Essere umani / Da dove viene e dove va la mente senza il corpo?

21 Ottobre 2018

Termitaio australiano e la Sagrada Familia, Gaudì [Dennett, , p. 456].


- Sono io l’artefice del mio essere.

- Mi dispiace per te, ma staresti meglio se ti riconoscessi come una manifestazione provvisoria del divenire.

- Parla per te, per quanto mi riguarda sono io che scelgo quello che voglio e cosa faccio.

- Secondo te, quindi, tutto comincerebbe con te.

- Certo, ci sono io che decido di relazionarmi a te se mi va, o di fare una cosa o un’altra.

- E come lo faresti?

- Che discorsi! Lo sanno tutti che siamo gli esseri razionali che sanno quello che fanno.

- Eppure spesso facciamo cose delle quali poi ci pentiamo, accorgendoci di aver sbagliato.

- Può succedere, ma è un caso.

- Non direi, a me capita spesso.

- E come te lo spieghi?

- Mi pare che gli altri e le situazioni, la nostra storia e come siamo fatti vengano prima di ognuno di noi.

- Come? Vuoi dirmi che vengono prima le relazioni e poi i soggetti?

- Eh! Sì. Siamo figli di una relazione ed è difficile pensare a un “io” senza un “noi”.

- E tutto quello che ognuno è capace di fare? Progetti, soluzioni?

- Ogni progetto nasce da un processo, non da un progettista intelligente, che è quello che lo esprime.

- E quest’ultimo allora chi è? Chi è l’individuo?

- Sempre più pare che sia un “dividuo” che piuttosto che un’“identità” è una “diventità”.

- Se ti seguo mi sento disperso negli altri e nelle situazioni… parte di un processo più grande di me.

- Forse, allora, adesso sei un po’ più corrispondente a quello che effettivamente sei.

 

È la “strana inversione del ragionamento” di Charles Darwin, uno dei punti di attacco arguti e affascinanti di Daniel Dennett: “un processo senza un Progettista Intelligente può creare progettisti intelligenti che poi possono progettare cose che ci permettono di capire come un processo senza un Progettista Intelligente possa creare progettisti intelligenti che poi possono progettare qualcosa” (D. Dennett, Dai batteri a Bach. Come evolve la mente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018; p. 85). Questo è solo un modo di porre le cruciali questioni che Daniel Dennett si pone alla ricerca delle vie per comprendere cosa significhi essere umani. 

 

 

Il paradosso della conoscenza di noi stessi è forse inaggirabile: per parlare di se stesso, l’unico animale che dispone di un linguaggio verbale articolato, non può non, per il fatto stesso di parlare, tirarsene fuori; può solo cercare di prendere una certa distanza. Da un lato per conoscere un sistema bisogna farne parte, dall’altro per vederlo e parlarne è necessario tirarsene fuori almeno in parte. Mentre le cose coincidono con se stesse e a sollevarle da dove se ne stanno appiattate può essere solo un atto percettivo, una considerazione da parte di un essere mobile capace di avere un controllo rapido derivante da un sistema nervoso con un controllo centrale, una non-cosa, quindi; un essere umano non coincide mai con se stesso e ha la capacità di riconoscere e usare quella non coincidenza. Noi siamo la specie che dispone del “potere di non”. Questa è ancora oggi la chance a nostra disposizione. Nonostante i forti e inediti vincoli derivanti dai social media e dalla singolarità indotta e orientata vrso l’“affermativismo” narcisista, in ogni campo, può essere ancora la negazione che ci distingue, come ha ben documentato Paolo Virno nel tempo, e può essere ancora il gruppo a interporsi, facendo i conti con la propensione a ricondursi a massa e l’emancipazione individuale e collettiva, favorendo l’affermazione di una cittadinanza e di una società basate sul pluralismo. L’analisi del rapporto tra la distinzione specie specifica della capacità di “tirarsi fuori” e di “dire di no” e le sue implicazioni filosofiche e politiche è affrontata efficacemente da Benjamin Noys in The Persistence of the Negative: A Critique of Contemporary Continental Theory, Edinburgh University Press, 2010. Solo queste capacità, del resto, possono affrontare la tendenza dominante dei social media ad esaltare la singolarità e la comunicazione rapida, disimpegnata e acritica, moltiplicando la solitudine e dando vita a relazioni alienate e senza impegno.

 


La contraddittorietà dell'umano è poi forse a sua volta inaggirabile; una delle domande diventa: è possibile sentire senza almeno in parte vivere il risentimento? Esiste il totale appagamento? E come mai la noia? A contare sono gli indecidibili, come li chiamava Heinz von Foerster. Per avere a che fare con un indecidibile ci vuole un essere umano: quell’essere che sa dire di no e che conosce la noia, quella strana sensazione di non azione che non è il riposo dopo la fatica per sopravvivere, ma l’insopportabilità della ripetizione. L’aveva ben compreso un umano tra i più sensibili come Gilles Deleuze, quando aveva teso una domanda tra ripetizione e differenza, trovando nella differenza la frontiera, la soglia della macchina desiderante che noi siamo, lo spazio e il tempo del sentirsi vivi. Perché a vivere son capaci tutti i terrestri del sistema vivente su questo pianeta che è il luogo della nostra avventura. Sentirsi vivere è però diverso. Quella è una questione che riguarda chi non solo sa ma sa di sapere, non solo vive ma sa di vivere, non solo muore ma sa di morire. E da quella consapevolezza della finitudine, mentre è in grado di concepire l’infinito, quell’essere che noi siamo trae le ragioni del proprio agire poetico e del proprio scontento. 

Aprendo le porte alla misteriosa questione, Dennett si chiede come una mente capace di comprendere possa essere emersa dai processi non intenzionali della selezione naturale. Come possa essere accaduto che un processo tacito e non intenzionale abbia dato vita a una sua parte, noi umani, che siamo capaci di intenzioni, rimane una domanda in gran parte irrisolta e più o meno equivalente a un’altra domanda: come fa un pugno di materia grigia a produrre pensieri?

 

Basterebbe il confronto serrato che Dennett stabilisce tra una vongola, un rastrello per vongole, una cosa, e il creatore di quel rastrello: “la vongola ha miliardi di parti mobili complicate, mentre il rastrello per le vongole ha soltanto due semplici parti fisse, però deve essere stato fabbricato da un essere vivente, un essere decisamente molto più notevole di una vongola” (p. 84). Ad essere decisiva è la domanda di Dennett: 

Come fa un processo lento e stupido a costruire qualcosa capace di costruire qualcosa che un processo lento e stupido non sarebbe capace di costruire?” (corsivo nel testo, p. 84).

L’ipotesi di Dennett in questa summa godibile e approfondita è che un cambiamento cruciale nella storia della vita sulla Terra si sia prodotto quando gli esseri che poi si sarebbero definiti umani svilupparono la capacità di condividere modi di fare le cose non basati sull’istinto genetico. Da quel tempo in avanti è stato il processo di evoluzione culturale a plasmare una mente come la nostra, capace non solo di azione, percezione e controllo, ma anche di creare e comprendere. L’evoluzione culturale e quella proprietà che chiamiamo mente, nonostante tutte le astrazioni, sono qualcosa di diverso dalla loro origine naturale o, come suggeriva Giorgio Prodi, siamo di fronte a un processo naturalculturale? Si ripresentasse all’orizzonte un nuovo dualismo, ci saremmo di nuovo impantanati in una via senza uscita. Ci serve una prospettiva innovativa, un’epistemologia circolare che consenta di riconoscere come si sia passati, nel corso dell’evoluzione e con la nostra specie, dalla competenza alla comprensione: l’insieme di quei processi che consentono di capire cosa facciamo e di trovare un senso alle nostre azioni. Di questo, e in modo articolato e complesso, si occupa il libro di Dennett. 

 

Una considerazione iniziale appare quanto mai necessaria per impostare un dialogo con la serrata analisi di Dennett: nell’indice analitico del libro si cercano invano parole come “corpo”, “azione”, “sistema sensori-motorio”. Se esiste una frontiera della ricerca sul significato di essere umani oggi, questa corrisponde alla dimensione incarnata della mente o, come sarebbe meglio dire, al sistema corpo-cervello-mente. Eppure anche un esponente di punta della filosofia della mente, e lo stesso Maurizio Ferraris che scrive una importante post-fazione al libro, mostrano di tenere alti gli steccati disciplinari e ragionare secondo un approccio “as if”, come se il corpo in azione non esistesse e non fosse il punto di partenza per ogni approfondimento sulla mente e il comportamento umani. Mentre sono diffusi i riferimenti al cervello e alle sue funzioni, è come se quell’organo fosse estratto dal corpo in movimento di cui è parte, e al di fuori dell’intersoggettività in cui si esprime nell’emergere dei comportamenti. Viene in mente il cervello nella vasca della pièce scritta da Giuseppe O. Longo, o le riflessioni dello stesso D. Dennett, in Dove sono?, 1978, in Douglas Hofstadter e Daniel DennettL'Io della mente, traduzione di Giuseppe Longo, Adelphi, 1993; ma anche le considerazioni di Hilary Putnam nel suo Brain in a Vat. Nonostante il fondamentale contributo di Dennett si impegni ad andare oltre il dualismo e la ricerca della causa prima, sembra che noi umani disponiamo di una mente che adotta il dualismo e la causalità come caratteristiche tacite del suo stesso funzionamento. Per questo viene da domandarsi dove va la mente senza il corpo, alla luce degli approfondimenti sull’embodied simulation e l’intersoggettività così come sviluppati principalmente dai contributi di Vittorio Gallese. Eppure Dennett si prodiga con molta efficacia a mostrare che siamo noi a cercare ossessivamente le risposte a domande simili a: “come mai?”; “per quale motivo?”. “Così come non esiste il Primo Mammifero, il primo mammifero che non aveva un mammifero per madre, non esiste la Prima Ragione, la prima caratteristica della biosfera che aiutò qualche cosa a esistere rendendola più capace di esistere rispetto alla ‘concorrenza’” (p. 53). Riflettendo sulle origini delle ragioni, Dennett sostiene che la selezione naturale è di per sé un rilevatore automatico di ragioni, è priva di mente, non ha ragioni, ma ha nondimeno la competenza necessaria per far emergere l’evoluzione. 

 

Nel tempo in cui si possono scandagliare e raccogliere emozioni e sentimenti per vie algoritmiche, come sempre più si impegna a fare la cosiddetta sentiment analysis; nel momento in cui mediante le neuroscienze cognitive riconosciamo al corpo un primato sui pensieri della mente sia nelle scelte e nelle decisioni, che negli allarmi e nei comportamenti ordinari, è da un tempo come quello che viviamo che le cose cambiano alla radice. Accadono, in questo tempo, cose di particolare importanza, dalla guerra che smette di essere un’azione militare definita e compatta, diventando uno stato conflittuale permanente che penetra nelle nostre vite sotto forma di paure diffuse e di “vittimizzazione secondaria” (come abbiamo mostrato in Vittime senza compassione); ai social media che possono essere, e spesso sono, armi da combattimento a disposizione di tutti. 

 

In questo inedito scenario le democrazie risultano in via di profonda trasformazione in funzione del potere dei sentimenti sulla ragione, in modi che non possono essere negati, ignorati o respinti senza elaborazione. Emozionalismo e sentimentalismo sono sempre più sollecitati e prendono decisamente posto in prima fila nelle scelte politiche e nei comportamenti individuali. 

Certamente non è più possibile, in base a quello che sappiamo, separare razionalità da emozione, come ci confermano ampi e diffusi risultati di ricerca.

Un necessario esame di realtà ci può indurre a non limitarci a denigrare l’influenza dei sentimenti e delle emozioni nella politica e nelle nostre scelte, nella nostra razionalità limitata e nei nostri orientamenti; ci può altresì aiutare a migliorare la nostra capacità di ascolto delle emozioni e dei processi cognitivi del nostro sistema cervello-mente, apprendendo dal loro effettivo dipanarsi ed esprimersi. È William Davies, (in Nervous States. Democracy and the Decline of Reason, Jonathan Cape, London 2018), ad analizzare con attenzione le conseguenze che possono derivare alla democrazia dal trascurare le profonde trasformazioni considerate.

 

 

Le resistenze a riconoscere il primato del corpo e la mente come una sua proprietà emergente sono spesso spiegate sostenendo che così facendo, si fa riferimento al determinismo che ne deriverebbe rispetto al cambiamento possibile e alla generazione di innovazioni e trasformazioni. Sarebbe come dire che, siccome siamo portatori di embodied cognition, allora quella conoscenza è inevitabilmente fissa perché generata dal corpo nelle relazioni intersoggettive con gli altri e nelle contingenze ambientali. Si profilano, in questo modo di ragionare, tutte le condizioni di una resistenza a riconoscere i risultati della ricerca scientifica nella loro effettiva portata. Non solo è stato possibile verificare progressivamente la neuroplasticità del nostro cervello, ma anche l’intersoggettività, la simulazione incarnata e la molteplicità condivisa come caratteri peculiari e distintivi della nostra continua individuazione. Le neuroscienze sociali forniscono in questo campo prove di particolare rilevanza, tali per cui le resistenze si configurano più che altro come negazioni o rimozioni che finiscono per impedire di effettuare un esame di realtà, che solo può consentire di accedere a una concezione più appropriata di noi stessi e, soprattutto, dei vincoli e delle possibilità del cambiamento e dell’innovazione nella nostra esperienza.

Se a distinguere gli esseri umani è, dal punto di vista evolutivo, il passaggio dall’essere competenti alla capacità di comprensione, dando un senso al mondo e a noi stessi, allora approfondire come funziona la mente umana vuol dire, prima di tutto, chiedersi come in natura si passi da quella che con Darwin possiamo chiamare Ignoranza Assoluta, all’essere che noi siamo, capace di creare città, teorie, poesie, aerei e computer. Non solo, ma come accade che oggi i computer “potrebbero realizzare intelligenze artificiali con capacità creative persino superiori a quelle dei loro creatori umani” (p. 167). 

Esiste una “competenza senza comprensione”, ci dice Dennett, e si sofferma a lungo sulle molteplici prove di questa diffusa situazione che produce un saper fare senza previa conoscenza che accomuna oggetti tecnici e, in buona parte delle loro prestazioni, animali umani e non umani. “Le geniali idealizzazioni di Shannon, Turing, von Neumann, McCulloch e Pitts”, scrive Dennett, hanno portato a una tale esplosione della competenza nel trattamento dell’informazione che oggi in generale si suppone non solo che il cervello sia soltanto un qualche tipo di computer digitale organico, ma anche che i computer basati sul silicio saranno presto dotati di un’intelligenza artificiale che supererà il cervello umano in tutte le realizzazioni delle capacità creative” (pp. 166-167).

Nonostante il lavorio continuo di falsificazione sulla cosiddetta supremazia umana, spesso accompagnato da gustose ironie e icastiche critiche, Dennett giunge a un’affermazione che consente di comprendere il punto di arrivo della sua approfondita speculazione. Egli, infatti scrive: “Homo sapiens è l’unica specie (finora) con una cultura pienamente cumulativa e l’ingrediente fondamentale della cultura che permette questa sua proprietà è il linguaggio” (p. 194). Allo stesso tempo, proprio il linguaggio come principale fonte di accumulazione della cultura, ha portato la specie a sommergere il pianeta, trasformando l’ambiente e scatenando un evento di estinzione che potrebbe eguagliare le grandi estinzioni di massa. Questo scarto che potrebbe diventare particolarmente problematico per la specie dipende in buona misura dal fatto che, come scrive Dennett, “Il linguaggio si è evoluto per adattarsi al cervello prima che il cervello si evolvesse per adattarsi meglio al linguaggio” (p. 213). Così il ruolo delle parole nell’evoluzione culturale porta non solo a una costante ricerca di approssimazione, ma anche a una continua tensione ad andare oltre i significati già noti. “Le parole sono affordances che il nostro cervello è stato progettato (da processi evoluzionistici) per cogliere, come afferma Gibson, e permettono ogni sorta di utilizzo”, secondo Dennett (p. 223). Con affordance (invito all'uso) si definisce la qualità fisica di un oggetto che suggerisce a un essere umano le azioni appropriate per manipolarlo. Ogni oggetto possiede le sue affordance, così come le superfici, gli eventi e i luoghi. Anche le parole presentano una particolare potenza evocativa e sollecitano azioni fin dalle dinamiche cerebrali implicite e involontarie. Le parole che danno vita ai meme, unità elementari di comportamento-informazione, che secondo Richard Dawkins sono un tipo di modi di comportarsi che possono essere copiati, trasmessi, ricordati, insegnati, evitati, denunciati, esibiti, ridicolizzati, parodiati, censurati, consacrati, costituiscono la pratica sociale della persuasione da cui derivano il ragionamento e le argomentazioni logiche. In questo modo non solo si costruiscono le forme diversificate di influenza sociale, ma emergono anche i limiti della nostra razionalità. “Il famoso bias della conferma”, scrive Dennett, “è la nostra tendenza a dare risalto alle prove favorevoli alle nostre credenze e teorie del momento e a ignorare le prove che le confutano” (p. 240). Insomma pare proprio che le nostre capacità siano state messe a punto per prendere posizione, per persuadere gli altri in un dibattito, non necessariamente per fare le cose per bene. Disponiamo di un talento che favorisce decisioni facili da giustificare ma non necessariamente migliori. 

I memi però, dopo che ne ha considerato le funzioni possibili, non fanno una buona fine nelle mani corrosive della critica di Dennett, come del resto capita a tutto quanto si configuri come una ricerca dei cosiddetti motivi. Piuttosto che sulla domanda per quale motivo, la ricerca di Dennett si concentra sul come mai si verificano certi fenomeni, a partire dalle domande sulle origini della vita e del linguaggio. “Così come non esiste il Primo Mammifero, il primo mammifero che non aveva un mammifero per madre, non esiste la Prima Ragione, la prima caratteristica della biosfera che aiutò qualche cosa ad esistere rendendola più capace di esistere rispetto alla concorrenza” (p. 53). Sono state con ogni probabilità entità capaci di persistere, strutture abbastanza stabili da restare in circolazione abbastanza a lungo da subire modifiche senza sparire, a dare vita a quello che progressivamente ha preso forma. La competenza senza comprensione, propria delle principali parti del vivente e in buona misura anche dell’esperienza umana, ha probabilmente queste ragioni e caratteristiche. La stessa comprensione del resto emergerà dalla ricerca di Dennett come manifestazione di competenze e non come fonte di competenze. Noi esseri umani appariamo come utilizzatori riflessivi di strumenti per pensare. L’evoluzione per selezione naturale della cultura, intesa come parole, metodi, rituali e stili, è comprensibile all’interno di “spazi darwiniani”, secondo la definizione di Godfrey-Smith in Darwinian Populations and Natural Selection.

 

La mia tesi è che la cultura umana iniziò profondamente darwiniana, con competenze senza comprensione che produssero varie strutture preziose più o meno nello stesso modo in cui le termiti costruiscono i loro castelli, poi gradualmente si dedarwinizzò, diventando sempre più capace di comprensione e di organizzazione top-down, sempre più efficiente nei suoi modi di esplorare lo spazio dei progetti. In breve, mentre si evolveva la cultura umana si nutrì dei frutti della propria evoluzione e aumentò le proprie capacità progettuali utilizzando l’informazione in modi sempre più potenti” (p. 162-163). 

 

Anche se l’origine evolutiva del linguaggio è tuttora un problema irrisolto, l’avvento del linguaggio ha preparato il terreno per un altro grande momento della storia dell’evoluzione: l’origine della comprensione. L’evoluzione del linguaggio ci può permettere di comprendere come mai sia accaduto e come sia possibile che la comprensione umana risulti alla fine composta dalle attività di neuroni che sono privi di comprensione.

Come molti altri animali, noi possiamo compiere molte azioni abili giustificabili a posteriori, avendo soltanto una vaga idea di ciò che stiamo facendo, un’idea che spesso viene messa rapidamente a fuoco a posteriori con l’attribuzione di ragioni. “Quest’ultimo passo lo facciamo solo noi”, sostiene Dennett (p. 375). Non solo attribuiamo ragioni ma usiamo strumenti per pensare per progettare le nostre azioni future. “Nessun altro animale lo fa” (p. 376). Allo stesso tempo siamo capaci di illusioni e di manipolazioni: ne pratichiamo continuamente. La stessa comunicazione umana, più che alla cooperazione, è di fatto orientata alla manipolazione e basata su essa. “Un organismo incapace di bluffare, che comunica il proprio stato direttamente a tutti, è un bersaglio facile e non avrà lunga vita”, scrive Dennett, citando von Neumann e Morgenstern.

Se ci chiediamo come diventiamo manifesti a noi stessi, con tutta la nostra complessità, appare evidente come il nostro punto di vista in prima persona sulla nostra mente non sia molto diverso dal nostro punto di vista in seconda persona sulla mente degli altri. Non vediamo né sentiamo il complicato apparato neurale sempre attivo del nostro cervello, ma dobbiamo accontentarci di una versione compendiata, interpretata, quella che Dennett chiama argutamente un’illusione dell’utente. “L’accesso che abbiamo al nostro stesso pensiero, e in particolare al rapporto di causa ed effetto tra le sue parti subpersonali e alla loro dinamica, in realtà non è migliore dell’accesso che abbiamo ai nostri processi digestivi: dobbiamo fare affidamento sul canale piuttosto stretto e ampiamente rielaborato che risponde alla nostra incessante curiosità con giudizi di facile comprensione, e tutto ciò è più vicino al vero me solo di un passo rispetto all’accesso al vero me che possono avere i miei familiari e amici” (p. 381). “Opporsi e insistere a sostenere che della vostra coscienza voi ne sapete di più solo perché è la vostra vuol dire cadere nel dogma” (p. 87). 

Fuori dal dogma con Dennett incontriamo Socrate che, citato, sostiene: “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”. Pur essendo guidati da processi senza comprensione che incessantemente estraggono informazioni – regolarità statistiche che possono guidare miglioramenti progettuali – da ciò che è accaduto, l’immaginazione umana sembra proprio essere un fattore importante che modifica la situazione, permettendoci di creare

“Una mente umana cosciente non è un miracolo”, afferma da ultimo Dennett, “non viola i principi della selezione naturale, ma è una nuova estensione di questi principi” (p. 439). Citando il biologo evoluzionista Stuart Kauffman, Dennett fa riferimento al concetto di possibile adiacente: il nostro possibile adiacente nello spazio dei progetti è diventato molto più grande perché abbiamo sviluppato la capacità di concepire tali regioni e di ricercarle o evitarle. “E se il nostro futuro seguirà la traiettoria del passato – il che è in parte sotto il nostro controllo – le nostre intelligenze artificiali continueranno a dipendere da noi anche se noi, con prudenza, diventeremo più dipendenti da loro” (p. 455).

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