Clara Usón. La figlia

5 Novembre 2013

In una nota tradotta da Massimo Rizzante, Danilo Kiš rivendica la natura squisitamente letteraria dei personaggi di origine ebraica che abitano le sue opere, nel senso che essi “non sono che letterarietà, straniamento […] questo perché il mondo degli ebrei dell’Europa centrale è un mondo scomparso, un mondo di ieri, e come tale si trova nel campo di una realtà non-reale. Nel campo, quindi, della letteratura”. Continua, qualche riga più in là: “Se le mie origini non fossero immerse nella nebbia, mi domando quali ragioni avrei di fare letteratura”(L’ultimo bastione del buon senso, in Nuova Prosa, n° 40, giugno 2004, p. 27).

 

E’ proprio dalla rivendicazione di questa stessa illegittimità che muove la voce di Danilo, omonimo dell’autore jugoslavo. Appassionato di Joyce, Danilo vorrebbe scrivere un saggio su Leopold Bloom, ebreo poco convincente ai suoi occhi, così come lui stesso si è sempre considerato poco plausibile: alto, curvo, vistosamente pel di carota, con la testa che sotto il sole di mezzogiorno pare un incendio, non ha mai avuto successo con le ragazze e sa che non riuscirà a conquistare Ana, tanto bella quanto intrisa di febbre patriottica.

 

Lei, un pomeriggio dei primi anni Novanta, chiedendogli spiegazioni circa la sua identità, si sente rispondere: sono un ostali, uno straniero, né serbo né croato, né ebreo né musulmano. Lo straniero è sempre uno che non c’entra, anche se si ferma per tanto tempo, le dice, perché all’invitato, ospite o visitatore che dir si voglia, non si chiede certo di baciare la bandiera.

 

 

Tuttavia, a chi è stato di passaggio, la letteratura ha sempre affidato il compito di narrare, cosa che Danilo Papo fa con dovizia di particolari, dando forma ad una delle linee direttrici dell’ultimo, potentissimo romanzo della scrittrice spagnola Clara Usón, La figlia, pubblicato da Sellerio nell’accurata traduzione di Silvia Sichel.

 

Il libro racconta gli ultimi mesi di vita di Ana Mladić e, con essi, la tragedia collettiva della disintegrazione dei Balcani nell’infernale guerra civile che ha tristemente imposto all’attenzione internazionale la figura mortifera del padre della ragazza, Ratko Mladić, il boia di Srebrenica.

 

 

L’opera –  corposa sì, ma così convincente da far dimenticare qualsiasi indugio anche al lettore più timido – è il risultato dell’intersezione di due linee narrative: la prima, quella storica, è riferita attraverso una prima persona maschile che serpeggia e si insinua discreta, la voce di Danilo appunto, sotto la quale si cela il tenace lavoro di inchiesta e di ricerca dell’autrice sul passato recente e lontano del territorio bosniaco. La seconda linea è narrata attraverso il punto di vista della protagonista femminile, in compagnia della quale ci affacciamo sul suo dramma personale, accomunati dallo sforzo di comprendere (noi) e di riarticolare (lei) la storia del suo sviluppo intellettuale e affettivo, entrambi plasmati sotto l’ombra gigantesca dell’amore paterno di un criminale di guerra.

 

La Ana di Clara Usón emerge dalla dissolvenza tra due fotogrammi di un video caricato su Youtube di un programma della televisione bosniaca. La dissolvenza in questione è quasi impercettibile, tra la scena che mostra una bella ragazza sorridente durante un pranzo familiare all’aperto e quella del suo annuncio funebre. Dura meno di un secondo, scrive Usón nelle primissime pagine del romanzo, ma cela un enigma, forse una spiegazione. Da questo enigma la scrittrice spagnola parte per interpretare i pochi indizi biografici sulla ragazza ed elabora tutta una vita dall’interno, facendo però contemporaneamente il percorso inverso, dall’esistenza individuale all’oggettività della Storia.
Così, la Ana-Ofelia di Clara Usón, brillante e coscienziosa studentessa di medicina poco più che ventenne, fagocitata dall’autopersuasione prima e da una dolorosa presa di coscienza poi, sceglie risolutamente il suicidio, dopo essersi trasformata in prima spettatrice delle sua vita recente.

 

 

Si suicida perché ad un certo punto nemmeno il pretesto dell’impersonalità della Storia e del ruolo inevitabilmente secondario che ha l’attore individuale può bastare: Ana, con la Zastava calibro 7,65 del padre puntata alla tempia, pare voler dire siamo quello che facciamo e pare voler aggiungere senza mezzi termini che le colpe dei padri ricadono sempre sulle figlie. Sta tutto qui il senso di vertigine provocato dalla scrittura di Clara Usón che sa mescolare i generi storico, epico e romanzesco con la stessa abilità dei grandi nomi della letteratura universale.

 

E, come loro, sa caricare la narrazione di una solida dimensione critico-filosofica, la cui cifra è la responsabilità morale e civile verso quel “mondo scomparso” cui fa riferimento Kiš – senza dubbio uno dei numi tutelari del libro –, tutte quelle terre dove non esiste oblio e dove la memoria può continuare a vivere nei vecchi visceri ansimanti delle gole, dei crepacci, delle fosse comuni, così come nell’astrazione narrativa di un’autrice che, con la pratica del romanzo nato dall’impulso biografico, è in grado di dare un assetto tridimensionale al passato.

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