Speciale
Barbari nel gioco dei punti di vista
Dal mito, oltre all’invenzione letteraria, proviene, rispetto al raid, anche il racconto storico vero e proprio. Qui il protagonista del raid si mantiene irregolare ma la sua accezione comincia a farsi negativa così come questa stessa particolare forma di guerra. Essa appartiene infatti alle popolazioni nomadi o a quelle più deboli il cui territorio è stato invaso oppure ancora sfuma i confini dei combattenti confondendoli con i banditi. Così per esempio erano percepiti e chiamati i partigiani dall’esercito nazista. Dato che, come noto, la storia viene scritta dai vincitori, la forma raid e chi la agisce saranno soggetti alla valutazione ideologica dei più forti. In generale i più forti, e quindi vincitori, avendo un esercito superiore ed alle spalle un sistema politico più organizzato, prediligono lo scontro in campo aperto e ritengono pertanto il raid una forma impropria e codarda di guerra. Già gli storici greci ci insegnano che onorevole è piuttosto morire fino all’ultimo uomo di fronte ad una forza preponderante. Infatti, come affermano Deleuze e Guattari, “si scrive la storia, ma la si è sempre scritta dal punto di vista dei sedentari, e in nome di un apparato unitario di Stato, almeno possibile anche quando si parlava di nomadi” (Rizoma, Castelvecchi, 1997).
Cesare, a proposito della sua campagna di conquista delle Gallie, prende a pretesto le incursioni germaniche contro i principali alleati romani: “gli Edui si lamentavano che gli Arudi, da poco trasferitisi in Gallia, devastavano i loro territori”(La guerra Gallica, Garzanti, 1989, Libro I, Cap. XXXVII). I Germani sono appunto barbari caratterizzati, agli occhi del comandante romano, per le loro indebite scorribande e migrazioni nomadiche al di là del Reno, che corrispondono poi al loro modo di combattere in cui il fattore d’eccellenza è la cavalleria. Ariovisto infatti, il re dei Germani che si scontra con Cesare, dispone di seimila cavalieri addestrati ad una tecnica militare incentrata sul raid. Tacito nella Germania riprenderà due secoli dopo l’elemento tipico del raid dal punto di vista militare e anche psicologico per connotare le popolazioni che andavano premendo sui confini dell’impero: “invero è carattere delle forze equestri ottenere rapida la vittoria, e rapidamente ritirarsi. La velocità s’apparenta alla paura, l’indugio alla costanza” (Tacito, La Germania, SE, 1990, cap.30, par. 3). La mobile velocità rientra nel modo di combattere avveduto dei Germani (“cedere un terreno per riprenderlo considerano non timore ma senno”, ivi, cap.5, par.3), barbari di cui come noto lo scrittore dell’età imperiale, in polemica con la Roma del suo tempo, mette in evidenza anche diverse qualità morali. Una di queste senz’altro l’esercizio inesausto ed aggressivo della guerra aperta, cui però egli non può fare a meno di disgiungere l’altra caratteristica eterna del barbaro semi-nomade, ovvero appunto quella del raid: “i mezzi dell’abbondanza sono la guerra e la rapina” (ivi, cap.14, par. 3).
Torniamo ora a considerare l’organizzazione delle forze militari di Roma. La legione appare una diretta filiazione della falange greca, sia per la sua struttura in ranghi serrati sul campo, sia perché espressione di un ordinamento sociale che, a partire dalla sistemazione di Servio Tullio, si lega alle centurie. Quindi ancora la partecipazione degli abbienti in relazione alle proprietà terriere (legione viene dal verbo lego, scegliere, da cui la nostra leva) e, per conseguenza, le prime due classi che offrono il maggior numero di soldati con un proprio armamento. Una prima evoluzione, delle molte che caratterizzano la flessibile e secolare storia militare di Roma, si definisce piuttosto presto, nel III a.C., per operare al meglio nelle impervie montagne abitate dai Sanniti. Di qui la disarticolazione in manipoli dell’ereditata falange che porta agilità di movimento nell’ordine chiuso permettendo aiuto reciproco e rapida sostituzione della parte in difficoltà. L’armamento stesso dei quattromila uomini, schierati su tre linee (velites e hastati davanti, triares in retroguardia difensiva e pronti all’intervento solo in caso di piega negativa del confronto) suddivisi in trenta manipoli, segnala una tipologia di battaglia corpo a corpo simile a quella del racconto omerico. Lo scudo oblungo, lapila (due giavellotti pesanti), lasciano il passo alla centralità della spada (il gladius) atta a colpire da vicino.
Dunque Roma assorbe fin dall’inizio quanto di tattica movimentista può esserle utile nell’inquadramento della forza regolare. A far da contrappeso, fin nell’età arcaica, il concetto di Fides, la divinità che da Numa Pompilio in poi regola i rapporti pubblici e privati. Una vera ossessione in cui ci si imbatte ad ogni pagina sfogliando qualsiasi storico romano quale orgoglioso distintivo del proprio popolo e stato. Il foedus, i foedera sono trattati che Roma instaura con i vicini sulla base d’un vincolo che dagli uomini virtuosi si estende alle nazioni virtuose. Presiede ad essi la divinità, il legame viene stabilito con un giuramento che impegna l’onore. Infrangere il foedus diventa quindi squalificante per uomini e stati, addirittura sacrilego, e comporta di certo la più alta e automatica punizione. Il verbo latino trado del resto, da cui il tradimento, spaziava in origine in una larga area semantica tra vendere, raccontare, comandare ed affidare secondo molteplici accezioni, sempre però contenendo l’idea di passaggio dato dal prefisso trans. Ad imporsi fu poi, non a caso, l’ambito militare nel significato di consegna (di una città, di armi o di amici) durante un conflitto e certamente attraverso il dolo. Violare il patto di fedeltà o di lealtà degrada il traditore ponendo il tradito nella posizione di punirlo con la morte, allo stesso modo del sacrificato nel rito presieduto dai fetiales, i sacerdoti che sovrintendevano anche proprio alla dichiarazione di guerra.
Quando Roma, da potenza locale si espanderà a dominatrice del mondo, bisognerà quindi per vinti ed alleati stare molto attenti a non deluderne le aspettative stabilite nel foedus. Non fa niente se, come ovvio, esso sarà imposto con la forza delle armi da una parte sola e con centratura asimmetrica. Roma si vanterà sempre del giusto equilibrio dei foedera stipulati e della sua scrupolosa lealtà nel rispettarli. Formidabile autorappresentazione rafforzativa e strumento di marketing fa il paio con il concetto di pax romana. Le guerre romane servono infatti in questa ottica a stabilire la pace tramite patti, sono causate solo da popoli indisciplinati o traditori che mettono a repentaglio la pace o disattendono i patti. L’alta coscienza romana non può soffrire tutto ciò, anche se risulta evidente che tale cardine si considera universale e va quindi imposto ovunque e a chiunque, divenendo “premessa e giustificazione imperialistica”(G. Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Bologna, il Mulino, 2002) come nel caso paradigmatico della normalizzazione di un mondo ellenico troppo frammentato e caotico. “Pace giusta” allora, secondo l’unilateralità ideologica del vincitore, “può essere soltanto la pax romana, conforme cioè alle regole dettate al mondo dall’Urbe”.