Ai Weiwei, artista del digiuno

18 Febbraio 2016

Ai Weiewei umano

 

Da più di un mese l’artista cinese Ai Weiwei vive a Lesbo. Nel cuore del mar Egeo documenta il passaggio dei migranti dalla Siria verso l’Europa, i primi soccorsi dei volontari, la loro vita quotidiana. Sull’isola può contare sulla compagnia di un gruppo di studenti cinesi e tedeschi dell’Universität der Kunste di Berlino dove insegna, su 1000 Little Sun, la lampada al led disegnata da Olafur Eliasson (vicino di atelier a Berlino), su una rete wifi battezzata “Better Times”. Il contrasto tra la bellezza del paesaggio e la disperazione dei profughi lo ha indotto a trasferirsi in quella che considera “una zona di guerra” (“Artsy”, 8 febbraio).

 

Con l’idea di costruire un memoriale a Lesbo e a Berlino, nel frattempo pubblica una cinquantina di foto al giorno sul suo seguitissimo conto Instagram. Un reportage giornalistico all’epoca dei social media, il cui intento documentario è puntellato dalla presenza discreta ma inoppugnabile dell’artista.

 

 

A fine gennaio due inviati della rivista “India Today” (il fotografo Rohit Chawla e la redattrice capo Gayatri Jayaraman) rendono visita a Ai Weiwei per 48 ore. Con l’aiuto di quattro persone realizzano una fotografia in bianco e nero dell’artista, steso sul bagnasciuga della spiaggia, la guancia destra sulla sabbia, le gambe leggermente piegate. Sul sito della rivista è visibile un estratto video sulla realizzazione di questa messinscena in cui Ai Weiwei prende la posa di un morto. Non è sfuggito a nessuno che si tratta di un richiamo plateale allo scatto del piccolo Alan Kurdi annegato sulle coste di Bodrum (Turchia) a settembre scorso, un bambino di tre anni nato in un paese in guerra che gli impediva di partire, diretto in un paese che non voleva accoglierlo e costretto così a viaggiare in modo clandestino.

 

Pubblicata sul settimanale indiano oltre che sull’account Instagram di Ai Weiwei, la fotografia è stata esposta all’India Art Fair (28-31 gennaio, New Delhi). Stampata e incorniciata come un’opera d’arte, è accompagnata da una dichiarazione dell’artista: “Gli artisti sono liberi di fare dell’arte per l’arte, è una posizione che rispetto e che non critico. Io non sono nato artista. Sono nato essere umano. Ho a cuore le condizioni umane piuttosto che le opinioni. Non ho scelta”. Altrove ribadisce di essere un “essere umano artista, un difensore dei diritti umani”.

 

“Erano altri tempi quelli. Tutta la città si occupava allora del digiunatore; a ogni giorno di digiuno aumentava l’interesse del pubblico; tutti volevano vedere il digiunatore, almeno una volta al giorno.”

 

 

Ai Weiwei virale

 

Mimetismo? Reenactment? Riappropriazione cannibale? Ai Weiwei – la cui figura e le cui opere sono segnate da una incontrollabile sovraesposizione pubblica – gioca a fare il morto come si faceva da bambini, quando ci si buttava a terra e, con una frase irresistibile degna del Mr. Valdemar di Poe, si gridava, in punto di morte: “Ohaaa, sono morto”. Lo fa servendosi di internet su cui trascorre la sua vita sin dal 2006 (“Le Figaro”, 17 ottobre 2013): “internet è così importante perché è una celebrazione della gente. Internet è per me come una chiesa moderna. In una chiesa preghi qualcosa, il divino, ma su internet la gente ha il culto dell’individualismo e della libertà di parola” (“Artsy”, 8 febbraio). La sua abilità a servirsi dei nuovi media e a costruire un personaggio mediatico è stata paragonata a Andy Warhol, su cui scrive a due riprese nel suo blog-libro (3 novembre 2007, 17 febbraio 2008); del resto il primo libro che Ai Weiwei legge in inglese è La filosofia di Andy Warhol da A a B. Una mostra alla National Gallery of Victoria di Melbourne ne ripercorre ora in parallelo la produzione. Le sedie elettriche e gli incidenti di Warhol come la foto di Lesbo? Il parallelo è azzardato.

 

Ai Weiwei nel 1987 al MoMA

 

Come ha scritto l’“India Today” (1 febbraio), “Il risultato è una fotografia esclusiva che si è diffusa come un virus [gone viral]. Una storia complessa in una sola immagine, questa è la grande arte”. Go viral: l’espressione, diffusasi, leggo, nel 2009, mi colpisce. Editata, annotata, condivisa, postata, linkata, tweettata, l’immagine oggi si diffonde come un virus, contaminando in un batter d’occhio sguardi lontani. Il tempo della visione e quello della condivisione collassano in un clic.

 

“Come termine massimo del digiuno l’impresario aveva fissato quaranta giorni, non gli permetteva di superare mai quel limite, neppure nelle metropoli ... e non senza ragione. L’esperienza insegnava che sino a quaranta giorni si poteva aumentare gradatamente l’attenzione di una città con una pubblicità sempre più intensa; più a lungo il pubblico non rispondeva più; si notava una sensibile diminuzione dell’affluenza.”

 

“Perché smettere il digiuno proprio ora, dopo quaranta giorni? Avrebbe resistito ancora a lungo per un tempo illimitato; perché farlo smettere proprio ora ch’era nel punto culminante del digiuno, anzi non c’era ancora arrivato?”

 

 

Ai Weiwei rifugiato

 

Ai Weiwei, figlio del poeta Ai Qing, prigioniero politico per quasi 20 anni (1961-78), non è un rifugiato: dal 22 luglio scorso le autorità cinesi gli hanno restituito il passaporto, in seguito ai celebri 81 giorni di detenzione (aprile-giugno 2011) e agli arresti domiciliari per presunta frode fiscale. Eppure, “in un certo senso siamo tutti rifugiati” (“India Today”, 3 febbraio). Lo scatto di Lesbo lo conferma, sebbene sia nato in modo accidentale: “Il fotografo e la giornalista mi hanno chiesto di posare per una foto vicino la spiaggia e di chiudere gli occhi. Tenevo a mente l’immagine del bambino, di cui avevamo discusso.”

 

 

Sull’operazione Ai Weiwei è comunque adamantino: “Per me essere nella stessa posizione [del bambino siriano] vuol dire suggerire a che punto la nostra condizione può essere lontana dalle preoccupazioni umane nella politica odierna” (CNN, 1 febbraio). In effetti a fine gennaio ha annullato due mostre in Danimarca (al museo ARoS di Aarhus e alla Fondazione Faurshou a Copenhagen) in seguito all’approvazione di una legge sull’immigrazione che permette al governo danese di confiscare ai migranti oggetti di un valore superiore a 1300 euro. Se restiamo alle intenzioni dell’artista, la messinscena di Lesbo è un tributo. La giornalista dell’“India Today” lo paragona addirittura a Gandhi. Eppure le reazioni sono state unanimi: passo falso, sfacciato opportunismo, immagine cruda e rivoltante, gesto politicamente inefficace, cattivo gusto, suicidio artistico, delirio egoico, macabra speculazione, smania di protagonismo, pornografia morale. Altri tagliano corto e si limitano a osservare che, così conciato, l’artista cinese di 58 anni somiglia a un vitello marino.

 

 

Difficile districarsi tra Warhol e Gandhi, anche per uno come Ai Weiwei, a suo agio a Lesbo così come al grande magazzino Le Bon Marché, dove si tiene la sua prima retrospettiva francese. Durante l’inaugurazione scattava selfie con la modaiola Paris Hilton, poi postati accanto a quelli dei rifugiati.

 

“Comunque un bel giorno il digiunatore, così viziato dal pubblico, si vide abbandonato dalla folla desiderosa di divertirsi, che affluiva ormai ad altri spettacoli.”

 

 

Ai Weiwei digiunatore

 

Nella foto del bambino siriano il mare è ampio e la terraferma, in cui chiedeva asilo, poco più che una fettuccia. Nella foto di Ai Weiwei, lontano dall’acqua, ben coperto ma col volto distintamente riconoscibile, regna un magistrale equilibrio tra la terraferma, il mare e il cielo.

 

Secondo Ai Weiwei l’arte è provocazione sebbene, precisa, “non ogni provocazione ha successo. Solo quando hai una conoscenza profonda di quanto è accaduto prima, nell’arte, la cultura, la politica o la vita umana, potrà funzionare. Nella maggior parte dei casi, limitarsi a provocare non funziona. È solo un’attitudine. E l’attitudine può essere vuota” (“India Today”, 3 febbraio).

 

Non è questo il caso? Per dirlo altrimenti, nella foto di Lesbo manca quello che Ariella Azoulay ha chiamato “civil contract” (The Civil Contract of Photography, Zone Books 2008). Secondo la studiosa, la fotografia è una pratica sociale che mette in relazione e coinvolge allo stesso modo tre soggetti: quello che viene fotografato, il fotografo e lo spettatore. Tre posizioni aperte, che lo stesso soggetto può di volta in volta occupare. Il fotografo non esercita alcun controllo assoluto sull’immagine. Il senso si produce all’interno di quest’incontro, di questa economia di sguardi. L’atto fotografico è lontano dalle restrizioni cui sono spesso sottoposte le immagini artistiche, legate a questioni di autorialità e autonomia visiva.

 

Azoulay non esita a parlare di una “etica della spettatorialità” in cui la fotografia, lontano dall’essere un’esperienza passiva, contribuisce a costituire la cittadinanza. Questo è vero soprattutto nelle situazioni di crisi, emergenza, violenza in cui la cittadinanza è il risultato di una negoziazione conflittuale, capace di sfidare il potere sovrano e sviscerarne le dinamiche. Il contratto civile istituito dalla fotografia è insomma un’efficace strategia di resistenza che sviluppa la coscienza politica, la responsabilità e l’azione.

 

Ora, di cosa parla la foto di Ai Weiwei se non di Ai Weiwei?

 

 

“ci si abituò alla stranezza, in tempi come i nostri, di reclamare l’attenzione del pubblico sopra un digiunatore, e con questa abitudine il suo destino fu segnato. Poteva digiunare quanto voleva ... ed egli lo faceva; ma nulla lo poteva più salvare, nessuno più si curava di lui. Si provi qualcuno a spiegare l’arte del digiuno!” (Franz Kafka, Ein Hungerkünstler, Un digiunatore, 1922)[1].

 

 


[1] Ad evocare il racconto kafkiano a proposito di Ai Weiwei è stato Hamid Dabashi, professore di Iranian Studies alla Columbia University, in un articolo uscito su “Al Jazeera” il 4 febbraio.

 

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TAGGED: Memoria , Personaggi

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