La scuola dovrebbe insegnare a nominare le cose / Andrea Bajani. La vita non è in ordine alfabetico
In un’intervista pubblicata su Repubblica, Andrea Bajani dice che solo le parole possono salvarci, e che la scuola dovrebbe insegnare a nominare le cose: inventare parole, piegandole, montandole, così che possano dire per bene, e dire per noi, il mondo.
La scuola fa anche da cornice all’ultimo libro dello scrittore torinese pubblicato per Einaudi, La vita non è in ordine alfabetico: un maestro e le sue ventuno lettere con le quali, questo il maestro dice ai ragazzi, si può fare tutto.
La vita non è in ordine alfabetico (Einaudi) sono trentotto brevi racconti.
Eppure, come l’attimo della bambina con il costume verde in copertina, che allarga le braccia come alla «fine di un’acrobazia, l’uscita da una capriola o dalle parallele», contengono molto di più.
Il passato e il presente, tutta la realtà che ogni dettaglio condensa e rivela e insieme tutto il virtuale che tesse, il ‘tu’ a cui ogni storia si rivolge. Perché quel tu, quello che è attraversato da questi attimi di intensità, sei proprio tu. Come se le parole, insieme a tutto il resto, pronunciassero anche il tuo nome. E come se le situazioni ti riguardassero, così come le paure: lo credi anche tu che forse è bene stare chiusi in una stanza protetti dalle storie e non uscire nella notte, nemmeno per andare a fare la pipì, che poi il mondo intero, se la porta viene aperta, magari si scopre non esserci più; e anche tu potresti giurare di aver toccato i cerchi che disegnano le vite dell’albero, e di esserti anche guardato le mani, poi, per vedere se fosse rimasto qualcosa di quelle vite tra le dita.
Stai a sentire, ti dicono. Danno del tu all’assenza e si fanno appello.
E così, leggendo, hai sfiorato i tuoi braccialetti e li hai nascosti sotto la manica, sentendoti nuda quando le parole ti hanno raccontato che contengono così tanti desideri ancora non avverati, quelli che scivolano via quando poi si rompono, lasciandoti con la sola possibilità di guardarli cadere.
I nostri pensieri e le nostre parole si intrecciano a quelli che occupano la pagina, anche loro si fanno corpo come le idee che rincorrono le persone, il suono che cerca le cose, il segreto che invade lo spazio. Si fanno corpo per poter essere toccate, perché sia possibile averne cura, sentire il loro passaggio, controllare che siano dove le abbiamo messe, così da non imparare a vivere senza.
Perché il corpo risponde; risponde del ricordo di un frastuono di vetri rotti nella testa, costringe chi scrive, il narratore, il tu di quelle storie, il tu che legge, a sentire il vento sulla faccia, a pensare «ai tuoi seni, ai capezzoli, e a quel po’ di pancia che avevi – che vergogna!». E a scappare via, senza salutare; a rovesciare tutte le cose dalle tasche; a chiedere alle parole di «entrare dentro e fare scempio, di mettere tutto a ferro e fuoco». A sentire addosso quelle storie vissute in prima persona. Non importa da chi e non importa quando.
Flannery o’Connor scriveva che bisognerebbe insegnare i limiti e le potenzialità delle parole, e il rispetto loro dovuto. E aggiungeva che non bisognerebbe mai imparare a scrivere, né trovare mai davvero un modo per dire quanto si è sempre saputo.
Ancora una volta, Andrea Bajani cancella il punto dove la parola è solo una parola, dove la parola descrive. Le sue parole non descrivono un bel niente, ma portano in mezzo, nel mondo, ne modificano la forma. Ecco perché questo ‘ancora una volta’ non ha la forma di un già visto, ma piuttosto quella di un mai abbastanza: encore.
La vita non è in ordine alfabetico e proprio per questo con le ventuno lettere possiamo fare tutto, costruire e distruggere il mondo.
Eppure, vorrei forse obiettare, non è vero che con ventuno lettere si muore, anche. Perché le parole mi hanno raccontato l’ultimo respiro, hanno detto della morte e del battito dell’orologio, continuo come fosse il battito del cuore dell’amica. E, così, siamo sopravvissuti. Io e il libro.