Como / Paesi e città
Dominique Baettig, consigliere nazionale svizzero del Cantone del Giura, non è un personaggio che passerà alla storia. Ma nel corso dell’estate 2010 ha tentato di entrarvi con una di quelle idee che, se realizzate, possono cambiare i destini dei popoli. Il baffuto deputato dell’Udc (partito del centro destra elvetico), cinquantaseienne dal ruvido tratto valligiano, ha chiesto al suo governo una modifica alla Costituzione che consentisse di annettere il Baden-Württemberg, la Savoia, la Val d’Aosta e le due province lombarde di Como e di Varese. Tre pezzetti di Germania, Francia e Italia, quelli che nella sua ottica più dovrebbero assomigliare alla Svizzera, avrebbero così potuto far parte della Confederazione.
Liquidata rapidamente dal governo e dagli organi di stampa elvetici, l’ipotesi del “leghista” confederato ha solleticato però l’immaginazione dei comaschi. Un sondaggio della Provincia, il quotidiano locale di riferimento, ha stabilito che quasi l’80 per cento dei lettori sarebbe favorevole all’idea di voltare le spalle all’Italia e di convolare a nozze con Berna. Si è trattato di un gioco, d’accordo. O di un esercizio fine a se stesso, che è anche, almeno in parte, un’illusione ottica, perché i numeri, se letti diversamente, ci dicono che a metà novembre 2010 hanno risposto alla domanda del quotidiano 3351 dei 537.000 abitanti della provincia.
Ma il dato è comunque significativo. Sì, perché diventare svizzeri è l’aspirazione più o meno confessata di molti comaschi, insensibili anche alle campagne denigratorie a cui sono esposti quando vanno a lavorare oltre confine, visto che la stessa Udc li ha da poco accostati a fastidiosi ratti a caccia di formaggio.
E allora? Perché sentirsi attratti da un territorio i cui abitanti, come ha affermato lo scrittore svizzero Max Frisch, sono convinti “a priori” dell’inferiorità degli stranieri?
Possono forse bastare quelle spiegazioni che attingono al tradizionale serbatoio di luoghi comuni sull’ordine e sulla pulizia, sulla puntualità, sull’assetto politico-amministrativo, sulla severa osservanza dei regolamenti e sulla limitata pressione fiscale che, col cioccolato, l’Emmenthal e la neutralità, accompagnano ovunque l’immagine della Confederazione Elvetica? Probabilmente no.
Perché il rapporto tra Como e Svizzera è complesso e sinuoso, nasconde sottintesi, si nutre di non detto. Ma sia chiaro: la Svizzera vista da Como ( e in particolare il Ticino) si approssima più ad un’idea che ad un luogo. Ad un paradigma più che ad un verosimile articolarsi di casi concreti. Solo così, pur avvertendone la distanza, pur ammettendone le miopie, pur sorridendo dei suoi difetti, Como riesce ad ammirare e a desiderare quel mondo distante solo pochi metri. Insomma, la Svizzera piace perché è oggi quello che Como avrebbe potuto essere. A che condizione? Una sola: non essere entrata in rotta di collisione con il “pianeta” Italia.
Nel più radicato dei suoi miti delle origini, Como si immagina città ordinata, laboriosa, organizzata, seria e solida. In effetti Como si è storicamente sforzata di rappresentare questi valori, cioè di essere una città che ama il fare, silenziosa, chiusa ma onesta, costruita attorno al tetragono feticcio del risparmio (appunto come una città svizzera, una di quelle a marmorea base calvinista, magari). Una città senza alzate d’ingegno, senza estri esagerati - la più grande svolta concettuale figlia di comaschi è il razionalismo architettonico di Terragni - e cementata nella logica del buonsenso, del rispetto dei sani e incontrovertibili valori comunemente riconosciuti. Una città moderata che dal dopoguerra fino agli anni Ottanta si riconosceva nella Dc, nella quiete delle parrocchie, nel volontariato paternalistico della buona società, nell’industrioso e provinciale succedersi di giornate uguali. Una città dove la seta dava da vivere a tanti, dove il benessere era sobriamente diffuso. Una città a sé, diversa anche nel clima, con le sue lunghe piogge frequenti in qualunque stagione, con le sue basse e melanconiche brume lacustri, con le sue rarissime e fuggevoli giornate zeppe di luce e di vento. Una città che si poteva specchiare in quella “fede della tradizione” che, secondo la lettura della Svizzera offerta dallo stesso Frisch, fa (o faceva) temere “più i rinnovamenti dell’arretratezza”. Anche l’italianità di Como era sentimento tiepido, sorretto dalle statue e dai busti dei padri del Risorgimento, vivificato da spruzzate di ondivago patriottismo da ricorrenza ufficiale. Un’altra versione – civile questa volta – di quelle buone maniere da “signorina Felicita” che rendevano egualmente inviolabili le memorie familiari e le messe domenicali. Nient’altro che una patina superficiale e cerimoniale, però, che ha a lungo nascosto la vera, cocciuta, anti-italianità comasca.
Gli ultimi vent’anni sono stati, in tal senso, decisivi. L’Italia per Como si è sempre più identificata con lo Stato e lo Stato è diventato sinonimo di inefficienza. Lo Stato è la lentezza, la pastoia burocratica, la tortuosità avvocatesca. Il contrario dell’efficientismo lariano, della sua istintiva propensione a rimboccarsi le maniche, della sua specchiata onestà. Lo Stato ha inoculato il gusto del non lavoro, della fuga dalla responsabilità, e ha determinato il primo impatto col disordine italico, con la stordita bolsaggine di chi concepisce la vita come eterna vacanza. Lo Stato è la tassa che ingiustificatamente deve essere pagata senza ottenere nulla in cambio. Lo Stato ha meridionalizzato il nord, ha avvelenato la vita “al calduccio” del comasco. Lo Stato è la conferma che antropologicamente l’uomo del sud - ovvero l’impiegato pubblico - è di un’altra pasta, decisamente meno qualitativa, rispetto al puro “figlio del paese”. Lo Stato è il primo responsabile dell’immigrazione, che trascina per le strade masse di diseredati infidi e levantini, i quali, oltre a vivere di espedienti, si rendono regolarmente responsabili di atroci misfatti. Ma non solo. L’italianità è anche la manifestazione di una temperatura mentale, fatta di diseducazione, volgarità, giovanilismo senza regole, prevalenza del pubblico sul privato, della cultura della piazza rispetto a quella del salotto. Insomma, l’italianità per Como è venuta in gran parte a coincidere con una modernità mal digerita proprio perché suscitatrice di dissesti morali, anarchismi, cupio dissolvi.
Per queste vie, dentro questo brodo di pregiudizi, Como si è vista sfuggire di mano se stessa. La città ha finito col non riconoscersi più, le sue strade non sono più state percorse da fisionomie rassicuranti. Como ha perso la verginità, ha smesso di vedersi tranquilla e dolcemente crepuscolare. La città ha cominciato a sentirsi sotto assedio,ammalata di caotiche incertezze, attraversata da paure confessate apertamente. Così la Svizzera, con i suoi asfalti senza buche, i suoi treni in perfetto orario, i suoi poliziotti che ti multano sul posto se entri in una via riservata ai residenti o i suoi controllori privati che ti trattano come un criminale se ti trovano senza il biglietto del bus, è diventata ogni giorno di più il sogno di un mondo migliore. Un “mondo piccolo” immaginato da un Guareschi post-moderno, che concilia tecnologia e lotta ai clandestini, bordelli e piste da sci, banche di ampie vedute e associazioni umanitarie.
L’esito di questa schizofrenia è duplice. Da un lato Como ha scelto di chiudersi e dall’altro di negare se stessa. In altre parole, allo straripante predominio della destra forza leghista-razzista è corrisposta - con apparente contraddizione - una lunga stagione di dissesti amministrativi, guasti paesaggistici, caos urbanistico. È come se la cittadella, fatalmente ferita e ormai in disarmo, cercasse di salvare il salvabile arroccandosi a immagini di epoche distanti e migliori e rifiutando contemporaneamente di diventare altro da sé. In forma più o meno consapevole, infatti, gli amministratori della città stanno ostacolandone qualsiasi possibile sviluppo, negandole la possibilità di acquisire lo status di centro turistico. Allora si costruiscono paratie per difendersi dalle esondazioni che sono in realtà muri per impedire la visione del lago stesso; oppure si dà il permesso per edificare orribili palazzi in luoghi “pittoreschi”; oppure ancora si lascia la città piena di buche e di palazzi in rovina e non si riesce a portare a compimento nemmeno uno dei tanti progetti necessari al suo rinnovamento. Soprattutto sorprende la leggerezza con cui si sfregia il panorama, indifferenti alle sue sorti forse proprio perché quel bello - da sempre - è percepito non solo come estraneo alla vera anima della città, ma anche come possibile via di accesso a dimensioni ulteriori che non interessano. Così, spenta la sua vocazione industriale, Como non è più niente. La sua gente vive negli spazi conclusi della propria abitazione o in quelli, comunque rassicuranti, del centro commerciale; però non esce quasi mai di sera, non va al cinema (ce n’è uno solo!), non va nei musei, non va allo stadio. Tutto a Como sa di chiuso, dai cupi borborigmi del dialetto alla visione delle cose, inevitabilmente ristretta. Si amano i gesti consueti, i tracciati sicuri, gli spettacoli comprensibili. L’esterno, quando viene accolto, è per logiche di botteghino più che per una sentita necessità e risulta una caricaturale imitazione di quanto fanno gli altri, come dimostrano le “grandi mostre” ospitate a Villa Olmo, o, su un piano diverso, i localini à la page che offrono sushi e “stuzzicherie”.
Dovendo rinunciare a se stessa, non potendo “svizzerizzarsi”, la città si è suicidata. Liberandosi prima di tutto del pensiero e dell’anima, sostituiti dal pettegolezzo - si veda l’orizzonte dei media locali per averne un’idea - e dai danè, in un chiaroscurale fin de partie senza vincitori né vinti.