto che una porzione corposa delle risorse (più della metà) è destinata a investitori privati, non sottoposti a vincoli stringenti. Questi ultimi hanno occupato la scena già da qualche anno, facendo nascere nelle città italiane enormi plessi residenziali destinati alla popolazione universitaria. Chi ha avuto modo di entrare in questi luoghi – solitamente denominati “student hotels”, come in tanti altri paesi – ha potuto farsi un’idea delle cifre richieste: trovare una stanza per meno di 600 euro mensili è pressoché impossibile. In altre parole, siamo di fronte a vere e proprie scatole di privilegio.
Molte forze politiche propongono di allargare la “no-tax area” per le fasce sociali meno abbienti. L’ipotesi è più che condivisibile, ma largamente insufficiente. Il pagamento della retta è infatti solo una parte del costo complessivo della formazione accademica: le iscrizioni gratuite non permettono ai beneficiari di poter vivere gli atenei in presenza, in condivisione, ma rischiano solo di allargare la platea degli spettatori a distanza, che di fatto diventano “non frequentanti”, o semplici “clienti” di un triste, lugubre esamificio. È necessario sottrarre gli studenti dalla morsa del lavoro obbligato. È necessario avere un numero maggiore di persone che si dedichino a tempo pieno all’università, capaci di contribuire in prima persona alla crescita dell’istituzione. Le vie percorribili sono solo due: alloggi pubblici (non alberghi costruiti da privati e travestiti da studentati) e borse di studio. Oggi in Italia solo il 12% degli iscritti riceve un sostegno, contro il 22% dei tedeschi e il 33% dei francesi. Inoltre, a governare il sistema sono agenzie regionali, che rallentano i tempi di erogazione, effettuando i pagamenti molti mesi dopo l’inizio delle lezioni. Le discriminazioni sono enormi, inaccettabili.
Proprio per questa ragione, dobbiamo tenere alto il livello di guardia. La tentazione di abbracciare soluzioni semplici, calate dall’alto, è forte. Molti sostengono che sarà sufficiente “interrompere le trasmissioni” per ripopolare le aule vuote, ma non servono grandi sforzi per comprendere quanto sia miope una scelta del genere. Il principio da affermare è invece profondamente diverso: prima di formulare un’offerta didattica, dobbiamo avere un’idea chiara di come i membri della comunità possano avere accesso a quella stessa offerta. Il corpo studentesco non può vestire i panni del destinatario di una didattica “uno-molti” (un docente che parla dalla cattedra a 300, 500 o 1000 individui, come avveniva in passato negli atenei, e come si farebbe oggi su un canale Youtube, senza ostacoli logistici), ma deve essere protagonista della condivisione del sapere e avere reali possibilità di partecipazione. Non ci sono molte altre vie. Oltre a essere inefficaci, le scorciatoie rischiano di diventare addirittura dannose in questo tornante storico. Le scelte che stiamo per compiere sono cruciali e avranno conseguenze sul lungo periodo. Devono essere ispirate a visioni di ampio respiro, politiche e non solo tecniche, capaci di dirci quale ruolo l’istruzione universitaria dovrà coprire nella società del domani.
L'illustrazione di copertina è di Ilya Milstein.