Claudio Franzoni. Movimento doppio

24 Giugno 2011

 

Questo articolo inaugura una serie di interventi che esplorano il tema delle forme, della bellezza/bruttezza, da punti di vista molto diversi fra di loro. Ne parleranno storici dell’arte, scrittori, critici, scienziati, musicisti, filosofi, esperti di paesaggio.

 

 

Claudio Franzoni, studioso di arte antica, si è occupato in modo particolare di storia della tradizione classica e del rapporto tra antropologia e immagini. Per Einaudi ha curato l’edizione dell’Atlante della serie I Greci e ha pubblicato Tirannia  dello sguardo. Corpo, gesto, espressione nell’arte greca (2006).

 


Claudio Franzoni, Movimento doppio

 

L’appuntamento è alle 15 alla Pro Loco di Trescore, a mezz’ora da Bergamo. L’oratorio Suardi si può visitare solo così perché è di proprietà privata. Seguiamo – una decina di visitatori – il cicerone nel parco fino all’oratorio, saldato al corpo della villa principale da una sorta di passaggio coperto aggiunto nell’Ottocento. Entriamo e comincia la visita guidata che durerà circa un’ora, tempo considerevole, se si tiene conto delle modestissime dimensioni dell’oratorio. Dentro si trovano gli affreschi compiuti verso il 1524 da Lorenzo Lotto, un pittore veneziano molto attivo nella zona, a Bergamo e in altri paesi vicini. Tutte le pareti, compreso il soffitto, tra un travetto e l’altro, sono dipinte e il cicerone descrive metodicamente ciascuna scena.

 

Avevo letto anni fa il bel libro di Francesca Cortesi Bosco sull’oratorio che i Suardi, famiglia della piccola nobiltà locale, avevano affidato al pittore veneziano e almeno alcune delle abbondanti implicazioni culturali e religiose che la studiosa richiamava nel saggio me le ricordavo. Ma era come se di tutto questo non ci fosse bisogno e le parole della guida fossero più che bastanti. A parte qualche inattesa decostruzione idiosincratica (più o meno: “gli affreschi servivano a tener buoni i contadini della zona, che non seguissero l’esempio di quelli tedeschi irretiti dalla Riforma”) e la solita presenza di aneddoti, il cicerone si limitava a spiegare le scene nella loro sequenza: nella parete di fronte all’ingresso (situato su uno dei lati lunghi) Cristo in piedi allarga le braccia e dalle sue mani si prolungano i tralci di vite che vanno su ad avvolgere figure di santi e poi continuano sul soffitto. È la traduzione visiva di un passo evangelico in cui Gesù si paragona a una vite e invita i fedeli a restare attaccati ai tralci. Su un piano arretrato rispetto alla figura di Cristo, lungo tutta la parete si snoda la storia di santa Barbara, fino al martirio. Nella parete opposta ci sono invece le storie di santa Brigida, mentre alcuni medaglioni appena sotto il soffitto ospitano profeti e sibille.

 

 

Tutti i riferimenti eruditi e simbolici che ricordavo, pure giustificati, mi sembrava fossero rimasti fuori e l’unica cosa da fare fosse guardare le immagini dipinte. L’oratorio è talmente piccolo e il soffitto stesso tanto vicino che, pensavo, il sentirsi attorniati dalle figure e il conseguente obbligo ad osservarle erano una sorta di effetto indotto dall’ambiente. Mi è venuta in mente un’affermazione di Pasolini che parlava dell’inevitabilità del contatto diretto con le opere d’arte. Ho poi trovato la frase esatta, che dice così: “Non c’è ‘approccio’ critico all’opera d’arte: essa pretende che si sia subito completamente ‘dentro’, senza scampo. Tutte le cautele metodologiche si squagliano. Bisogna affrontare senza tante storie il tragico e il ridicolo dell’impegno critico”.

 

Sia il “tragico” che il “ridicolo”, comunque, restavano sospesi: il cicerone decostruzionista continuava puntuale il suo racconto e poiché nessuno dei presenti, per fortuna, sapeva che da trent’anni insegno storia dell’arte mi poteva chiedere spiegazioni. Ma se uno della comitiva, una volta esaurita la questione dei soggetti degli affreschi, avesse domandato – mettiamo – in che cosa consiste la loro importanza artistica, che cosa avrei potuto dire, cosa avrei detto – poniamo – ai miei studenti? Per la verità ci sono molti che sembrano sapere benissimo che cosa dire in queste occasioni. Su un quotidiano nazionale, tempo fa, un illustre opinionista scriveva tranquillamente di “Sapere, Passato e Bellezza”, tutti con la maiuscola, cioè con l’opportuna deferenza verso idee considerate tanto alte quanto a portata di mano; e l’allora ministro dei Beni Culturali gli rispondeva che “quanto poi alla ‘bellezza’” egli aveva “da subito indirizzato il suo mandato a questo valore”. Indirizzare un mandato ministeriale alla bellezza? Alcuni ripetono, con una sicurezza senza incrinature, pensieri come “la bellezza ci salverà” o simili; frasi kitsch, come è chiaro, d’effetto immediato e di totale genericità.

 

Aveva ragione Balzac: “Le parole bellezza, gloria, poesia possiedono un fascino che seduce anche gli spiriti più rozzi”, quasi fossero parole che bastano a se stesse, puri suoni. Viceversa, aveva le sue ragioni anche un contemporaneo di Lorenzo Lotto, il pittore tedesco Albrecht Dürer, che annotava laconicamente: “ma che cosa sia la bellezza, io non lo so”. Insomma, davanti a un quadro, una scultura, un oggetto qualsiasi, pretendere di risolvere tutto con il ricorso alla “bellezza” è una scorciatoia dettata da una sorta di pigro rifiuto della discussione, da una chiamata in causa del principio di autorità, quasi si volesse dire: “questa o quell’opera ricade nel dominio di un entità astratta, superiore (e perciò indiscutibile), e solo in pochi ne abbiamo la chiave”. Già nella seconda metà del Settecento, J. J. Winckelmann sosteneva che è facile parlare di bellezza, molto meno spiegare perché un’opera lo sia, render conto cioè di un giudizio di valore.

 

La nostra guida aveva ormai finito la descrizione della parete principale, quella che si incontra subito all’entrata nell’oratorio. Nel frattempo avevo seguito le storie di santa Barbara, ma avevo anche divagato, girandomi indietro alle semplici imprese dell’altra santa e, sopra, ai tondi dei profeti e delle sibille. In mezzo, l’autoritratto di Lotto, rovinato dal tempo ma ancora leggibile. Lotto si ritrae mentre va a caccia, per giunta un tipo di caccia ben poco nobile ed eroica, l’uccellagione, con i panioni, il vischio e la civetta per ingannare gli altri volatili. La vita senza fissa dimora, Venezia, Roma, Treviso, il territorio di Bergamo, le Marche; la malinconia e l’erudizione; la preferenza per modesti committenti di provincia e per chiese “dalle soglie erbose”, come scrisse uno storico dell’arte alcuni decenni fa, mentre alcuni suoi colleghi lavoravano per la più prestigiosa aristocrazia italiana ed europea; la sottigliezza ricercata di  alcuni dettagli e l’estrema semplicità di altri. Abbandonato il contatto col cicerone, quegli affreschi che fino ad allora erano stati diaframmi rispetto all’esterno, adesso si mettevano come di profilo e si trasformavano in soglie, strumenti per un teatro della memoria. Questo era il momento per pensare, ad esempio, a che cosa stessero facendo in quei mesi, mentre Lotto era qui dai Suardi, Tiziano o Correggio, ma anche Erasmo o Rabelais. Non sarebbe male avere davanti, - pensavo - quasi mese per mese, una agenda delle espressioni culturali del 1524.

 

Rassicurato e un po’ illuso da queste divagazioni mi ero preparato una risposta all’ipotetica domanda di uno dei visitatori, quello ad esempio che ogni tanto interrompeva il cicerone pregandolo di parlare più forte (non ci sentiva bene il signore sulla sessantina, da Milano): “Che cosa hanno di così importante questi affreschi?”. Gli avrei fatto notare che se la nostra guida si fosse interrotta, altrettanto avrebbero fatto gli affreschi di Lotto. “Le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma se domandi loro qualcosa, se ne restano zitte, chiuse in un solenne silenzio”, secondo Platone. Anche le figure dipinte da Lotto stanno “zitte” eppure sono “vive”: sopportiamo il loro silenzio proprio perché la loro è una finzione che convince i nostri sensi e si accorda pienamente con la nostra idea di realtà e, anzi, in un certo senso contribuisce a definirla. Su un altro piano, succede poi che le stesse figure ci sembrano tanto più vere quanto più richiamano in vita altre storie: la vita erratica del pittore, i testi sacri e le fonti letterarie, i rimandi simbolici, i percorsi paralleli degli artisti contemporanei, i legami e le distanze rispetto a quelli del passato.

 

Tutto questo (e altro ancora) qui a Trescore è possibile. Ma è così per qualunque oratorio affrescato? Toccare la realtà della finzione pittorica ed evaderne, questo doppio movimento è facile con gli affreschi di Lotto, molto meno – per non andar lontano – con quelli che un pittore di qualche decennio prima aveva dipinto nella minuscola abside della stessa cappella di Trescore. Questo, ad esempio, è un dislivello di valore, non una presenza o un’assenza di bellezza. Infatti questo doppio movimento – il contatto diretto con la superficie seducente delle immagini e la coesistente percezione della loro dimensione fantasmatica – non è custodito  all’interno dell’opera stessa, ma è frutto di una relazione, di un’interazione che ci può essere o no. Quella che chiamiamo opera d’arte, cioè, non contiene bellezza, quasi si trattasse di un’entità misteriosamente introdottavi dal mago-artista, ma è il luogo in cui si può realizzare una relazione potenzialmente ricca e diversificata da parte di chi la voglia osservare (leggere, ascoltare). Un rapporto che è comunque diverso da persona a persona, e del resto non c’è quello corretto e “giusto”. Una relazione se autentica e non manierata o preoccupata solo dalla “cautele metodologiche” è per definizione difficile, per forza in bilico tra “il tragico e il ridicolo”. E anche Lotto, dopo aver dipinto Gesù e le sante, se ne va nei boschi coi panioni sulle spalle.

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