André Kertész, il gioco della decostruzione
“Era stato capire che il mondo a mia immagine era qualcosa che non aveva niente a che vedere con la realtà.” Così Bustianu Satta, lo storico protagonista avvocato di alcuni romanzi di Marcello Fois, conclude in Sangue dal cielo durante le indagini su un caso complesso da risolvere. Il mondo che si vede e in cui ci si proietta può infatti, a volte, non avere proprio niente a che vedere con la realtà, ed è in fotografia che questo pensiero può trovare la sua migliore e diretta esplicazione. Quando le cose si piegano, assumendo la forma che combacia con la visione che ne dà il nostro occhio, le si sente sovrapponibili a un mondo che a ben guardare non esiste, se non in noi che lo vediamo. André Kertész (1896-1985) è uno dei nomi più rilevanti nella storia della fotografia del Novecento – ungherese, fotografo per passione già da ragazzo, entrato a pieno titolo nel milieu culturale e artistico parigino neanche trentenne – e la mostra a lui dedicata negli spazi di Camera, a Torino, senza troppi preamboli ci fa inserire nel suo vasto mondo visivo. Raccogliendo le immagini prodotte dal 1912 al 1982, e attraversando tutto il panorama creativo e le tappe geografiche principali in cui si è svolta la vita del fotografo – Budapest, Parigi, New York – la mostra ci rivela uno sguardo indubbiamente innamorato di quanto, anche in modo diaristico, riuscì a raccogliere e fotografare. Ma anche profondamente tentato da una pulsione diversa, estranea alle forme regolari degli uomini e degli oggetti, e più affascinato invece dalle sorprese geometriche, dalle improvvisazioni morfologiche dei suoi soggetti.
“È il soggetto a trovarmi” si sente infatti affermare André Kertész in una video intervista in cui compare già anziano, conscio ormai della sua influenza nello scenario fotografico internazionale e, forse di più, della strana oscillazione che l’accoglienza del pubblico e degli editori gli hanno sempre riservato. La rivista “Life”, per esempio, non pubblicò mai nessun lavoro che Kertész propose; come pure gli capitò di doversi trasferire da Parigi a New York, nel 1936, proprio per ragioni di calo di proposte di lavoro. Così, attraversando le sale della mostra, la curiosità del fotografo ci si dipana sotto gli occhi toccando, sembrerebbe, ogni argomento dell’umano: dal reportage di strada, agli autoritratti, alle vedute della città natia, scattate appena ventenne. Il “Violinista cieco”, il “Barbone seduto”, il “Ragazzo addormentato” sono i tanti protagonisti di una storia che noi soli ricomporremo, dicendoli sempre così, con la prima lettera maiuscola; e facendoli vagare nelle pianure ungheresi, o nelle piazze vuote all’alba.
Allo stesso tempo, già in questo primo tratto del percorso di Kertész si può iniziare a notare il primo germoglio della vaga tentazione che fa vedere le cose per un momento distanti da quella rigorosa attinenza con gli schemi della fisica, e della forma naturale: l’“Uomo che nuota sott’acqua”, del 1917, può essere considerato la prima avvisaglia di un intuito pronto a scomporre e ricomporre ciò che gli occhi vedono, un corpo allungato dalle rifrazioni dell’acqua, segmentato dai riflessi che giocano a far cambiare i volumi delle gambe, o della nuca. Non tanto una volontà di guastare ciò che possiede dei confini precisi, in particolare il corpo umano, né di convertire in modo irreversibile l’immagine che di quel soggetto normalmente si ha; nell’opera di Kertész prevale il gusto dell’imprevedibile, dell’assetto ironico che le cose del mondo possono improvvisamente assumere senza che nessuno lo comandi. Esattamente come sono la luce e l’acqua a provocare le deformazioni che l’occhio percepisce sul corpo del nuotatore, così a volte può essere la nebbia a trasformare il paesaggio cancellando quasi del tutto la Tour Eiffel – e siamo qui già nel periodo parigino del fotografo, nel 1925 – o un’ombra a far sembrare le gambe di un bambino che calcia un pallone sproporzionatamente lunghe (1930). Le cose non appartengono solo alla realtà in cui nascono, possono rivelarsi sotto aspetti molteplici, iniziare delle metamorfosi improvvise sotto gli occhi di chi le guarda, sconvolgere il proprio ordine fisico iniziale.
In quegli stessi anni, gli anni delle avanguardie artistiche, di Salvador Dalì, di Man Ray, di numerose altre menti, il soggetto perde del tutto un senso strettamente funzionale, o simbolico, per toccare il mondo onirico del surrealismo; un approccio in cui ogni dettaglio materiale può appartenere a dimensioni che solo a causa di incrinature dell’inconscio, o in sogno, l’uomo può scorgere e percepire. Bill Brandt, un altro grande nome della fotografia europea, trasformava i gomiti in scogli, le orecchie in conchiglie; tutto era possibile quando avveniva di fronte agli occhi che vedevano, e che giustificavano ogni anomalia, finalmente, come accadimento naturale. In questo senso André Kertész, giunto appunto a Parigi, inizia a parlare un linguaggio che doveva, al tempo, sembrare universale, condiviso e ricercato da tutti coloro che si trovavano ad attraversare gli svariati campi dell’espressione artistica. Troviamo infatti Kertész entrare negli atelier dei più influenti personaggi nel mondo della cultura dell’epoca, da Piet Mondrian a Sergei Eisenstein, familiarizzare con altri fotografi divenuti celebri e che lo dichiararono loro maestro, come Brassai.
La trasformazione del corpo in Kertész riesce sempre ad assecondare una narrazione ingentilita, in cui anche la menomazione fisica assume dignità umana, oltre che storica, se non anche estetica. Il “Venditore di mughetto”, che il fotografo immortala a Parigi nel 1929, è un uomo mutilato, con molta probabilità dalla guerra; ed è pure l’esempio chiaro di quanto il leit motiv surrealista del corpo trattato come un oggetto smontabile e danneggiabile – si veda Tristana, il film di Luis Buñuel, o il lavoro fotografico dell’artista Hans Bellmer – possa a volte tendere verso direzioni che tengano conto del contesto storico in cui quei corpi si sono trovati a vivere. Kertész, infatti, prendendo parte alla Prima Guerra Mondiale, rimase gravemente ferito a un braccio che per un lungo periodo non riuscì a muovere.
Per questo giungere all’immagine più iconica di André Kertész, scelta anche copertina del catalogo che accompagna la mostra edito da Dario Cimorelli Editore, stupisce il visitatore nella misura in cui diventa finalmente lampante il fil rouge sotterraneo che si scopre aver da sempre guidato l’attenzione del fotografo. La “Danzatrice satirica”, sdraiata in un’assurda posa su un divanetto buttato nell’angolo di una stanza semi spoglia, con gli arti piegati a imitazione – o preveggenza – inconsapevole delle angolosità scultoree delle opere di Luciano Minguzzi, ci parla quella identica lingua con cui Kertész prova a raccontare e a raggiungere la perfetta deformazione anatomica. Questa immagine, infatti, potrebbe dirsi la seconda tappa significativa di un percorso iconografico votato alla decostruzione del corpo, alla sua reinvenzione come puro significato formale, segno e volume nello spazio.
Come il cantiere della città di Meudon, documentato da più angolazioni nel 1928, ci dimostra quanto il fatto stesso di fotografarlo lo dichiari in sé una forma compiuta, definitiva: la fase della trasformazione è a tutti gli effetti un momento de-finito di un processo, e quindi qualcosa di registrabile, fissabile nel tempo. Ugualmente il corpo, muovendosi sotto l’effetto di una qualsiasi luce, risulta essere un elemento vivo e per questo in grado di essere immortalato in ogni attimo delle sue modifiche repentine, dei suoi stravolgimenti visibili.
Il culmine della ricerca di Kertész condotta in questo senso si trova sempre nella sezione parigina. Unica immagine vintage in mostra, e parte della collezione privata di Ettore Molinario, la “Distorsione n.34” appartiene a un ciclo del 1933 di lavori su commissione della rivista “Le sourire", con cui il fotografo ungherese collaborava.
Qui, il gioco della decostruzione della forma viene messo in scena grazie all’effetto di particolari specchi da circo che riescono a esasperare ogni minimo dettaglio di ciò che gli capita di fronte. La lente fotografica dialoga così con una superficie per certi aspetti analoga, capace di portare agli estremi un discorso dalle enormi potenzialità. Nel 1933 Kertész dà a tutti gli effetti vita a un insieme di immagini (circa 200 in tutto) sì in grado di suscitare la risata in chi le guarda – questo infatti era il fine principale che gli era stato affidato dalla rivista – ma anche di sondare i nuovi spazi ricreabili sulla lastra, estesi ora oltre le consuete leggi dell’ottica, delle normali aspettative degli occhi. I “Nudi” già citati di Bill Brandt appaiono in questo modo l’avvio di un’epopea formale ben lontana dal potersi esaurire in fretta, e Kertész è indubbiamente stato maestro, tra gli altri meriti, nel dare al soggetto vere speranze di una trasformazione totale, almeno entro i margini dell’inquadratura. Il corpo può diventare allora un fluido rannicchiato, rifratto e ripetuto più volte nello stesso spazio, minuscolo e gigantesco. Ed è con questa consapevolezza che anche il nuovo insieme di personaggi del racconto newyorkese di Kertész ci appare il prosieguo necessario dell’apice raggiunto con le “Distorsioni”, in cui compare in diramazioni sempre maggiori lo sviluppo di una narrazione geometrica, del contrasto dei volumi intrecciati degli scorci urbani. L’uomo, spesso piccolo protagonista di scene troppo grandi per lui – parrebbe una possibile metafora della vita americana – vive così in prima persona le deformazioni dell’architettura, gli spigoli dei tetti, delle scale, delle ringhiere: come ultima distorsione dell’anatomia umana, vedere l’uomo nella dimensione diminuita e sproporzionata a cui solo una lente, e la distanza di chi la usa, può ridurlo, ancora una volta alle prese con uno spazio estraneo, ancora una volta alle prese con un mondo a propria immagine, e dunque troppo distante dalla realtà.
La mostra André Kertész – l’opera 1912-1982, a cura di Walter Guadagnini e Matthieu Rivallin, è visitabile presso Camera, a Torino, fino al 4 febbraio 2024.