Arnolfo di Cambio e il monumento Annibaldi

15 Marzo 2014

“Al Laterano” rispose il contadino, chino sopra il coltivo, senza neppure rialzare la testa.
“E come ci si arriva, buonuomo?” continuò a domandare il cavaliere.
Stavolta il colono tentò di riassumere la postura eretta ma una fitta alle reni lo costrinse a rivolgere al suo interlocutore solo il volto brunito dal sole e contratto in una smorfia che lo faceva apparire ancora più grinzoso.
“Superate la porta, girate a destra, al primo quadrivio voltate a sinistra, poi andate sempre dritto e incontrerete la basilica di san Giovanni.”
Con uno sventolio di cappello a mo’ di ringraziamento, il cavaliere spronò il cavallo in direzione delle mura.

 

Proveniva da Napoli, era in marcia da tre giorni e non vedeva l’ora di smettere i panni del viaggiatore e d’indossare i suoi soliti d’artista. Era per mantener fede, se pure in modo tardivo, a una promessa fatta in articulo mortis al suo signore, che Arnolfo di Cambio stava ritornando a Roma. Questi, infatti lo aveva pregato di realizzare un monumento funerario per il cardinale Riccardo Annibaldi, suo antico fautore contro la sequela sveva, al quale doveva della riconoscenza, essa pure tardiva. Allo scultore una simile richiesta era subito parsa inconsueta: i monumenti sepolcrali non erano molto in auge a quel tempo, almeno non qui sulla penisola italica - dove due erano di sua mano, uno a Viterbo e l’altro ad Orvieto - così per esaminarne qualcuno di non troppo vetusto, si era dovuto recare in Francia.

 

Era da lì che stava facendo ritorno, aveva viaggiato in nave fino a Napoli e poi a cavallo lungo la Via Domiziana. Quattro anni si era trattenuto sul suolo francese, durante i quali aveva attentamente studiato i sarcofagi dei merovingi e dei capetingi ma aveva anche perfezionato la sua conoscenza dell’ars nova, di quell’architettura fondata sulla leggerezza e sulla trasparenza che da Parigi si era rapidamente irradiata in tutta Europa, non lasciando immune dal suo fascino neppure lui.

 

Lo scultore colligiano era già stato sul suolo parigino un’altra volta al seguito del suo signore - il compianto Carlo d’Angiò, sovrano di Napoli e di Sicilia, nonché fratello di Luigi IX, re di Francia - e vi aveva tratto ispirazione per il suo ciborio romano di san Paolo fuori le mura. Stavolta, però, durante il suo secondo soggiorno nella capitale francese - che si era risolto ad effettuare solo dopo la morte di Carlo, avvenuta nel 1285 - aveva avuto modo di meditare ancor più a lungo sul taccuino di Villard de Honnecourt e sull’impiego del calcolo numerico - e a volte algebrico - necessario per attuare quella rivoluzione linguistica e strutturale propria delle nuove cattedrali.

 

Era infatti certo che prima o poi gli sarebbe capitata l’occasione di mettere a frutto questa sua acquisita abilità costruttiva e compositiva, allora avrebbe dimostrato al mondo di essere lui il più grande architetto del secolo. Non ora, purtroppo, e probabilmente non a Roma. Per il momento si doveva accontentare della commessa per la quale era stato pagato in anticipo.

 

Da un po’ di tempo l’abate benedettino di san Pancrazio insisteva affinché gli autori del chiostro del suo monastero venissero a fargli visita. Aveva infatti necessità di aprire un varco nella parete sud e proprio quel giorno i Vassalletto, padre e figlio, avevano risposto alla sua chiamata. Sebbene Pietro fosse piuttosto anziano, non disdegnava tuttavia di cimentarsi nel lavoro in prima persona. Stava giusto prendendo alcune misure con la sua inseparabile bindella, quando vide entrare nel chiostro qualcuno la cui andatura gli pareva di conoscere. La vista non lo assisteva più come un tempo, così attese che il nuovo venuto gli fosse vicino per identificarlo.

 

“Maestro” esclamò questi non appena lo ebbe raggiunto “sono venuto a cercarvi perché ho ancora bisogno di voi e della vostra arte.”
Riconosciuto subito il suo interlocutore dal suo forte accento toscano, Pietro si prostrò in un gesto di stima. “Maestro lo siete voi per me. È sempre un grande onore collaborare con voi. Di che si tratta, stavolta?”
“Di qualcosa di analogo all’altra, eppure di differente” gli rispose Arnolfo. “Non di un ciborio, bensì di un sepolcro.”
Se il Vassalletto senior ne fu sorpreso non lo diede a vedere. Lo junior tacque.

 

Per il monumento Annibaldi, l’artista colligiano aveva in mente qualcosa di classico e di moderno insieme: di classico nel rispetto delle proporzioni e nell’equilibrio compositivo; di moderno nel dinamismo e nella scansione ritmica. Pensava ad una figura giacente, simile a quelle posate sui sarcofagi capetingi, inserita in una nicchia preceduta da un tendaggio aperto, quasi un sipario. Sul fondo immaginava una processione di chierici oranti per la quale avrebbe tratto ispirazione dal corteo onorario che figurava sull’Ara Pacis augustea. La complessità di questo gruppo scultoreo sarebbe poi stata arricchita dai particolari, per i quali avrebbe usato il traforo. Nel suo recente soggiorno francese, infatti, si era anche specializzato nell’utilizzo di questo strumento che, unitamente all’impiego della martellina dentata, nel quale era un vero esperto, avrebbe prodotto risultati egregi.

 

 

Com’era sua consuetudine, avrebbe lavorato gli altorilievi soltanto nelle parti esposte alla vista ma sin nei più minuti dettagli, lasciando quelle non visibili grezze e appena sbozzate. Aveva fatto così anche ad Orvieto. Riteneva fosse doveroso considerare il fruitore finale della sua opera parte integrante del suo processo creativo, chiamava questo suo modus operandi “criterio di visibilità”, era un concetto che avrebbe avuto fortuna soprattutto nei secoli a venire; anche se non ne era consapevole, Arnolfo era un vero antesignano di modernità.

 

 

Era per realizzare lo sfondo sul quale il corteo dei suoi chierici si sarebbe stagliato, che aveva bisogno dei Vassalletto, i più eminenti marmorari romani del tempo. Pietro e il suo figliolo, infatti, erano abilissimi in quella tecnica fatta di intarsi vivacemente policromi, marmorei e vitrei, che in futuro avrebbe avuto nome di cosmatesca.

 

 

Quando, undici anni dopo, Giotto di Bondone, di ritorno a Roma per eseguire un ciclo di affreschi in san Giovanni in Laterano, vide il monumento Annibaldi, ne rimase profondamente impressionato. Aveva per Arnolfo di Cambio una vera e propria venerazione. Si erano incontrati sul cantiere di Assisi ed erano subito diventati amici. Di lui conosceva e apprezzava tutte le opere, soprattutto le architetture, al punto da averle citate spesso nei suoi affreschi, ma il tema e i modi di questo gruppo scultoreo, che vedeva per la prima volta, lo sedussero al punto da convincerlo a prenderli a modello per un nuovo lavoro che aveva in mente – che avrebbe realizzato, tra l’altro, proprio sulle pareti di un edificio concepito dal genio dell’artista colligiano.

 

La composizione era realistica ed evocativa al tempo stesso, classica ma nuovissima. La mesta processione di chierici, che procedeva in un ritmico flusso ondulante, era di una malinconia struggente. Sui loro volti il dolore appariva rattenuto dalla compostezza, sebbene trapelasse dall’esitare di ogni loro gesto. Indossavano abiti che sembravano esser fatti di una stoffa sottile e setosa, che si modulava, ad ogni loro passo, in pieghe a triangolo negli incavi delle braccia e sotto le sporgenze dei gomiti e dei ginocchi, a ricaduta rettilinea, invece, altrove, conferendo un che di vero al loro solenne e perpetuo andare.

 

Sulla superficie della materia, ora scabra, ora più liscia, ora più ruvida, ora perfettamente levigata, la luce produceva effetti cangianti che dosavano la drammaticità in gradienti di una sorprendente teatralità che induceva all’empatia, cosicché Giotto si commosse.

 

 

La sembianza del defunto, poi, con la testa poggiata sui guanciali e leggermente ruotata verso l'osservatore, era talmente naturale che pareva che questi dormisse, tanto che Giotto, sebbene non lo avesse conosciuto in vita, provò per la sua morte così tanta pietà che pianse e subito gli affiorarono alle labbra i versi di una Lauda del vate-monaco, il cui nome era interdetto pronunziare, per essersi egli opposto all’autorità del papa regnante, ma caro al suo cuore:

 

Figlio, l’alma t’è uscita
figlio de la smarrita
figlio de la sparita
figlio attossicato!
Figlio bianco e vermiglio,


figlio senza simiglio, 


figlio, e a ccui m’apiglio?


Figlio, pur m’ài lassato.

 

E con questa preghiera nella mente, Giotto lasciò il sarcofago e s’incamminò verso la Loggia delle Benedizioni per porre mano all’affresco in cui avrebbe ritratto Bonifacio VIII che dava inizio al primo Giubileo della storia.
 




Nota: Restauri effettuati alla fine del secolo scorso hanno rivelato tracce di colori stesi a tempera su tutte le superfici scolpite: ocra, azzurro e verde malachite; è quindi verosimile che in origine l’opera fosse colorata.

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