Cara Radio, ti scrivo

23 Aprile 2023

“Sì, la nostra vita era inadeguata, troppo flebile, troppo chiusa. Era davvero arrivato il momento di cambiare lingua. Di inventarci un nuovo alfabeto, un nuovo sguardo. Di ascoltare attentamente cosa il mondo aveva da dire, al di là dei telegiornali e degli slogan. E di provare a capire se qualcosa da dire al mondo ce l’avevamo pure noi”. Questi pensieri attraversano le menti dei giovani protagonisti di Radio Magia di Valerio Aiolli (Minimum Fax, 2022). Si chiamano Caputo, Toppa, Caio, Michele, Saracco, Il Gipo, Del Neri. Vivono la loro adolescenza nel pieno degli anni Settanta, muovendosi fra le strade di periferia di una grande città.  Si intrattengono con partite di calcio e atti teppistici, senza valutare le conseguenze nefaste delle loro azioni. Sono parte di una “generazione di scazzati”, di certo “troppo giovani per aver fatto il Sessantotto” e forse “troppo introversi per partecipare al Settantasette”. 

Ormai rassegnati a non essere visti, decidono di esplorare una possibilità diversa: farsi ascoltare. I mezzi a disposizione sono pochi, ma gli stenti non frenano la loro creatività. Scelgono di riunirsi in una vecchia cantina e di usare le frequenze di alcuni radioamatori per fondare una nuova emittente. Riescono a procurarsi dischi e dispositivi di fortuna, preoccupandosi anche di raccogliere fondi con inserzioni pubblicitarie. Si accontentano di “un paio di panche, vecchi tappeti, qualche cuscino”, usando un “pesantissimo pannello in truciolato” per isolare lo studio. Buttano giù una lista di programmi con titoli piuttosto convenzionali – Numero azzurro, Top of the hit, Sete di musica – proponendosi di iniziare le trasmissioni quotidiane alle 5 del pomeriggio, “come La TV dei ragazzi”. Danno vita a una piccola comunità sognante, desiderosa di diffondere nell’etere i suoi desideri, le sue ansie e le sue canzoni preferite. 

La scelta del nome della neonata radio non è semplice. È un periodo segnato da una forte tensione politica, da grandi manifestazioni di protesta, ma anche dall’uso della violenza. Le voci di contestazione si accompagnano ai rumori prodotti da schianti, esplosioni e sparatorie. I protagonisti del libro di Aiolli perseguono quindi un obiettivo chiaro: offrire al pubblico un rifugio acustico da un panorama sonoro troppo aspro per poter essere ascoltato. Desiderano “incantare il pubblico, farlo evadere da una realtà pesante, dalla lotta armata e dalle crisi di governo, dai lacrimogeni e dalle svalutazioni ricorrenti”. Seguono l’esempio di altre emittenti libere, capaci di stimolare la voglia di un mondo migliore senza essere imbevute dalla voglia di conflitto. Le proposte sono molteplici, ma finiscono per essere tutte bocciate: “Radio Nostra”, “Radio Vostra” (“troppo simile a una preghiera”), “Radio Tutto” o “Radio Nulla” (troppo “spaccona” o “nichilista”). Optano infine per Radio Magia, prendendo le distanze dalle sventure umane e dai loro aridi pragmatismi. 

La trama romanzesca costruita dall’autore prova a dialogare con un contesto storico complesso, segnato da profonde trasformazioni dell’ecosistema mediatico. Gli animatori di questa fabbrica di svago cavalcano un’onda che è nel pieno del suo flusso montante. Già negli anni precedenti aveva avuto inizio un processo di ridefinizione e riforma del mezzo radiofonico, dettato dalla necessità di intercettare il bisogno di partecipazione che attraversava la società italiana. La Rai aveva proposto le prime novità a metà degli anni Sessanta, grazie all’impulso del direttore Leone Piccioni, affidando a Renzo Arbore e Gianni Boncompagni la conduzione di Bandiera gialla, un programma “riservato ai giovanissimi”, pronto a dare spazio a prodotti musicali che fino a quel momento erano stati ignorati. Nel 1966 esordì Per voi giovani: fu ancora Arbore, questa volta in coppia con Maurizio Costanzo, a curare la diffusione del beat e del rock provenienti dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti. Nel 1968 prese avvio La Corrida, che offrì la ribalta a un gruppo di “dilettanti allo sbaraglio”, lasciando al pubblico il compito di giudicare le esibizioni migliori. Una svolta più netta si ebbe poi nel 1969 con Chiamate Roma 3131, che inaugurò il contatto diretto fra emittente e ascoltatori attraverso le telefonate. Insieme a Gianni Boncompagni, c’erano ai microfoni Federica Taddei e Franco Moccagatta: nel giro di pochi mesi, la trasmissione raggiunse un pubblico di 10 milioni di persone (stando alle stime del Servizio Opinioni), generando un entusiasmo senza precedenti. 

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Il rinnovamento, tuttavia, non rimase nei recinti dell’emittente di Stato. La voglia di sperimentazione cominciò a dilagare anche grazie all’iniziativa di soggetti autonomi, che si proponevano di immettere nell’etere le loro voci senza remore, anche in maniera clandestina. Nel 1970 – mentre Arbore e Boncompagni davano inizio alla celebre epopea di Alto gradimento, segnata dalla volontà di “assoluta evasione” – il poeta Danilo Dolci cominciò a trasmettere dalla Valle del Belice con la sua “Radio Sicilia Libera”, senza nascondere l’illegalità del suo operato. Ben lontano dal coltivare fini lucrativi o progetti imprenditoriali, Dolci intendeva usare il nuovo strumento per denunciare le iniquità del sistema socio-politico e per affermare la necessità di avere mezzi di comunicazione affrancati da privilegi e servilismi. L’avventura subì un brusco arresto per mano delle forze dell’ordine, ma aprì la strada a una stagione segnata dalla fioritura di numerose emittenti prive di vincoli, pronte a promuovere un uso più spregiudicato del medium e sostenute da una corposa base di consenso popolare. Un ruolo importante fu coperto dallo smembramento del concetto di palinsesto: le richieste del pubblico acquisirono la priorità, sopravanzando qualsiasi velleità di pianificazione da parte delle direzioni o dei conduttori delle trasmissioni. Altrettanto decisivo fu il cambiamento del metodo di raccolta pubblicitaria, fondato su un circuito di inserzioni locali, molto appetibile per piccoli operatori commerciali in cerca di visibilità. 

Nate come provocazioni verso i poteri costituiti, le nuove radio libere divennero realtà consolidate nel corso degli anni Settanta, con più di 900 stazioni attive fra centri urbani e periferie, capaci di raggiungere anche zone meno coperte dai segnali televisivi e da altre forme di comunicazione di massa (come il cinema). Anche in altri paesi il fenomeno assunse contorni vistosi: nel Regno Unito le emittenti slacciate dal monopolio statale cominciarono a trasmettere da navi ormeggiate al di fuori delle acque territoriali e indussero i governanti a emanare un atto legislativo – il “Sound Broadcasting Bill” – per imporre al mercato mediatico delle regole precise. In Italia la loro fortuna crebbe grazie a un’originale combinazione fra radicamento territoriale, spinte movimentiste e ragioni commerciali. Le esperienze di Radio Popolare a Milano o di Radio Alice a Bologna sono solo le più note all’interno di un arcipelago che, pur essendo variegato, presentava dei tratti comuni: una generazione immersa nel mercato dei media e abituata al consumo culturale riuscì ad attuare una “rivoluzione organizzativa”, combinando un “volontariato carico di dilettantismo con una paradossale efficacia comunicativa” (Fausto Colombo, Il paese leggero, Laterza, 2012). 

I tratti caratterizzanti della nuova atmosfera mediatica furono ben descritti da Stefano Benni nel 1978, in una raccolta di “corsivi e racconti” intitolata Non siamo stato noi: “Le cooperative, un militare, l’uomo dell’antenna, uno che vuol sapere cos’era quel pezzo di chitarra di ieri notte alle due e un quarto. […] Una scarica, un fischio, un disco che salta, uno che stona, un compagno che non riesce a parlare, uno disinvolto, uno serio, uno brillante, uno educato, uno fumato, abbiamo al microfono da Roma Valentino Parlato, senti Valentino come valuti tu quello che è successo oggi, e poi i titoli dei giornali, le radio accese in prigione, le radio chiuse, le radio che spuntano e non c’è mai una lira”. Questa esplorazione rabdomantica del nuovo paesaggio sonoro risulta carica di fascino, ma lascia anche aperti molti interrogativi sul successo delle nuove emittenti. Di certo l’accorciamento della distanza fra conduttori e pubblico divenne sistematica, riuscendo a intaccare l’aura istituzionale che ancora avvolgeva il broadcasting. Ciò nonostante, rimane lecito porre dubbi sugli scopi politici delle nuove pratiche comunicative: le istanze partecipative furono infatti affiancate, e talvolta addirittura superate, da una forte rivendicazione di diritto al consumo. In altre parole, il cambiamento fu stimolato dal bisogno di organizzare proteste o esprimere dissenso, ma anche dalle crescenti pressioni di operatori privati, desiderosi di sfruttare i nuovi spazi a loro disposizione per fini economici. 

Proprio fra le contraddizioni dell’epoca viaggia la penna di Valerio Aiolli, nei capitoli finali di Radio Magia, cercando di trovare un orientamento all’interno del buio che avvolse un’intera generazione. I protagonisti del romanzo vengono raggiunti dalla notizia del sequestro di Aldo Moro (16 marzo 1978) mentre sono a scuola, ma non hanno reazioni davanti all’insegnante che racconta l’accaduto: “Eravamo abituati allo stillicidio quotidiano dei morti, come granate separate da un assediante che esplodevano ogni giorno qua e là, in un luogo sempre diverso e imprevedibile”. Sono consapevoli di trovarsi di fronte a un’esplosione più fragorosa delle altre, una bomba “più grossa del solito”, ma fanno fatica a intravedere le possibili ripercussioni dell’accaduto. Le loro esistenze quotidiane potrebbero rimanere identiche, non colpite dai proiettili che riescono a deviare i percorsi della “grande storia”.

Tuttavia il disorientamento lascia spazio, giorno dopo giorno, a un’amara consapevolezza: la cronaca nazionale è riuscita a fare irruzione anche nella piccola cantina di Radio Magia e a distruggere tutti gli incantesimi creati dalle sue trasmissioni. Il desiderio di evasione è costretto a farsi da parte di fronte a una tragedia troppo grande da affrontare, capace di rompere le barriere protettive delle sfere individuali e di coinvolgere l’intera collettività. Toppa, Caio, Michele, Saracco, Il Gipo e Del Neri capiscono di essere stati “prigionieri di un’illusione”, di un’invenzione effimera e onirica, impreparati a transitare verso l’età adulta, amici che si parlano “tra di loro senza trovare il modo di parlare al mondo”. Continuano a sentirsi fragili, ormai stretti all’interno dello spazio immaginario in cui si sono rifugiati. Non possono pensare di affidare a un microfono i loro desideri, le loro paure o i loro dolori: “Quando avevamo aperto gli occhi sulla realtà, la realtà era risultata già occupata. […] Da chi gridava, da chi rapiva, da chi sparava”. Capiscono di dover elaborare un nuovo punto di vista per osservare e capire ciò che li circonda. Prendono addirittura in considerazione la possibilità di “cambiare lingua”, per non restare vittime della rabbia e continuare ad avere una voce.  

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