Scompare a novantadue anni il sociologo polacco / Bauman, sociologo non liquido
Zygmunt Bauman è stato un maestro del pensiero sociologico. La gamma degli argomenti di cui si è occupato è molto vasta. Comprende, ad esempio, temi fondamentali della società come il passaggio dalla modernità alla postmodernità, la violenza dell’Olocausto, la morte, il lavoro, i processi migratori, i sentimenti umani o la crisi sociale. Ma Bauman si è occupato anche di temi decisamente più effimeri e legati all’attualità, come i reality show oppure i social network. Eppure per molti il nome di Bauman è semplicemente associato a un’etichetta come quella di «modernità liquida». Un’etichetta, in effetti con la quale negli ultimi decenni ha ottenuto un notevole successo mediatico, ma che non corrisponde al cuore della sua riflessione.
Il successo dell’espressione «modernità liquida» può essere spiegato con la capacità del concetto di liquidità di costituire un’efficace metafora per rappresentare il processo di liquefazione in corso da tempo nelle società occidentali, che vedono progressivamente disgregarsi quelle strutture e quelle norme di funzionamento su cui avevano costruito la loro storia secolare e la loro fortuna. Così, dopo la modernità liquida c’è stato l’amore liquido, poi la vita liquida, ecc. Parlare però di «modernità liquida» comporta di limitarsi semplicemente a descrivere un fenomeno, a rimanere sulla superficie dei fenomeni sociali, mentre Bauman era un maestro nell’argomentare il suo pensiero e nello sviluppare delle analisi che andavano decisamente in profondità all’interno delle questioni affrontate.
E, affrontare con decisione le società di oggi vuol dire metterne in evidenza soprattutto la natura consumistica. Pochi l’hanno considerato da questo punto di vista, ma Bauman era soprattutto un attento studioso dei fenomeni di consumo. E questo l’ha portato spesso a denunciare l’eccesso consumistico delle società contemporanee. In ciò, forse, era in sintonia con un grande “fustigatore” del consumismo come Pier Paolo Pasolini. Per Bauman, infatti, il modello d’identificazione proposto dal mondo del consumo è talmente convincente che nelle società odierne gli individui devono cercare, proprio come le merci in vendita nel mercato, di rendersi particolarmente attraenti agli occhi degli altri se vogliono sentirsi parte della società in cui vivono. Ne consegue che la società, come ha scritto lo stesso Bauman, «ridefinisce le relazioni interumane a modello e somiglianza delle relazioni tra i consumatori e gli oggetti di consumo» (Consumo, dunque sono, Laterza, p. 15). Gli individui sembrano dunque cercare nel consumo dei beni che soddisfino i loro bisogni, ma in realtà cercano soltanto degli strumenti utili per rendersi adatti a essere essi stessi consumati. D’altronde, solamente se si è riconosciuti come consumatori si può pienamente partecipare alla vita delle società contemporanee e dunque usufruire dei diritti e delle libertà di tutti i cittadini. Altrimenti si viene bollati con il marchio d’infamia di «non consumatori» e di conseguenza emarginati socialmente.
Assorbire lo statuto delle merci comporta per gli individui anche assorbire quell’irreversibile tendenza verso l’obsolescenza che caratterizza le merci stesse. Quella tendenza cioè verso la necessità di rinnovarsi in continuazione se non si vuole sparire dalla vista e quindi dal mercato. Tenere costantemente aggiornata la propria identità attraverso i beni che si acquistano diventa pertanto un vero e proprio obbligo sociale. Ma è improbabile che un tale aggiornamento possa rendere soddisfatti a lungo termine gli individui, perché, esattamente come per le merci, gli standard di riferimento mutano in continuazione e qualsiasi innovazione è destinata a diventare prima o poi obsoleta.
Bauman dunque era convinto che gli esseri umani, nelle società capitalistiche, siano destinati a essere condannati a una condizione di perenne insoddisfazione. Questo perché non sono più vincolati da norme rigide, ma obbligati a essere sempre in movimento, a non fissare mai la propria attenzione su qualcosa in maniera definitiva. Sono cioè in un perenne stato di eccitazione. Ciò avviene perché l’individuo ritiene che sia meglio consumare subito qualcosa che sicuramente svanirà presto e perché la società ha bisogno che il singolo atto di consumo non assorba troppo tempo, in quanto le attenzioni dei consumatori devono essere costantemente rivolte verso i nuovi beni in arrivo. Pertanto, i consumatori devono essere flessibili e sempre disponibili a raccogliere ciò che può arrivare e che, qualora arrivi, non deve essere perso. Il gioco del consumo continua così a svilupparsi, anche perché i ritmi intensi di partecipazione che impone impediscono di guardare altrove, di cercare delle soluzioni ai propri problemi al di fuori di quelle che vengono offerte dal mercato.
Ma lo scopo del gioco del consumo, come ha scritto Bauman, «non è tanto la voglia di acquisire e possedere, né di accumulare ricchezze in senso materiale, tangibile, quanto l’eccitazione per sensazioni nuove, mai sperimentate prima. I consumatori sono prima di tutto raccoglitori di sensazioni: sono collezionisti di cose solo in un senso secondario e derivato» (Dentro la globalizzazione, Laterza, p. 93). Il corpo umano diventa dunque un vero e proprio recettore di sensazioni. Poiché però le sensazioni sono necessariamente vissute in maniera diversa dai singoli individui, non sono misurabili in modo oggettivo e creano ansia a causa della paura di non riuscire ad arrivare allo stesso livello degli altri.