Carlo Rovelli, Buchi Bianchi. Dentro l’Orizzonte 

6 Marzo 2023

Nessun oggetto ci appare tanto affascinante quanto quello di cui non si può predicare con certezza l’esistenza. Oggetti puramente ipotetici, la cui presenza al mondo è il presupposto di un quadro che, altrimenti, non tornerebbe. Come fosse una fucina inesauribile di oggetti di tale natura, la fisica non ne lamenta mai la carestia; e chi la pratica, specie in quella zona di confine che è la fisica teorica, partecipa a una sorta di gara senza sosta per rinvenire l’oggetto al contempo più inconcepibile e meno dispensabile. La storia della disciplina è costellata di agnizioni tarde: entità che erano poco più che corollari di grandi teorie, o che persino venivano ipotizzate dai detrattori di queste al solo fine di produrne una smentita, hanno trovato il supporto di una comprova sperimentale solo a decenni di distanza dalla loro genesi speculativa. Il repertorio è ricchissimo, e basterà menzionare fenomeni fisici probabilmente ben noti a chi legge, come l’entanglement quantistico, il bosone di Higgs o le onde gravitazionali. Una di queste entità, che vanta ad oggi un carattere puramente congetturale, eppure si cinge della robusta corazza di esito rigoroso della teoria della relatività generale, è il buco bianco. Nel suo recentissimo libro, Buchi Bianchi. Dentro l’Orizzonte (Adelphi 2023), Carlo Rovelli ne propone un’intrigante apologia.

Come per altre sue opere, Buchi bianchi gode di una struttura tripartita. La sezione iniziale fissa, con un rapido excursus storico, i preamboli della trattazione successiva, ovvero si concentra su quella serie di sviluppi della relatività generale che hanno condotto all’avventizia ipotesi, prima, e all’insperata e infine acclamata osservazione sperimentale, poi, dei cosiddetti buchi neri. In effetti, come ricorda l’autore, l’esistenza di questi oggetti, che pure erano previsti dalla teoria, non era affatto scontata, se è vero che, ancora nel 2000 – allorché egli si trasferì in Francia a seguito delle sue molteplici peregrinazioni d’oltreoceano – il Direttore di Dipartimento dell’Università di Marsiglia ironizzava con un certo grado di scetticismo su una loro possibile rivelazione (p. 27). 

Nella seconda sezione si ripercorre l’insieme di considerazioni, tentativi e speculazioni che, dalla collaborazione di Rovelli con il fisico statunitense Hal Haggard, li condusse a tentare di estendere il campo dei possibili, ipotizzando cioè l’esistenza di oggetti fisici con proprietà speculari rispetto ai buchi neri, appunto i buchi bianchi. Ad oggi si tratta di un’affascinante ma pur sempre congetturale proposta, dai tratti fortemente immaginifici, anche perché sotto il profilo osservativo, come vedremo, buchi neri e buchi bianchi sono tra loro indistinguibili. 

La terza sezione – tra tutte la più originale, quale marchio di fabbrica rovelliano – affronta alcuni dei temi che hanno reso noto il fisico veronese al grande pubblico (il tempo, l’entropia, il rapporto tra queste nozioni e il concetto di irreversibilità, l’informazione), secondo la declinazione identificata come “relazionale”. Quest’ultima frazione del testo articola il tentativo di avallare, quantomeno sotto il profilo concettuale, la plausibilità di un’ipotesi tanto ardita qual è quella di avanzare l’esistenza di oggetti analoghi ai buchi neri, ma, in sintesi, caratterizzati da un’inversione della variabile temporale. Ed è qui che la prospettiva relazionale si fa dirimente: relativizzare in senso prospettico il tempo, e in particolare la distinzione che nell’accezione comune esso implica tra un passato definito e inoperabile e un futuro aperto e disponibile, è secondo Rovelli la lezione più propria della relatività generale. In tale declinazione, “la differenza tra passato e futuro […] è un po’ come la differenza fra due direzioni geografiche” (p. 107): non si declina in forma assoluta, ma appunto locativa. Se le equazioni della relatività generale sono simmetriche rispetto alla variabile temporale, e se i buchi neri sono una delle possibili soluzioni di queste equazioni, esse devono contemplare l’esistenza di soluzioni con variabile temporale invertita, che corrispondono appunto ai buchi bianchi. Il punto controverso diventa così la spiegazione del rapporto tra questi due sistemi gemelli, evidentemente connessi, e in particolare il tipo di transizione necessaria per garantire un passaggio dall’uno all’altro – transizione che, aggiunge Rovelli, non sarebbe possibile se non si tenesse conto della teoria che ad oggi meglio sintetizza le interazioni su scala microscopica, la meccanica quantistica. 

Prima di provare ad abbozzare una seppur intuitiva descrizione di oggetti tanto esotici quali i buchi bianchi, sarà bene richiamare le proprietà dei loro corrispettivi più prossimi, certo non meno eccentrici eppure più familiari, non foss’altro perché empiricamente osservati e somministrati, a più riprese e su varie piattaforme, al grande pubblico. Appena pochi mesi dopo la pubblicazione, nel 1915, delle equazioni della relatività generale ad opera di Albert Einstein, il matematico e fisico tedesco Karl Schwarzschild avanzò una soluzione volta a descrivere quello che accade allo spazio e al tempo in prossimità di una massa.

Tale soluzione prevedeva che spazio e tempo tendono a incurvarsi in maniera tanto più significativa quanto più essa è rilevante: un sistema flette lo spaziotempo limitrofo in senso proporzionale alla propria massa, e questo fenomeno è responsabile, tra le altre cose, dell’attrazione gravitazionale che tale sistema esercita su altri sistemi a esso adiacenti. Lo spaziotempo di Schwarzschild prevedeva altresì uno scenario molto singolare: se il rapporto tra la massa di un sistema e il volume da esso occupato supera una soglia critica, ovvero se l’oggetto massivo viene particolarmente compresso, la soluzione delle equazioni di Einstein prevede che attorno a esso si formi una sorta di guscio, detto orizzonte degli eventi, che seziona lo spaziotempo in due regioni, tra di loro non connesse in senso causale.

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Sotto queste condizioni, la deformazione del tempo è tale da far sì che un orologio posto nelle vicinanze dell’orizzonte degli eventi rallenti sino a fermarsi, là dove lo spazio si incurva a formare una struttura a imbuto estremamente ripida. Tale risultato era a tal punto eccentrico da non incontrare il favore neppure dello stesso Einstein, cui da ultimo si doveva la loro, seppur embrionale, gestazione. Oggi si ha più di qualche motivo per credere che tali oggetti esistano, ed è ciò che identifichiamo come buchi neri, termine coniato dal fisico statunitense John Wheeler nel 1967. 

Sebbene la formazione di un buco nero sia resa possibile dal superamento della soglia critica definita da Schwarzschild – quindi, in linea di principio, anche nel caso di un oggetto non particolarmente massivo, purché estremamente compresso – la più parte dei buchi neri sinora rintracciati segue le fasi terminali di stelle “esauste”, stelle che hanno cioè smesso di bruciare. Normalmente, l’enorme peso della stella, che la porterebbe a collassare su sé stessa, viene controbilanciato dal calore prodotto per convertire l’idrogeno, di cui la stella è composta, in elio. Quando l’idrogeno a disposizione si esaurisce, la temperatura inizia progressivamente a diminuire e così il peso a gravare sull’economia della stella. Sotto particolari condizioni, l’evoluzione della stella suddetta segue un collasso, così portando alla formazione di un buco nero.    

Per intendere l’ipotetico passaggio da buco nero a buco bianco, è importante precisare la geometria spaziale del primo. Come si diceva, un buco nero può essere inteso come una struttura a imbuto, che via via si allunga, divenendo più stretta e ripida, al cui termine si trova la stella che collassando vi ha dato origine. Nei punti più estremi di tale struttura, là dove la deformazione spaziotemporale risulta particolarmente imponente, ci aspettiamo che le equazioni di Einstein non siano più sufficienti a rendere conto del fenomeno fisico in corso, e devono evidentemente intervenire effetti quantistici. Senza poter qui entrare nei dettagli di un resoconto intricato ma reso sempre accessibile dalla scrittura di Rovelli, regolare e quasi spontanea, è in prossimità di tali condizioni estreme – allorché la teoria della relatività generale perde di pregnanza – che si dà la possibilità di una transizione da buco nero a buco bianco; come se, raggiunta la soglia del regime quantistico, la struttura smettesse di allungarsi e restringersi, e viceversa invertisse, in un ipotetico rimbalzo, la propria evoluzione, così prendendo ad accorciarsi e allargarsi, ripercorrendo tutte le tappe al contrario: questa, in una sintesi che certo non rende giustizia al fenomeno, la genesi e l’evoluzione di un buco bianco.  

Ora, pur non volendo considerare il notevole grado di speculazione di una simile congettura, la questione ha da porsi in termini più prosaici. Se è vero che un buco bianco è perfettamente descritto dalle equazioni di Einstein, poiché corrisponde alla stessa soluzione di un buco nero a patto di ribaltare la variabile temporale (“un buco bianco è il modo in cui apparirebbe un buco nero se potessimo filmarlo e proiettare il film al contrario”, p. 65), il problema, invalidante sotto il profilo di una sua eventuale osservazione sperimentale, è che l’esterno di un buco bianco non differisce in alcun modo dall’esterno di un buco nero. Detto altrimenti, osservati da fuori, un buco nero e un buco bianco “si comportano esattamente nello stesso modo: sono entrambi masse che attirano con la forza di gravità” (p. 80). Una delle questioni che andranno chiarite negli sviluppi futuri di tale proposta riguarderà proprio la definizione di una qualche strategia per superare una simile impasse

Ma si sa, la fisica teorica non intrattiene con la sperimentazione un rapporto subalterno di ipotesi vs. verificazione. Si tratta innanzitutto di uno spazio immaginativo, in cui il linguaggio della disciplina estende le proprie frontiere al di là di ciò che al momento le sue inevitabili sclerosi non rendono dicibile. In questo mestiere, che nell’arte della retorica si direbbe in primo luogo di inventio, ovvero l’imbastitura degli argomenti e la loro organizzazione per l’esposizione di un pensiero formando, Carlo Rovelli è senza dubbio tra i fuoriclasse – tra coloro cioè che non si accontentano di esercitare la propria effervescenza in un solo campo, e il cui esercizio di pensiero è una corrente carsica capace di infiltrarsi, diffondersi ed espandersi senza strepito né clamore. Come nel caso della sua creazione più nota, la gravità quantistica a loop, poco importa che al momento non siano a disposizione strumenti di validazione empirica. Tutto quel che rileva è lo spazio creativo che ha aperto per tratteggiare linee di fuga verso un punto che al momento non è dato a vedersi eppure senza il quale la fisica sarebbe presto da archiviarsi nel faldone della storia della cultura. 

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