La conoscenza dalle origini all’Antropocene
Si credeva che l’ambizione e il coraggio per estendere la forza del concetto sull’intera storia dell’umanità fossero venuti meno con la fine del Novecento, e che a tener su la bandiera dei filosofi sistematici fosse rimasto solo il più che novantenne Jürgen Habermas, ancora impegnato in una imponente ricostruzione della genesi e dello sviluppo della filosofia occidentale – non fosse che, con la sua ultima monumentale opera, Jürgen Renn, direttore del Max-Planck-Institut für Wissenschaftsgeschichte, intende iscriversi nel canone dei pensatori della longue durée, accostando il proprio nome a una schiera robustissima di autori che va da Thomas Kuhn a Bruno Latour.
In effetti, il progetto che lo storico della scienza tedesco intende concretare nel suo recente L’evoluzione della conoscenza. Dalle origini all’Antropocene (Carocci, 2022) è una disamina a tutto tondo dei meccanismi evolutivi della conoscenza, con particolare attenzione alle tipicità di tale sviluppo nell’ambito dell’Antropocene – là dove uno degli assunti metodologici fondamentali è quello di inquadrare la storia della scienza come sedimento e manifesto di una più ampia storia del sapere umano e quindi dell’intera umanità.
Ma per capire fino in fondo un progetto che certo non pecca di minimalismo, occorre individuarne la linea di fuga, ovvero il punto prospettico da cui egli propone di ricostruire l’amplissima parabola sopra menzionata. Già a partire dall’introduzione, infatti, Renn tratteggia quelle ali estreme del dibattito storico-scientifico rispetto a cui intende presentarsi come terzo mediano, che presta l’orecchio a molti ma non ascolta nessuno. Detto altrimenti, egli fa propria la lezione più difendibile di queste posizioni, ma di entrambe ritiene chiuso il ciclo. Si tratta, per un verso, delle teorie che fanno esclusivo assegnamento sulle attività dei soggetti umani nella scienza, cioè coloro le cui costruzioni linguistiche articolano un sapere che degli oggetti fa pura materia inerte, incapace di parola; per l’altro, quelle posizioni che, all’opposto, pretendono di far emergere la capacità di azione degli oggetti, ma rischiano così di parificare questi ultimi alle attività cognitive-intenzionali degli esseri umani.
Il punto, secondo Renn, non sta tanto in questa pretesa opposizione tra soggetti e oggetti, che in effetti ha dominato gli ultimi due decenni del dibattito sulla sociologia della scienza, quanto nel sapersi improvvisare un po’ Münchausen: un gesto mediante cui la riflessione sulla scienza e sulla sua storia si trae da sé, afferrandosi per la propria coda, fuori dall’ambito angusto in cui, come ogni ambito specialistico, s’è scriteriatamente confinata. L’obiettivo, quindi, è quello di propiziare un’alleanza virtuosa tra ambiti del sapere in cui la teoria eserciti una rinnovata capacità espansiva, che sappia disconoscere i confini per andare “al di là delle contrapposte trincee che caratterizzano il dibattito attuale” e “tornare di nuovo alla sperimentazione” (p. 26).
Il problema, che non mi pare di secondo piano, è che una tale auto-ascritta forza più che euclidea di sollevamento da terra porta a un tasso di genericità riscontrabile in parte non irrilevante dell’intera argomentazione. Ma volendo qui improvvisarmi advocata diaboli, intendo percorrere la linea che, considerata l’area di specializzazione dell’autore, è in effetti la più convincente. Mi riferisco a quella sezione che rappresenta il nucleo centrale dell’intero impianto e che si occupa di offrire una ricostruzione della storia della meccanica, dalle sue espressioni più embrionali e intuitive – nell’ambito delle tradizioni europea, cinese e islamica – fino agli sviluppi più raffinati e avveniristici in teoria della relatività e meccanica quantistica.
La linea mediana adottata da Renn si traduce qui in un approfondimento non tanto delle particolari scoperte e delle specifiche ideazioni di singoli attori, quanto dei più ampi sviluppi sociali che rendono possibile “la trasmissione, l’accumulazione e l’innovazione delle scienze meccaniche” (p. 18). Ed è così che, dallo sforzo congiunto di un gruppo esteso di suoi collaboratori, Renn è riuscito – a partire dagli scritti dei primi anni Novanta del secolo scorso – a proporre una classificazione della storia della meccanica, dall’antichità alla scienza moderna.
Particolarmente indicativo, entro tale classificazione, è il caso della relatività generale. Chiunque abbia una pur rudimentale confidenza con l’epistemologia della scienza, sa bene che i processi trasformativi atti alla messa a punto, alla definizione e alla diffusione di nuovi paradigmi teorici richiedono la convocazione di una congerie di contesti, condizioni e attori non circoscrivibili entro le maglie strette del singolo.
Così, l’effetto di lunga durata della relatività generale non può essere ascritto ai risultati individuali di Einstein, ma deve essere ricondotto a un più ampio insieme di fenomeni – tra cui, il lavoro di una comunità sempre più estesa di scienziati, le particolari condizioni economiche e sociali del secondo dopoguerra, la progressiva specializzazione delle varie discipline – i quali tutti hanno contribuito alla transizione dalla fisica classica alla fisica contemporanea. Eppure, si deve riconoscere a Renn – complice la formazione dottorale in fisica matematica – il merito di aver dettagliato con meticolosa competenza i vari passaggi di una simile transizione.
Una prima fase consiste nella riorganizzazione concettuale di un sistema di conoscenza per mezzo di costruzioni intermedie volte a raccogliere e a risignificare tale sistema. Il periodo dal 1907 al 1915, che vide la genesi della teoria, ad opera di Einstein e pochi altri collaboratori, corrisponde a questa prima fase. A essa fa poi seguito un processo di limatura che tende a rifinire l’apparato concettuale sviluppato e a esplorarne i possibili campi applicativi: negli anni Venti, il cosiddetto periodo formativo della relatività generale, una piccola comunità di esperti andava investigandone i risvolti sulla fisica e sull’astronomia – si pensi, ad esempio, al fenomeno di deflessione della luce in presenza di un campo gravitazionale.
Infine, quando il nuovo formalismo viene acquistando autorevolezza e stabilità, le vecchie impalcature possono essere rimosse e il nuovo paradigma accolto. Superato un periodo di bassa marea, secondo l’espressione di Jean Eisenstaedt, che va dagli anni Venti fino agli anni Cinquanta, gli anni Sessanta assistono a una ripresa vigorosa della teoria, trainata nel suo rinascimento postbellico, secondo l’espressione di Clifford Will, prima, e nella sua età dell’oro, secondo l’espressione di Kip Thorne, poi: emergeva in quegli anni una nuova comunità di scienziati che aveva la relatività generale quale “principale preoccupazione professionale” (p. 491).
Insomma, se si volesse ricostruire il percorso di sviluppo della meccanica – questa la tesi che il caso esemplifica – sarebbe vano tentare di seguire solo i suoi ideatori, o i suoi eredi, o la messe di effetti cui ha dato luogo, o le innovazioni tecnologiche che ha permesso. Nessuna di queste variabili, se presa come oggetto privilegiato di ricerca, sarebbe in grado di restituire un movimento che, invero, è di rete, la quale si compone di nodi, il cui grado specifica il numero di connessioni che ciascuno di essi ha con altri nodi. Renn parla in tal senso di reti epistemiche, che annoverano dimensioni sociali, materiali e mentali.
Al di là della specifica natura di queste reti, interessante è il tentativo di coinvolgere nella ricostruzione teorica agenti tra loro essenzialmente diversi (ad esempio, un dibattito tra scienziati in conflitto, un articolo e il suo numero di citazioni, la lingua in cui l’articolo in questione viene scritto, la tecnologia che i suoi riutilizzi consentono di produrre) – o meglio, il modo in cui l’insieme di questi agenti innesca una reazione capace di coinvolgere altri nodi e di intensificare tra essi il legame, in modo tale da consentirsi una più ampia persistenza nel tempo.
Questo spiega perché non sia sufficiente, secondo un adagio più volte reiterato da Renn, il sapere sviluppatosi in un solo ambito scientifico: la conoscenza di ognuno di quei nodi necessita di un linguaggio tecnico-specialistico che consenta di mapparne movimenti e sviluppo; ma proprio perché ognuno di essi si connette ad altri nodi, i linguaggi tecnico-specialistici devono poter creare un’alleanza capace di esercitarsi collettivamente sull’intera rete entro una più ampia comunità epistemica. Il Leitmotiv, ribadito nelle conclusioni, è lo sforzo di “integrare le prospettive locali e trovare nuovi modi per combinare la ricerca mirata ai problemi con l’insegnamento e l’apprendimento all’interno e all’esterno dell’ambito accademico” (pp. 635-636), in modo tale da poter unire l’interesse squisitamente speculativo e ricostruttivo a una nuova consapevolezza degli effetti delle transizioni cui è esposto il sapere umano in questa complicata fase che è l’Antropocene.
E senza dubbio il libro fa risuonare un’ansia che credo segni più l’incapacità di presa degli attuali paradigmi che un loro effettivo superamento – come se pagina dopo pagina trasmettesse il senso che, dinanzi all’esplosione incontrollata dei centri di produzione del sapere, solo una mappatura 1:1 fosse in grado di restituirne in modo corretto il funzionamento e che proprio questa sorta di utopia della conoscenza dettagliata sia quanto di meno realizzabile al momento. Sicché, se certo il paradigma della rete rimane una delle più felici intuizioni dello scorso secolo in molte aree di ricerca, non è chiaro il grado di innovatività con cui Renn è in grado di farlo reagire su un campo intenzionalmente vasto come il sapere umano tout court.
Né è chiaro quale potrebbe essere la piattaforma inter-traduttiva sulla quale i vari ambiti specialistici potrebbero darsi a nuove forme di negoziazione e contaminazione reciproca. L’idea di altri assertori del paradigma delle reti, come ad esempio i sostenitori dell’actor-network theory (da cui in parte Renn prende le distanze), è che una tale piattaforma, semplicemente, non esista; sicché, secondo tale logica, assegnare un privilegio epistemico al linguaggio degli oggetti significa proprio dismettere la pretesa che la si possa trovare: ogni singola rete, come insieme di nodi particolari, sviluppa una propria dinamica e un proprio linguaggio, che la ricerca deve sforzarsi di far emergere. Si tratta probabilmente di una proposta troppo deflattiva per Renn. Eppure, proprio nel momento in cui egli si sforza di indicare una strada alternativa, quel che ci si ritrova tra le mani è una robusta ma tradizionalissima storia della scienza, che propone concetti altamente astratti e s’inguaina di un linguaggio specialistico, talora molto tecnico.
In buona sostanza, L’evoluzione della conoscenza si fa in tutto e per tutto erede della teoria novecentesca, quella che dà le vertigini e avanza pretese universali: certo meritevole della massima attenzione, ma nulla che faccia trasalire per grado di originalità – se è vero, com’è vero, che Renn stesso traccia un parallelismo tra il suo approccio e la più tipica delle scienze umane tardo-moderne, vale a dire la storia delle religioni. In conclusione, se si è in cerca di emozioni epistemologiche forti, si punti su altro. Se invece si vogliono indicazioni generali ma affidabili su come si conduce una ricerca nel campo della storia delle scienze, ci si avventuri pure per queste settecento pagine di robustissima teoria.