Un poeta in lotta con la materia / Con Ariosto, senza Calvino

7 Gennaio 2017

Chi è Ludovico Ariosto, del cui capolavoro, l’Orlando furioso, si è celebrato quest’anno il cinquecentenario con un’incredibile serie di eventi, convegni, spettacoli e mostre? Per molti Ariosto, o ‘l’Ariosto’, come preferiscono alcuni che così ne hanno imparato il nome sui manuali di scuola, è quasi uno pseudonimo di Italo Calvino. Sì, perché Calvino è il filtro attraverso cui ancora molti, intellettuali o semplici curiosi, leggono il poema ariostesco, che Calvino raccontò a un pubblico medio-colto con una mirabile operazione letteraria ed editoriale in apertura degli anni Settanta. Prendersela con Calvino sembra che sia diventato uno sport letterario, dopo una generazione cresciuta alla sua ombra: ‘se l’ha detto Calvino’, era il mantra di professori e studenti tra gli anni Ottanta e Novanta. A chi ha avuto maestri soffocanti capita di sbarazzarsene con la stessa facilità con cui li aveva un tempo adorati. 

 

Eppure, nel caso di Ariosto, Calvino è responsabile di una tale calvinizzazione che non si può restare indifferenti. Ariosto è per la maggior parte dei lettori, chi ne ha letto un po’ e chi ne ha letto tanto, il poeta della fantasia senza briglie, dell’inesauribile invenzione di situazioni e scene, di uno sguardo ironico e disincantato sul mondo, sorridente e sornione. Il poeta della leggerezza e della precisione, diceva Calvino, che a lui venne paragonato fin dal 1946 da Cesare Pavese nella sua recensione al Sentiero dei nidi di ragno e che a lui dedicava gran parte dell’apertura del suo vero e proprio testamento spirituale con le Lezioni americane. In mezzo, tante allusioni ariostesche, dalla Bradamante-suor Teodora del Cavaliere inesistente alle storie del Castello dei destini incrociati, passando per «l’agente di vigilanza Astolfo» in Marcovaldo, fino a una lettura radiofonica che culminò nell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino. Tutto ben noto. Meno noto è che questo Ariosto non ha niente a che vedere con l’Orlando furioso, quello vero, pubblicato a Ferrara da Giovanni Mazocco del Bondeno cinquecento anni fa e divenuto un classico di respiro mondiale con l’edizione di sedici anni dopo (quella che ancora leggiamo).

 

 

È assolutamente legittimo, come diceva Borges, che uno scrittore si crei i suoi precursori, ma è altrettanto opportuno che l’operazione venga riconosciuta e apprezzata per quello che è anziché contrabbandata come autostrada verso l’interpretazione critica. Certo, Ariosto oggi per noi è anche l’Ariosto di Calvino, visto che un classico, come diceva proprio Calvino, è anche tutto l’insieme dei discorsi che ha generato e porta con sé attraverso la storia. Ma proprio perciò un classico non può essere appiattito solo su quei discorsi. Colpa dei lettori e seguaci di Calvino, si dirà giustamente: non di Calvino; ma la colpa resta e va espiata. La colpa sta nella semplificazione, che per Calvino era certo un obiettivo letterario, da conseguire attraverso l’intelligenza e la tecnica, ma che è diventata una distorsione del testo originale: la complessità narrativa del poema ariostesco veniva ridotta a una sequenza di episodi, l’ironia conoscitiva a disincantata superiorità e le corrispondenze interne a gioco combinatorio. Togliere materia è stato spesso ideale estetico novecentesco, da Picasso, che dichiarava di averci messo «una vita per imparare a dipingere come un bambino», a Hemingway, che invitava a eliminare aggettivi e avverbi. Semplificare era una conquista anche per Calvino, un tentativo di avvicinarsi al cuore delle cose senza inutili orpelli retorici: «l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza», era l’auspicio di Calvino per il millennio a venire nella lezione sulla Leggerezza, che apriva le già ricordate Lezioni americane.

 

Nulla di più lontano da Ariosto: l’Orlando furioso complica sempre, sfidando il lettore a uno sforzo mostruoso di memoria per seguire i vari fili della trama, frustrandolo sul più bello quando interrompe il racconto a fine canto, spiazzandolo di brutto quando lo mette di fronte a donne con la spada e cavalieri in lacrime e costringendolo a faticose riflessioni quando denuncia l’incredibilità della sua stessa storia. Daniel Javitch ha inventato la fortunata formula di cantus interruptus per spiegare la frustrazione del lettore quando l’assalto di Ruggiero ad Angelica viene rinviato al canto successivo. Lettori del calibro di Vittorio Alfieri e Giuseppe Tomasi di Lampedusa non sopportavano la frammentazione narrativa. Persino Hegel non esitò a parlare di «follia e stramberia pure ed evidenti» a proposito del poema ariostesco, che gli pareva solo una serie di «incoerenze bizzarre» che distruggevano ogni ipotesi di arte razionalmente intesa.

 

Davvero difficile, allora, ridurre il poema alla «precisione» e alla «leggerezza» richiamate da Calvino. Se ci sono due parole che io personalmente eliminerei dal vocabolario della critica ariostesca, sono proprio precisione e leggerezza: Ariosto mette continuamente in scena l’inafferrabilità dell’oggetto desiderato e lo sforzo di conquistarsi un’identità individuale. Orlando impazzisce non perché l’amore sia follia, ma perché non può avere Angelica: pazzo perché «per altri voler» perde se stesso, ma «pazzo» sarebbe anche Ruggiero se non approfittasse dell’occasione che gli porge Angelica nuda a sua disposizione. Pazzia è perdita del sé e rinuncia a sé, frustrazione del desiderio e repressione del desiderio: il contrario di una serena accettazione dell’irrazionalità del mondo, cui basta il capovolgimento per mettersi in pace la coscienza. «Lasciatemi così. Ho fatto tutto il giro e ho capito. Il mondo si legge all’incontrario. Tutto è chiaro», concludeva l’«Orlando pazzo per amore» in Il castello dei destini incrociati. Ma il contrario, in Ariosto, non è dialettica composizione di tesi e antitesi: è dialettica senza sintesi. L’invito a rileggere la tradizione letteraria «tutta al contrario» non trasformava automaticamente Omero in un bugiardo e Penelope in una meretrice, ma apriva lo spazio dell’alternativa: l’ironia ariostesca è invito a una «compréhension multiple des choses», come diceva, citando De Gourmont, il grande critico anglo-americano Donald S. Carne-Ross. Il verso da cui discende tutta l’azione del poema, «Contrari ai voti furo i successi», significa che le cose non andarono come sperato, ma anche che sarebbero potute andare diversamente. E che Angelica fosse vergine «forse era vero», ma non perciò credibile, col risultato che l’opinione finiva per contare più della realtà. 

 

 

Calvino lettore di Ariosto è insomma un tradimento di Ariosto, che fa di un poeta drammaticamente in lotta con la sua materia il poeta di uno sguardo terso e razionale. Ri-raccontare è come tradurre, dirà Gianni Celati a proposito del suo racconto dell’Orlando innamorato di Boiardo che fece da terza puntata della brevissima serie Einaudi inaugurata proprio da Calvino con l’Orlando furioso (la seconda è la Gerusalemme liberata di Alfredo Giuliani, mentre una quarta fuori collana è idealmente il Morgante di Manganelli); ma tradurre, secondo una fortunata e forse abusata formula benjaminiana, è tradire. Calvino si appropria di Ariosto per definire Calvino, crearsi un padre e assumere un posto nella tradizione: il risultato, come nella splendida finzione borgesiana su Pierre Menard autore del Don Chisciotte, è che Calvino diventa l’autore dell’Orlando furioso, sostituendosi ad Ariosto. Così lo hanno letto per oltre quarant’anni tutti coloro che non hanno voluto misurarsi col testo ariostesco, per paura o per pigrizia: ed Ariosto è diventato il poeta della fantasia, il poeta di un’ironia che non prende nulla sul serio, il poeta stralunato e svagato che vive solo di sogni. Così lo ha letto, purtroppo, lo stesso Celati, il figlio ribelle di Calvino, che ne ha offerto una magnifica lettura en poète, ma ha voluto valorizzare, anche lui, il suo predecessore anziché l’autore dell’Orlando furioso: il funambolo dell’invenzione poetica, il tessitore senza posa, il campione della libertà poetica contro le costrizioni della forma chiusa. Ariosto si è perso dietro l’Ariosto di Borges, col rischio che alla fine si torni al poeta che domina il mondo dall’alto, l’inventore dell’armonia, l’Ariosto di Benedetto Croce, che l’ha forse letto meglio di chiunque altro nel Novecento, ma che ne ha pure inibito la lettura in profondità per generazioni e generazioni.

 

Del resto, Calvino l’aveva letto per la prima volta, il poema ariostesco, da adolescente, raccontava, quindi negli anni Trenta, quando nella critica ariostesca dominava la lettura crociana, e a Celati l’aveva letto il padre quando aveva dodici anni, ci dice, cioè nel 1949, quando era ancora e sempre Croce (magari attraverso la monografia di Momigliano) l’autorità di riferimento sull’Orlando furioso. Letture di bambini, che vanno benissimo, raccogliendo l’invito di Picasso ricordato più su, ma che, come accade a volte con l’immaginario dei bambini, rischiano di diventare assolute, mentre il bello del poema ariostesco è proprio la sua disponibilità all’apertura infinita dell’interpretazione.

Ariosto era già diventato maestro futurista di «senso trasformista della vita», «giocondità goliardica beffatrice» e «senso aviatorio» in un discorso di Marinetti del 7 luglio 1929 e campione neorealista di «sostanza pur istintiva ed ingenua, e cioè il realismo quattrocentesco» in un’introduzione all’Orlando furioso firmata da Elio Vittorini nel 1950. Ma con Calvino l’appropriazione è andata oltre, perché c’è chi oggi identifica Ariosto con l’Ariosto di Calvino. Non ci sarà alcun bisogno di scomodare i massimi sistemi, come il corpo di Pasolini (che di Ariosto si occupava solo a proposito della questione della lingua) contro la mente di Calvino, nell’alveo del decisivo saggio di Carla Benedetti del 1998; oppure un eventuale, più sofisticato, neoavanguardismo di Sanguineti (che ad Ariosto dedicava una bellissima introduzione per l’edizione Garzanti del 1974, con omaggio al Calvino del Castello) contro il classicismo di Calvino. Il fatto è che Calvino ha riportato Ariosto alla sua poetica della fiaba, riducendone la complessità narrativa a una sequenza di episodi e trasformandone l’ironia da metodo socratico di interrogazione della società e dei suoi valori al sorriso sornione e disincantato di chi pretende che il mondo si possa rappresentare razionalmente. 

 

Chi leggerà più di Rinaldo che chiede che quello che per gli uomini è motivo di vanto, avere degli amanti, non sia per le donne motivo di vergogna, di Ricciardetto che fa credere a Fiordispina di essere sua sorella Bradamante improvvisamente trasformatasi in maschio, di Marfisa che cambia le leggi ingiuste delle amazzoni nemiche degli uomini e del tiranno Marganorre che faceva scorciare la gonna a tutte le donne del suo regno, di Bradamante che vuol essere giudicata come cavaliere anziché come donna alla rocca di Tristano e di San Giovanni che mette in discussione la parola dei poeti fino a temere di aver messo in crisi pure la propria? Dopo aver letto Calvino e Celati, Ariosto non può essere questo: sarà fughe e inseguimenti, degustazione del racconto e trionfo della levità, impegno dell’intelligenza e risolino beffardo. Leggere gli scrittori che fanno i critici è bello, per capire loro e la loro scrittura; ma per capire gli autori di cui si occupano è sempre meglio andare a leggere questi ultimi. A volte ci sorprenderanno. 

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