Che fatica essere dilettanti
Che fatica essere dilettanti. Uno sforzo continuo, un sacrificio immane, uno stress. Sfacchinata, e relativa stanchezza, che si producono non tanto, come si potrebbe pensare, nel far male le cose che si improvvisano, svolgendo alla meno peggio compiti difficili, condotte complesse, obiettivi specialistici. Macché: il vero dilettante fa di tutto senza particolari problemi, spensieratamente, con gaia scienza e coscienza: si diletta accompagnato da leggerezza e, talvolta, genialità. La fatica di essere dilettante sta in altro.
Sta, innanzitutto, nello sguardo dei sedicenti saggi accademici, accigliati e criticoni, sempre pronti a invocare algidi specialismi e perizie varie, nonché il lavoro necessario a produrre individui che possono e sanno dire o pensare, dato che si son fatti il mazzo per potersi lanciare in complessi programmi d’azione e di conoscenza; là dove la gente comune, per definizione incapace e insulsa, non avrebbe i mezzi per agire bene, per raggiungere gli obiettivi prefissi. Agli occhi inflessibili di costoro, tutti chiacchiere e distintivo, il dilettante – malcapitato ospite – è soltanto un poveraccio incapace, un improvvisatore senza arte né parte.
Così, esser oggi dilettante finisce per diventare una forma di resistenza ai poteri forti delle istituzioni del sapere, delle amministrazioni centralizzate, della finanza ballerina e, soprattutto, della burocrazia. Oggi il potere degli uffici evoca, più ancora che sterile formalismo, prove e riprove di complessi itinerari di formazione, tutti marchiati da apposite classifiche che manco i ristoranti stellati. Gerarchie universitarie producono gerarchie sociali (e viceversa), si sa: cosa che viene per lo più salutata con appassionata felicità, perché – ritornello evergreen – “qui abbiamo bisogno di gente competente”. Peccato poi, al momento opportuno, non trovarne mai.
La figura del dilettante, poco a poco, e con enormi sforzi, sembra insomma stia ritornando sulla cresta dell’onda. Forse addirittura suo malgrado, proprio a causa delle retoriche della competenza e dell’expertise sempre più diffuse, più trite, più puzzolenti e sospette. Del resto – come spiega da par suo Erik Kessel in un oggetto che definire libro sarebbe riduttivo, ma che ha comunque un titolo (Il perfetto dilettante. Guida professionale al dilettantismo), un editore della traduzione italiana (Corraini) e un abbordabile numero di pagine (157, di cui parecchie con immagini) – per essere dilettanti occorre farsi le ossa, allenare i muscoli, riflettere, ed essere consapevoli dei fasti e nefasti cui si va incontro. Dilettantismo è una forma di vita, un sistema di valori, un dispositivo di pensiero. Ma soprattutto una mèta da raggiungere.
Il ragionamento di Kessel (scaltrissimo artista, designer, curatore, comunicatore olandese) è impeccabile. Oggi qualsiasi carriera professionale richiede studi, sapere, esperienza, know-how specifico, abilità tecniche, efficienza, capacità di sopportare la continua pressione psicologica, successi parziali ma riconosciuti. Soprattutto, un vero professionista è qualcuno che non fa che valutare il rischio di perdere il posto, sta sempre all’erta, e non può permettersi di fallire. Meno fa meglio è. E quel che fa deve essere condiviso, già sperimentato, inattaccabile, pacificante. Come dire: banale, privo di guizzi intellettuali, di opportuna fantasia.
Ne deriva, conclusione paradossale in cui ci troviamo a vivere, che l’unica creatività possibile è quella del dilettante. “È già stato detto tutto – recitava un noto aforisma di Stanislaw Lec –, c’è ancora terra vergine sul versante della banalità”. E Kessel sembra continuare la medesima considerazione: la professionalità non può e non sa più essere creativa, dunque innovativa, dunque efficiente ed efficace giusto nel campo in cui ha imparato a muoversi, a lavorare, a pensare. Meglio allora dimenticare tutto ciò che si è in lungo tempo appreso (ecco il lavoro faticoso del dilettante) e operare come se non se ne sapesse nulla, non si capisse un accidente di quel che si sta facendo. “Quel che fai ti blocca – scrive Kessel –, e non sapere niente potrebbe essere la chiave per imparare di più: ci hai mai pensato?”.
Così il libro o quel che è (serie di pagine senza struttura, indice, capitoli, inizio e fine) è una silloge di casi esemplari per dimostrare una tale tesi, e al tempo stesso una guida per migliorare le proprie prestazioni dilettantesche, per scoprire, scrive Kessel, il proprio dilettante interiore. La solitudine, in questo senso, è arma basilare. E ottenerla non è affatto evidente. Il suggerimento che arriva è costruirsi un capanno in giardino: “il capanno è il posto dove tutto viene realizzato, ma mai presentato al pubblico. Il capanno è il posto in cui si compiono errori all’ombra.
Il capanno è il luogo in cui si scompare”. Là dentro si può agire al riparo da sguardi indiscreti, e ci si può lasciare andare alla sperimentazione senza il rischio di farsi riprendere dal capo per aver fatto delle menate senza senso, sperando che prima o poi, da menata in menata, non ne venga fuori qualcosa di interessante, se non di geniale. Ovviamente nel capanno non deve entrare lo smartphone, come dire il mondo, altrimenti i continui stimoli che esso rimanda – notifiche, app, social, siti dedicati – annullerebbero ogni creatività. E ovviamente si tratta di capanni metaforici, luoghi dove potersi isolare anche solo mentalmente, come il viaggio in aereo, dove la serie assai ridotta di attività consentite incoraggia tutte le altre nella mente; oppure, lo avrete già immaginato, il bagno, dove la solitudine è costitutiva e la monotonia può divenire formidabile strumento per l’emergere di un pensiero efficace.
“Chiudi questo libro e assapora la noia! Fissa le piastrelle del bagno finché non appare il volto di Gesù. Leggi i termini d’uso della tua app preferita. Unisciti a una lunga fila. Chiama un numero verde e fatti mettere in attesa. Noioso, eh? Sì, ma va bene così. La noia è il tuo obiettivo. Ti costringe a stare in compagnia dei tuoi pensieri per qualche istante. […] Un dilettante ha tempo di annoiarsi”.
Ed ecco che viene fuori l’idea, tanto strampalata quanto intelligente: perché non trasformare la stanza da bagno, quella di casa col wc più comodo, in una sala conferenze? Del resto, non c’è miglior posto di quello per riflettere e produrre: “La toilette è un luogo di riflessione. Quando concentri l’attenzione su un singolo compito, la tua mente è libera di vagare. Che idee memorabili vengono sul trono del pensiero! Inoltre è il luogo perfetto per tenere una conferenza. Per ‘liberarsi’ delle idee”. Lo dice meglio la fotografia che significativamente cade al centro del volume:
Insomma l’obiettivo è surrettiziamente politico: liberarsi del pensiero unico, dell’omologazione delle prassi, siano esse quelle quotidiane come quelle professionali, di quell’infraordinario in cui bene e male, euforia e disforia di mescolano di continuo. Non esiste un modo unico per fare le cose, e nessun programma d’azione è per principio sbagliato. Così, racconta Kessel, Levi Strauss (per intenderci, quello dei jeans) realizzò pantaloni in denim “quando quell’idea a tutti sembrava assurda come mettersi i calzini nelle orecchie”. E fece la fortuna che sappiamo.
Sarebbe stato d’accordo Lévi-Strauss (l’antropologo), secondo il quale, si ricorderà, la creatività sta nel bricolage, in quell’inventiva che, legata allo sperimentare sensoriale, si adopera non per creare dal nulla ma per dare nuovi significati e nuove funzioni alle cose già esistenti, alle materie già indirizzate a uno scopo, alle tecniche tradizionali. La tradizione, ripetiamolo ancora, non è altro che un’invenzione (inaspettatamente) riuscita. Pensata, magari, stando seduti in bagno.
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