Trionfi e compromessi della fisica

19 Luglio 2023

Uno dei limiti più vituperati della politica d’oggi è che si compiace di governare la realtà anziché tentare di mutarla. Non che manchino gli sforzi di comprenderla, data la messe di studi traboccanti dati e di ricerche colme di minuzie in ogni ambito della nostra vita. Eppure, l’uso di queste nell’ambito della politica si limita a offrire strumenti tesi a ridurre il carico delle incombenze di chi governa e a ridurre un poco le tribolazioni di chi è governato. Da qualche decennio, la politica sembra aver dismesso la sua potenza immaginifica – quella che si prefiggeva di scolpire il reale lungo l’asse prospettico di un ideale. Un simile ridimensionamento delle pretese, secondo alcuni, caratterizzerebbe oggi molti ambiti del sapere che, quantunque non direttamente votati alla trasformazione del reale, nei secoli passati vi hanno se possibile contribuito persino più che le decisioni politiche. In particolare, la fisica contemporanea sembra farsi ancella della tecnologia, tesa com’è a perfezionare strumentari tecnici che pretendono di migliorare pressoché ogni aspetto della nostra vita. 

Se facciamo un balzo all’indietro di cento anni, le tendenze sembrano opposte, persino estremizzate, nel bene e nel male. Nel male, perché la politica davvero s’era messa in capo di trasformare il mondo in un senso che oggi ci orripila e strania. Nel bene, perché proprio nel momento in cui si credeva che la fisica avesse raggiunto il suo limite estremo, si compirono salti così rilevanti da produrre una trasformazione del mondo senza precedenti. Ed è proprio l’intrecciarsi di questo duplice filo, di una politica dissennata e di una fisica che si apriva a nuove e sorprendenti scoperte, il cuore di Una nuova idea del mondo. Il periodo d’oro e gli anni bui della fisica (1895-1945), di Tobias Hürter (Mondadori 2022). Di questo trasmutare radicale e ancipite, capace di combinare il volto filosofale di una scienza che voleva penetrare ogni segreto della natura e quello demoniaco di una politica che voleva usare una scienza al fine unico del controllo e dello sterminio, non c’è figura più emblematica del fisico tedesco Werner Karl Heisenberg, uno dei protagonisti del libro in discussione. 

Nato nel 1901 a Würzburg da una famiglia che incarna appieno i valori protestanti della Germania bismarckiana, Heisenberg viene sin da subito sottoposto a un confronto puntuale ed estenuante con il fratello maggiore Erwin, di maggior successo nelle discipline scolastiche e sportive, con la sola eccezione della matematica. Gli Heisenberg si trasferiscono poi a Monaco nel 1910, a seguito della chiamata del padre quale docente universitario di lettere classiche. Ed è a Monaco che, subito dopo la fine del primo conflitto mondiale, Werner farà, proprio grazie al padre, uno degli incontri decisivi per il suo futuro di studioso: per avere un qualche indirizzo nei suoi studi universitari, viene propiziato un colloquio con l’allora notissimo fisico teorico Arnold Sommerfeld, esponente di punta della fisica atomica e dell’ancora imberbe teoria dei quanti. La fisica matematica, di cui Sommerfeld è raffinato esemplare e promotore, segnerà lo stile e la carriera di Heisenberg quale accademico e pensatore.

Un secondo, ma certo non meno decisivo, incontro per Heisenberg sarà quello, a distanza di pochi anni, nel giugno del 1922, con il fisico danese Niels Bohr. Quest’ultimo, che avrebbe nel volgere di poche settimane ricevuto il premio Nobel per i suoi studi sulla struttura dell’atomo, proveniva da una ricca e colta famiglia danese, attorno a cui gravitava un gruppo di studiosi e intellettuali di varia estrazione. Tale privilegiato contesto di appartenenza aveva consentito a Bohr di realizzare nel 1921 un istituto di fisica teorica a Copenaghen – istituto che avrebbe ospitato la più parte dei protagonisti della nascenda teoria. Nel 1922 Bohr sceglie di tenere un ciclo di conferenze, poi ribattezzato “festival bohriano”, nella città di Gottinga. Al festival, cui prendono parte moltissimi studiosi provenienti dall’intera Europa, Bohr presenta le sue idee in merito all’ordine degli elementi nella tavola periodica: l’ipotesi, sviluppata a partire dal suo primo modello atomico, è che gli atomi siano dotati di strutture elettroniche a guscio e che pertanto elementi caratterizzati dallo stesso numero di elettroni nello strato più esterno presentino identiche proprietà chimiche.

Per quanto affascinanti, le idee e le lezioni di Bohr mancano di rigore matematico e attenzione per i formalismi. Così, Heisenberg si trova a sollevare alcuni punti critici che costituiranno la premessa di un lungo e fertile sodalizio tra i due. La teoria dei quanti, che aveva preso avvio da un manipolo di studiosi intenti a risolvere alcune incongruenze sperimentali emerse a cavallo tra i secoli XIX e XX, verrà, anche grazie a questo incontro, portata alla sua versione più matura e autorevole. Naturalmente, Bohr invita il giovane fisico tedesco nel suo istituto danese. Nel frattempo, alcuni cupi eventi lasciano intuire tutte le difficoltà del contesto politico nella Germania degli anni Venti: il 24 giugno 1922, a soli due giorni dalla fine del festival bohriano, il ministro degli Esteri Walther Rathenau viene assassinato con colpi d’arma da fuoco da un gruppo di studenti di estrema destra. Sono anni difficili, di relativa stabilità, ma di ricorso massiccio a strumenti invasivi, come lo stato di eccezione, che favoriscono il lento ma progressivo irrobustirsi delle fazioni più estreme della destra e della sinistra. Ma a questa altezza siamo ancora lontani dagli anni in cui Heisenberg dovrà compiere quelle scelte le cui circostanze saranno dettate in primo luogo da una fondamentale ambiguità nei riguardi degli eventi politici.

Dopo un anno di soggiorno in Danimarca, è nel maggio del 1925 che si colloca il punto di svolta nella teoria cui massimamente contribuisce Heisenberg. Come molti fisici del tempo, egli si andava interrogando sulla meccanica delle orbite degli elettroni all’interno delle strutture atomiche e in particolare sui processi responsabili delle linee spettrali registrate dalla fisica e dalla chimica dell’epoca. Lo spunto gli viene da una considerazione di Wolfgang Pauli, altro dotatissimo studente di Sommerfeld, secondo cui l’unica possibilità per valutare quanto accade all’interno di un atomo sia per via di una misurazione. E così Heisenberg giunge a un’idea che costituirà un punto di non ritorno per la fisica del Novecento: le transizioni da uno stato quantico “osservabile” a un altro vanno predette attraverso metodi matematici che non debbono curarsi di stabilire quanto accade nel mezzo. Il punto, come si diceva, è di non ritorno, perché costituisce l’intuizione che fa perno all’interpretazione ancor oggi dominante della meccanica quantistica: si deve rinunciare a studiare alcune proprietà non osservabili, per tentare piuttosto “di elaborare una meccanica quantotecnica analoga alla meccanica classica, in cui compaiono soltanto relazioni tra grandezze osservabili” (p. 127). 

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Werner Karl Heisenberg.

Si tratta di un’evoluzione teorica che merita qui una breve glossa. Rispetto a un più tradizionale e confortevole realismo, secondo cui è possibile osservare la realtà per offrirne una descrizione quanto più fedele in ogni suo passaggio, Heisenberg avanza ingombranti sospetti circa l’esistenza di una realtà oggettiva in attesa di descrizione. Se non c’è un mondo che sta lì dinanzi agli occhi di chi fa ricerca perché questi ne possa offrire un ritratto fedele, tutto quanto la fisica può descrivere è il modo in cui essa stessa, grazie al suo complesso strumentario tecnico-matematico, effettua misurazioni. 

Tra i critici di questo invito a ripensare lo statuto della fisica come scienza degli strumenti, più che scienza del reale, va annoverato Albert Einstein, che trova l’osservabilità utile dal punto di vista euristico, eppure tutt’altro che soddisfacente sotto il profilo di una teoria completa, vale a dire capace di spiegare il funzionamento dell’universo in ogni suo stato. Dietro una tale divergenza, al di là dell’evidente spaccatura sul ruolo della scienza rispetto alla realtà, c’è un orientamento di maggiore o minore fiducia nei confronti della matematica. Se per Einstein quest’ultima è supporto indispensabile, eppure mai guida unica verso il vero, per il più giovane collega non c’è altro che la matematica, ovvero ciò che consente di effettuare le misurazioni (il che, se si vuole, implica quel quanto di petizione di principio, come a ragione ribatteva Einstein, perché è la teoria, matematica o meno, che delimita ex ante la regione dell’osservabile). A fine anni Venti, una simile spaccatura sulla concezione teorica di sfondo, e in particolare sul ruolo cardine dei formalismi, complica il rapporto tra Heisenberg e Bohr, il quale ultimo è assai più laico circa l’indefettibilità della matematica, e per certi versi si convince del fatto che la fede del suo giovane protetto nei numeri tradisca una scarsa familiarità con i problemi di fondo della filosofia. Ciononostante, pur dinanzi a un dissenso che mai troverà rammendo, Bohr accoglie il nucleo forte dell’intuizione di Heisenberg. Come ha reso noto il più celebre incrociar di spade nella fisica di tutti i tempi, quello tra Einstein e Bohr al Congresso di Solvay del 1927, il fisico danese fa sua l’idea secondo cui la teoria quantistica non rende conto di quel che una particella fa quando non viene osservata, ma solo della sua interazione con chi la osserva mentre la osserva. Detto in termini semplici, la teoria non è descrizione, ma strumento: marchingegno per operare sul reale, che su questo non dice alcunché di vero, ma registra gli effetti prodotti. 

Chiusa la dovuta glossa, torniamo al libro di Hürter. Sono proprio quelli gli anni in cui l’esasperarsi delle vicende politiche, eccitate dalle follie totalitariste, provocherà una diaspora che determinò forse la più grande spaccatura nella storia della fisica. Il pacifista e professato apolide Einstein individua senza infingimenti la rottura inesorabile determinata dalla presa del potere dei nazionalsocialisti, che segnò la fine dell’esperimento socialdemocratico della repubblica di Weimar. Come molti altri, Einstein trova riparo all’estero per ingrossare le file di quelle figure, centrali in ogni campo della cultura europea, che per volontà propria o forzatamente valsero come inattesi innesti nelle culture nazionali degli Stati ospiti, capaci di produrre nuove e rigogliose messi. Nel campo della fisica, tuttavia, le messi sono certo ricche ma assai meno felici, dato che, di lì a poco, tutte le energie di questi migranti del sapere verranno reimpiegate nella gara mortifera per la produzione dell’arma letale in grado di segnare le sorti del conflitto.

Hürter segue le tracce dei protagonisti più significativi di questa diaspora, ma non sorprende che la sua lente, a metà tra lo storico e il cronachistico, prediliga quegli elementi di ambiguità che su tutti la condotta di Heisenberg rende evidenti – le ambiguità cioè insite in un conflitto mai sanato tra la sete di un sapere che vuol pensarsi neutrale rispetto ai propri effetti e un costante tentativo di salvare la coscienza, o quantomeno le apparenze. Il libro mostra come Heisenberg viva con preoccupazione il progressivo infiltrarsi delle pratiche di indottrinamento della propaganda nazista, che mira all’interiorizzazione massiccia e su larga scala del valore salvifico dell’obbedienza al Führer. Il dubbio morale rispetto alla pratica di avviare ogni lezione con il celebre e triste saluto, scrive Hürter, viene ampiamente sopravanzato dalla certezza, corroborata da Max Planck, celebrato decano della fisica tedesca, che un fisico di più provata lealtà al regime, e certo di inferiore qualità teorica, oltre che morale, l’avrebbe presto sostituito. L’atteggiamento ondivago di Heisenberg rimane comunque al centro delle polemiche tra i quadri del regime, i cui vertici però non possono rinunciare a colui che solo avrebbe potuto segnare la svolta nelle ricerche sul nucleare. A chi tra i suoi colleghi all’estero solleva il problema etico e politico connesso al rischio di armare un folle dittatore, il fisico tedesco ribatte con l’elusiva convinzione che il regime nazista sarebbe finito ben prima della messa a punto della bomba e che, inoltre, nella sua posizione di collaboratore a mezzo servizio, avrebbe potuto avere piena contezza dei concreti avanzamenti su quel fronte in campo tedesco. 

Nel maggio del 1945, Heisenberg e famiglia brindano alla morte di Hitler, ma questo gesto di abluzione privata non dissipa le nebbie raccoltesi intorno alla sua condotta. Viene sollevato dall’incarico universitario e prelevato assieme agli altri scienziati tedeschi fedeli al regime, impegnati nella corsa agli armamenti. Nel frattempo, apprende del successo dei colleghi di stanza negli Stati Uniti e di nuovo prevale l’ossessione per i numeri e la loro verifica, perché non si capacita della maggiore rapidità dei suoi amici d’un tempo. La forza euristica della matematica soverchia in lui l’opportunità di una più ampia comprensione delle sue scelte e delle sue azioni, che avrebbero potuto segnare un esito della guerra opposto e tragico per l’intero pianeta. In questo le pagine di Una nuova idea del mondo sono particolarmente felici, là dove mostrano come il fascino per i formalismi possa scalzare l’obbligo teorico, persino prima che morale, di comprendere che dietro una cifra si celano sempre degli effetti. Senza moralismi, né giudizi facili su chi era in condizioni oggettivamente complicate – ché qui non si è né scrutatori di cuori né giudici postumi – sarà utile trarne una morale, semplice quanto si vuole eppure mai del tutto appresa: non c’è numero che possa essere neutrale, né calcolo che di per sé offra la chiave per la comprensione del mondo. Su questo, aveva ragione Einstein: ogni forma o formula che pretende dischiudere il vero rispetto al vero dell’esperienza umana conserva in sé, ben custodito, un germe di fascismo.

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TAGGED: Tobias Hürter

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