Camus e la meccanica quantistica

21 Gennaio 2024

La crescente passione del pubblico per la fisica potrebbe trovare una qualche spiegazione nel surplus immaginativo che questa disciplina può permettersi. Sostenuta da formalismi di tutto punto e da comprove sperimentali che ne confermano pressoché tutte le previsioni, quando la fisica si consente di superare l’ambito del testabile può certo permettersi di stupire, nella ben riposta speranza che di qui a qualche decennio quanto detto verrà verificato. Così, chi ama perdersi nelle tentacolari spire delle molte teorie concorrenti troverà ogni sorta di universo, da quello in cui gli oggetti non esistono (là dove esistono solo particelle subatomiche) a quello in cui ogni singolo elettrone è dotato di una mente (nella misura in cui dà luogo a fenomeni quantistici). E dalla negazione della realtà ordinaria, almeno per come restituitaci dai sensi, al pampsichismo, la fisica teorica sembra riabilitare le proposte più fantasiose che il canone filosofico aveva saputo seppellire nelle sue macerazioni razionaliste. 

Il dubbio è se non si sia un po’ troppo indulgenti verso questa naturale attitudine alla speculazione non supportata da esperimenti, se cioè questo abuso di fantasia non tenda a esaltare la pretesa della fisica di farsi nuova filosofia con ciò erodendo però la durezza della fisica come scienza. Non sorprende quindi che divulgatori raffinati come Jim Baggott, Sabine Hossenfelder o Peter Woit lamentino la tendenza di molti loro colleghi a seguire le più astruse perversioni delle loro ipotesi, specie quando producono rotture flagranti con il modo in cui noi esseri umani vediamo il mondo. In ciò, d’altro canto, seguono un esempio insigne: già da metà Novecento si ripete a più riprese il giudizio ingrato e stentoreo “non solo non è giusto: non è nemmeno sbagliato” con cui Wolfgang Pauli, uno dei decani della fisica novecentesca, in ben due occasioni stroncò sul nascere le tendenze speculative dei suoi più giovani colleghi Ernst Stueckelberg e Hugh Everett.

La radice del male, ad avviso di questi critici, è una fede divertita ma scellerata nel potere della matematica – valutazione condivisa dal fisico teorico e divulgatore svedese Ulf Danielsson, che nel suo Il mondo in sé. La coscienza e il tutto nella fisica (Einaudi 2023) offre una nuova argomentazione in tal senso. Il libro, che si compone di otto capitoli, tratta di temi assai controversi in differenti ambiti del sapere, dalla struttura dell’universo all’intelligenza dei computer sino alla vexata quaestio del libero arbitrio. Il suo cuore pulsante, tuttavia, è la differenza di genere, non di grado, che per l’autore sussiste tra modelli e realtà

In fisica, e discipline affini, un modello corrisponde alla descrizione di un fenomeno per mezzo di idee e concetti – in genere formalizzati in senso matematico – volta a cogliere gli elementi essenziali del fenomeno stesso. Un modello è una struttura che offre una rappresentazione, sintetica e approssimata, della realtà fisica (o di un suo sotto-insieme) attraverso il ricorso a opportune e giustificate idealizzazioni. Per fare un esempio, quando in meccanica classica si studia la traiettoria che una biglia, sollecitata dalla spinta di una stecca da biliardo, segue sul tavolo da gioco, si adotta il cosiddetto modello del punto materiale: sebbene la biglia abbia una struttura estesa, le cui componenti occupano via via posizioni spazio-temporali differenti, la si tratta come fosse un punto matematico, inesteso, che traccia una linea nello spazio delimitato dal tavolo da biliardo. Al netto del fatto che una descrizione più accurata richiederebbe di tracciare l’evoluzione temporale delle singole componenti della biglia, il modello del punto materiale offre in questo caso una descrizione assai semplificata ma soddisfacente del fenomeno in esame. 

Come nota nella sua prefazione Claudio Bartocci, l’adesione al lessico del modello rispetto a quello più ipertrofico della teoria rende esplicita una studiata professione di umiltà. Ragionare per modelli allude alla pretesa non tanto di spiegare “come funzionano le cose”, quanto “di indicare che, relativamente a un ben circoscritto insieme di fenomeni e con una certa approssimazione, le cose funzionano come se” (pp. X-XI). E, di nuovo, è il termine “approssimazione” che segna lo scarto tra modello e teoria, nella misura in cui il modello, di contro alla sua più superba sorella maggiore, non suppone di ricalcare il mondo. Ammette piuttosto di forzarlo in taluni tratti, di introdurre astrazioni, di rinunciare a certi gradi di dettaglio, per ricavarne vantaggi in termini di trattabilità e, auspicabilmente, di comprensione e predizione. In effetti, persino la relatività generale e la meccanica quantistica, le due teorie che ad oggi godono del tasso più invidiato di convalide, introducono una serie di assunti indimostrati e astrazioni che, con tutta probabilità, sono all’origine del loro perdurante conflitto. 

Il libro di Danielsson potrebbe quindi leggersi come un richiamo alla natura astrattiva del modello, ovvero al grado di aderenza sempre relativa che può vantare con ciò che descrive. Così, i suoi colleghi che, con la sconsiderata inflazione di elementi fantastici, offrono teorie divertenti e al contempo inquietanti, non sono in malafede. Piuttosto, come per un abbaglio che sa di psicosi, confondono il modello con la realtà.

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In questa chiave Il mondo in sé può essere letto anche come risposta al suo collega e compatriota Max Tegmark e alla popolarissima ipotesi del multiverso da lui elaborata in L’universo matematico. La ricerca della natura ultima della realtà (Bollati Boringhieri 2014). Il libro di Tegmark, che può vantare un qualche successo, persevera in quella moltiplicazione di mondi che deriva da una delle interpretazioni più ardite della meccanica quantistica. All’inizio di L’universo matematico, il diciottenne Max Tegmark è coinvolto in un serio incidente automobilistico e muore. Della morte di questo ragazzo parla il Tegmark adulto. Secondo l’ipotesi del multiverso, quel giorno il ragazzo morì e non morì. Ma non basta, perché si verificarono in effetti tutti i possibili esiti dell’infausto evento: tanti gli esiti possibili, tanti i mondi prodotti. 

L’ipotesi in questione nasce da una specifica interpretazione della cosiddetta funzione d’onda, che in meccanica quantistica descrive lo stato di un dato sistema fisico come “sovrapposto” finché non si effettua un esperimento. Detto in termini molto semplici, prima che nell’ambito di un esperimento si cerchi di osservare un elettrone, esso non è dotato della struttura puntiforme che siamo soliti attribuirgli. In effetti, sin dai suoi esordi la fisica quantistica abbandonò l’idea secondo cui l’elettrone in ogni momento in cui non è osservato si muove a una certa velocità e occupa certe posizioni (come la biglia di cui sopra). Piuttosto, quando non osservato, l’elettrone, meglio pensabile come un’onda diffusa nello spazio, è in una sovrapposizione di ogni possibile posizione in cui potremmo trovarlo con il nostro esperimento, e non assume nessuna posizione specifica fino a quando non lo osserviamo effettivamente. Il termine sovrapposizione, in altre parole, non indica nient’altro che la combinazione di tutte le posizioni che potrebbe occupare secondo una determinata probabilità. 

Se ancor oggi questa peculiarità della fisica quantistica genera dibattiti e controversie d’ogni sorta, nel 1957 il fisico statunitense Hugh Everett tentò un’ipotesi fantasiosa ma perfettamente in linea con i formalismi. Nella sua interpretazione, il nebuloso fenomeno della sovrapposizione deve spiegarsi come segue: prima dell’effettuazione dell’esperimento, esistono nel mondo un elettrone e un osservatore; ma quando l’osservatore fa il suo mestiere e osserva, e così interagisce con l’elettrone, si producono tanti mondi quante le possibili posizioni in cui l’osservatore può trovare l’elettrone. Ad ogni fenomeno quantistico, il mondo si ramifica in molte direzioni. Max Tegmark è tra i fisici che ritengono quella di Everett l’ipotesi interpretativa più credibile e in grado di sciogliere i presunti misteri della meccanica quantistica. Come spiega in L’universo matematico, gli universi paralleli che via via si ramificano si trovano, separati gli uni dagli altri, in uno spazio vettoriale che consta di infinite dimensioni. 

Secondo Danielsson, questa interpretazione della meccanica quantistica potrà dare un qualche conforto psicologico (“una via di fuga da questa realtà che sembra troppo piccola e angusta” – p. 35) nella misura in cui l’esito infelice di un evento corrisponde, in un altro universo, al suo esito opposto. Eppure, in nulla aiuta a comprendere l’universo in cui viviamo – per Danielsson, l’unico davvero dotato di esistenza. L’errore di Tegmark, a suo giudizio, deriva proprio dal seguire le traiettorie abbacinanti segnate dalla matematica quando il modello cerca di farsi tornare i conti per spiegare ogni singolo aspetto che risulti ancora indecifrabile: un’adesione fideistica alla capacità del modello di fare da segugio e svelare ogni segreto del nostro mondo, senza tenere in alcun conto il senso di supponente divinazione di cui un’ipotesi s’ammanta quando dimentica la propria contingenza. Ed è proprio sul carattere contingente di qualsiasi ipotesi teorica che Danielsson dice qualcosa di profondamente ragionevole, perché la sua origine ha luogo nell’incontro di esseri incarnati, dotati di un apparato motorio e sensoriale, con la vastità dell’universo: qualcosa rimarrà sempre fuori dalla nostra capacità di comprensione, proprio per lo scarto che sussiste tra la nostra finitezza e l’intricatissima complessità dei fenomeni fisici e biologici. 

Insomma, la nostra esperienza è sempre, immancabilmente, segnata dai confini della nostra struttura organica. L’essere umano percepisce il mondo e prova a darsene ragione entro una dimensione che in filosofia si definisce di situatezza, segnata com’è dalla corporeità e dalla limitatezza nel tempo: “Siamo esploratori intrappolati nei nostri corpi organici o, meglio, non siamo altro che i nostri corpi organici” (pp. 140-141). Il richiamo di Danielsson, dunque, non è tanto a una fisica meno strafottente, quanto all’idea secondo cui il fare teoria, in qualsiasi disciplina, è sempre soggetto a quelle determinazioni organiche da cui l’essere umano non può separarsi. Tutte le ipotesi più strabilianti nell’ambito della fisica e delle scienze cognitive – che vogliano moltiplicare i mondi o rendere la nostra coscienza un effetto di pura computazione – derivano dalla messa in mora del dato tutto esistenziale che Martin Heidegger, espressamente richiamato dal fisico svedese, definì “gettatezza”, cioè quel senso di un’esistenza mai separata dalle condizioni che ci rendono già sempre umani. 

In questa chiave, chi scrive non capisce del tutto se l’invito ultimo di Danielsson sia quello, per così dire, di non negare l’evidenza, nel suo senso però strettamente filosofico, ossia quel dato immediato di natura percettiva o intuitiva, che ci dota di alcune basilari informazioni su come è fatto il nostro mondo, con il suo spazio, il suo tempo, la sua unicità e i suoi eventi materiali. Un mondo che giocoforza differirà da quello del polpo e del capibara, la cui fisica e i cui modelli saranno tanto diversi dai nostri quanto diversa è la strutturazione organica dei loro corpi e dei loro sistemi percettivi. Non c’è in effetti una vera e propria confutazione dei modelli ritenuti eccedenti per le loro proclività matematizzanti o per le conclusioni estreme rilegate alla natura astratta delle ipotesi. C’è piuttosto un senso di realistica accettazione dello scacco: “Tutti i modelli hanno dei limiti che, una volta raggiunti, portano a nuove domande” (p. 150). Domande che devono considerarsi effetti forse indesiderati ma ineliminabili della nostra umana limitatezza: “Potrebbero esserci fenomeni che saranno per sempre al di là della nostra portata” (p. 151).

In questa chiave, il testo di Danielsson è assai raccomandabile, specie quando fa sintesi di questioni attuali e complesse con le doti del divulgatore esperto che mai banalizza. Per chi però, come la scrivente, ama le spericolatezze immaginative dei suoi colleghi più sbarazzini, la domanda che residua è se, per comprendere i nostri limiti e le nostre limitatezze, non convenga piuttosto leggere Camus o al meglio Cioran. 

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