Carnet geoanarchico | 4 / Dal cuore del caos

14 Settembre 2018

Questa notte ho avuto un incubo. Credevo di essere sveglio nel mio letto. Il ronzio di un bimotore nel cielo. Le ombre delle fronde degli alberi che si piegavano e polverizzavano, come nell’esperimento atomico del Nevada del 1952. Io non potevo muovermi e un cinegiornale mi bruciava le retine senza il soccorso pietoso delle palpebre. Le immagini mostravano il mio paese in preda a un delirio politico. Vecchi compagni di sinistra mostravano i denti come fantocci fascisti. Nuovi fascisti adottavano temi e retoriche della sinistra storica, ovviamente riorientati e distorti. La gente si fasciava la testa prima di essersela rotta, si autocensurava prima che fosse tornata la censura, alzava il termometro della paura senza minacce dirette. Tutta la stampa cartacea e digitale si arroccava nel proprio canone, nei propri stilemi, nelle proprie abitudini cognitive, come se accogliere una voce diversa dalla propria corrispondesse a un’erosione e a una perdita d’identità.

 

L’isteria collettiva del nuovo indecifrabile tornado politico rendeva gli amici diffidenti verso tutto ciò che non somigliava a quello che già conoscevano, e che ancora li rassicurava. A un certo punto un volto di donna che nascondeva a malapena il terrore confermò a sette miliardi di persone che le teorie del complotto erano tutte false. Lo spettro ormai auspicabile di un ordo oeconomicus universalis si era definitivamente accartocciato. Gli alieni non sarebbero più venuti a salvarci o a regalarci un’Apocalisse risolutrice. Eravamo soli con noi stessi. Poi il cinegiornale si è spento e nel ronzio del ventilatore e nell’oscillare delle fronde sotto il temporale mi sono svegliato e ho capito che non era un incubo. Era semplicemente adesso.

 

Ph Ryan Pernofsky.


Nella confusione mi aggrappavo a qualcosa, come un elefante a un filo d’erba: dal cuore del caos sentivo che era arrivato il momento di rifondare un immaginario politico e un linguaggio adeguato per esprimerlo. Scrittori e poeti. Antropologi e artigiani. Gente capace di esprimere coraggio nella palude di una sconfitta che non era la nostra. Che non era la mia. Pensavo queste cose come un mantra, provavo a fare un’analisi. Le strutture politiche e ideologiche della sinistra intellettuale hanno subito un terremoto, stanno vivendo un disorientamento che tende al silenzio e all’immobilità. La rinuncia a un pensiero utopico e l’impoverimento fino alla sterilità dell’immaginario politico hanno lasciato terreno a una retorica che se ne infischia totalmente delle decostruzioni, delle raffinate disamine intellettuali, di fonti, documenti e prove. Perché le ideologie radicali sono sistemi chiusi.

 

Non si decostruiscono e non si smantellano in modo dialettico. Immagini di bambini morti spiaggiati, di staffettiste nazionali color caffellatte, indignados on line per un ministro fotografato in piscina, spiegoni veteromarxisti scritti a Montmartre, o lo sfottò ridanciano che normalizza e sdogana l’assurdo e l’orrore. Niente di tutto questo funziona più. Anzi, si ottiene lo stesso effetto del sarcasmo snob che è stato lo sport di molti intellettuali nostrani, dai congiuntivi sbagliati, ai sottosegretari che non leggono da tre anni, all’irrisione delle sottoculture. Una tattica perfetta per allontanare la base perché, in fondo, chi non ce l’ha un parente che non legge o che sbaglia qualche volta i congiuntivi? Ma il punto è un altro. Il paradigma di riferimento è cambiato.

 

Non abbiamo più a che fare con la verità, ma con la credenza. Ero in treno l’altro giorno e Simone Ghiaroni, da antropologo, me lo confermava: nessuna religione teme la razionalità o l’empatia, quello che teme è un’altra religione, con nuovi simboli, nuovi miti, nuovi riti. Non si combatte la credenza fascista con la ragione. Bisogna cercare un immaginario vergine da contrapporre a quello egemonico. Ma dove? Lontano? Non è che il lontano, quello dell’altro e dell’altrove, è forse già qui? Pensiamo ad esempio all’Africa. Un immaginario smisurato e ignoto che sta arrivando in Italia sui barconi. Non quello dell’islam o dell’animismo o del cristianesimo sincretico, ma un immaginario quotidiano, a noi praticamente sconosciuto, lontano anni luce dallo stereotipo di povertà e sottosviluppo che incolliamo all’Africa.

 

Non penso tanto all’arte, alla musica, alla letteratura subsahariane, penso a visioni della morte, della malattia, della nascita, della donna e del corpo che abitano già in Europa nei mille ghetti neri da Parigi a Palermo. E poi i nuovi schiavi, come le colf tamil e le badanti rumene. Ma chi sono? Che cosa sognano a parte una vita migliore? Guardo il soffitto da questo letto devastato, e sento che siamo qui, in una specie di breve confuso interregno, un periodo-ponte in cui non si tratterà solo di arginare la marea del catrame fascista, ma di preparare la comprensione di quello che sta per accadere. Le destre nazionali parlano di sostituzione etnica. Ma non sarà una sostituzione. Sarà un’osmosi dialettica. Lenta, dolorosa, violenta. Ci vorrà moltissima immaginazione per restare uomini.

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