Democrazia e simboli / Dante e Pinocchio, fratelli d'Italia

5 Giugno 2021

Quando una democrazia è debole ricorre ai simboli che unificano: simboli spossessati di qualsiasi rapporto con la realtà e funzionali alla rappresentazione di una comunità ideale. Servono, questi simboli, a eliminare i conflitti e favorire l’armonia: che è fittizia, naturalmente, perché una società moderna, democratica e funzionante si dovrebbe fondare sulla differenza anziché sull’omologazione, tranne nei casi in cui l’uniformità venga costruita a forza, com’è avvenuto storicamente, ahinoi, con i regimi totalitari. Nel caso italiano il simbolo unificante per eccellenza è Dante, cui è stato ora dedicato un giorno memoriale, il Dantedì, che si è celebrato il 25 marzo con grande clamore di iniziative, pagine giornalistiche, invenzioni figurative, riedizioni, letture e video: basta aprire i siti dei principali quotidiani italiani per trovare interviste ai discendenti di Dante, viaggi nell’Italia di Dante, sproloqui sul padre della patria e il padre della lingua, inviti alla coerenza e all’impegno, ecc. ecc.

 

Dante onnipresente, vera e propria icona pop, che va dalle canzoni di Gianna Nannini su Pia de’ Tolomei e Caparezza su Filippo Argenti fino agli oli di Guy Denning e i graffiti di Kobra: un Dante dappertutto, sorprendentemente simile a quel Dante monumento che segnò la topografia italiana tra il Risorgimento e il Fascismo, quando sorsero piazze Dante, con monumenti a Dante, in tutta Italia, col culmine simbolico in quella piazza Dante a Napoli che segna l’identità tra Dante e l’Italia nelle parole di chi la promosse, spostandone definitivamente la ricezione dall’universo letterario a quello patriottico: se «Dante a Firenze è un grand’uomo», «Dante a Napoli raffigura l’ingegno, il sapere, le sventure, le glorie, le fatiche, le speranze e tutta la vita dell’intero Popolo Italiano». 

 

Nel 1938 gli architetti Giuseppe Terragni e Pietro Lingeri presentarono addirittura il progetto di un Danteum, un edificio che avrebbe dovuto riprodurre l’architettura della Divina Commedia, che sembra riecheggiare oggi nella proposta di costruire un parco dantesco da parte di un lettore del Corriere della Sera in una lettera ad Aldo Cazzullo, che diventerà un benemerito della Repubblica perché ha accolto la proposta con gioia e se ne farà promotore ai livelli più alti. Nelle intenzioni dell’ideatore del Danteum, Rino Valdameri, allora direttore della Reale Accademia di Brera a Milano e presidente della Società Dantesca Italiana, l’opera avrebbe dovuto «suggerire ed aiutare tutte quelle iniziative che fomentino ed attestino il carattere imperiale dell'Italia Fascista». Il Danteum non fu mai realizzato, ma dopo la nascita della Repubblica un parco simile a quello che viene oggi proposto fu ideato da Roberto Anzillotti, democristiano sindaco di Pescia, quando si trattava di cementare l’unità italiana dopo la fuoriuscita dal fascismo e la nascita della Repubblica: il parco di Pinocchio a Collodi, nel nome dell’altra grande icona nazionale, quel Pinocchio che più e peggio di Dante è entrato nel Pantheon pubblico per rappresentare vizi e virtù degli italiani. Ancona batté Pescia, però, nella corsa al monumento a Pinocchio, perché allora come oggi era questione di primato nazionale e orgoglio municipale, in una gara a fregare il vicino e farsi belli di simboli vuoti. In un video dell’epoca si può vedere l’abbraccio tra il sindaco di Ancona, il repubblicano Francesco Angelini, e il ministro della marina mercantile Fernando Tambroni, democristiano, a sancire quella conciliazione nazionale che è sempre servita, in Italia, a sedare i conflitti e recuperare i corrotti: tutti insieme, in un grande abbraccio, perché in fondo il gatto e la volpe non sono tanto cattivi e basta un condono per riabilitarli. 

 

Dante e Pinocchio s’incontravano proprio nell’era fascista, quando un oscuro scrittore per bambini, Bettino d’Aloja, s’inventava il viaggio di Pinocchio nell’aldilà dantesco, in tre albi illustrati che furono pubblicati dell’editore Nerbini di Firenze (l’editore di Topolino, Mandrake e Flash Gordon) con le vignette di un anonimo disegnatore (che forse era Giove Toppi, il primo disegnatore italiano di Topolino). Pinocchio a Dante chiedeva soprattutto il segreto per andare bene a scuola nelle interrogazioni sulla Divina Commedia, ma scopriva presto che Dante, pur parlando solo in terzine, era un materialone dedito principalmente a mangiare, e a difendere Beatrice dalle insidie di Virgilio, fino a vedere capovolti i loro rapporti, con Pinocchio a venire riconosciuto e celebrato dal suo concittadino e predecessore per la sua fama universale:

 

A quello di Fiorenza il benvenuto!

A lui la mano io stringo con affetto

Perché al par di me è ovunque conosciuto.

 

Se Dante fu «l’Italiano più italiano che sia stato mai», come scriveva Cesare Balbo nel 1853, «Pinocchio è la prova che l’Italia esiste», come ha proclamato Ludovico Incisa di Camerana nel 2004: fratelli nel nome dell’Italia, sottratti alla letteratura e divenuti sacerdoti della nazione. A entrambi viene chiesta la legittimazione delle politiche dominanti, degli intellettuali cantori delle magnifiche sorti e progressive della borghesia italiana e dei governi che sanno chiamare a raccolta i migliori del presente intorno ai migliori del passato.

Un condono nel nome di Dante non si è ancora visto, per fortuna, ma da fustigatore dei vizi pubblici, quale storicamente fu, il poeta è diventato senz’altro celebratore delle virtù nazionali: «maestro di color che sanno», come il suo Aristotele, a legittimare la presunzione borghese di essere depositaria del buon senso, della cultura razionalista e della civiltà progressista. Questo è diventato Dante nelle celebrazioni, dall’Ottocento fino al grande ritorno di questi giorni: il buon borghese, capace di dettare l’agenda politica nel nome di tante belle parole, lotta alla corruzione, condanna del degrado e trionfo della nostra lingua. Basterebbe rileggere l’accusa che rivolgeva un intellettuale anticonformista come Giuseppe Prezzolini a uno dei più seri e rigorosi dantisti del secolo scorso, Ernesto Giacomo Parodi, al tempo della polemica tra dantofili, gli amici di Dante, e dantofobi, coloro cui Dante faceva paura e persino repelleva: anziché fonte di creatività, invenzione linguistica e comportamenti eccentrici, nelle mani degli accademici Dante era divenuto paradigma di «quella borghese onestà che forma per il Parodi l’essenzial carattere del metodo storico», esempio cioè di laboriosità meticolosa, paziente e tenace, ma inesorabilmente noiosa, pedante e greve. 

 

 

Prezzolini era l’autore insieme con Giovanni Papini di La coltura italiana, un libro che è decisivo per capire il rapporto tra cultura e identità nazionale in Italia e che andrebbe urgentemente ripubblicato.  Il capitolo centrale, a firma di Papini, era dedicato a Dante, rielaborazione di un articolo in rivista di pochi mesi prima in cui l’autore aveva individuato perfettamente il nesso, tanto decisivo quanto inutile, e che pure si protrae fino ai giorni nostri, tra Dante e l’italianità:

Alcuni adulatori di loro stessi e dell’Italia contemporanea hanno inventato questa legge: quando l’Italia è stata grande ha studiato molto Dante. Corollario: il nostro tempo si occupa moltissimo di Dante, dunque il nostro tempo è grande e noi, che ci occupiamo di Dante, partecipiamo di questa grandezza.

Bisognerebbe allora non solo tornare a leggere Dante, come invitava a fare Benedetto Croce in occasione del centenario di un secolo fa, che andrebbe ripercorso per capire cosa successe allora e cosa sta succedendo oggi, ma soprattutto demolire alcuni miti che sono stati costruiti nel corso del tempo per spossessare Dante della sua identità storica a favore di una fruizione ideologica, destituendolo dal ruolo cui proprio lui teneva di più, quello di poeta (che per lui voleva dire poeta cristiano e visionario), per conferirgli quello che gl’interessò solo prima dell’esilio e della Commedia, quello di politico.

 

Il primo di questi miti è quello di padre della lingua italiana, che è naturalmente una costruzione a posteriori, perché Dante si valse a sua volta di chi aveva scritto prima di lui, com’è normale che avvenga nello sviluppo linguistico. Il punto decisivo non è tanto la ricchezza del linguaggio dantesco, che ha finito col definire il vocabolario dell’italiano moderno, ma il suo stile: Dante è grande maestro di lingua perché parla (e scrive) male, anziché bene. Bisogna naturalmente intendersi su cosa voglia dire male, perché Dante scrive ovviamente benissimo, in quanto ha una padronanza straordinaria dell’endecasillabo e della versificazione; ma a quel tempo la Commedia sembrò sommamente inelegante ai suoi lettori colti. Dante usa infatti uno spettro linguistico talmente vario da far paura a chi è difensore del bello stile, del bon ton linguistico, dell’omogeneità espressiva e dell’armonia sintattica: come può permettersi un poeta di far dire a un’anima del Paradiso «lascia pur grattar dov’è la rogna», che tanto dispiaceva ai più antichi lettori? Questi, incluso Petrarca e fin dentro il Rinascimento, disprezzarono la popolarità di Dante, che scriveva in volgare anziché in latino, che adottava linguaggi rozzi e plebei, che favoriva la mescolanza e l’invenzione, fino a piacere a tintori, bettolai e lanaioli invece di starsene in disparte in compagnia di Omero e Virgilio. La varietà e apertura della lingua dantesca scandalizzava il grande fondatore della lingua italiana, Pietro Bembo, che gli rimproverava di aver preso, al fine «di poter di qualunque cosa scrivere, che ad animo gli veniva, quantunque poco acconcia e malagevole a caper nel verso», tutte le parole che gli capitavano, incluse «ora le latine voci, ora le straniere, che non sono state dalla Toscana ricevute, ora le vecchie del tutto e tralasciate, ora le non usate e rozze, ora le immonde e brutte, ora le durissime usando, e allo ’ncontro le pure e gentili alcuna volta mutando e guastando, e talora, senza alcuna scielta o regola, da sé formandone e fingendone». Peggio di così...

 

Un libro recentissimo, di un grande filologo che è anche editore del testo critico della Divina Commedia, ha messo in rilievo come Dante introduca la parolaccia nel suo poema perché non è più il poeta della Vita Nuova, che punta alla spiritualizzazione del discorso amoroso, ma è il poeta della scoperta della varietà e contraddittorietà dell’esperienza umana: è diventato, per usare la terminologia del grande retore latino Aulo Gellio, da aristocratico, proletarius. Proletario in effetti Dante si trovò a esserlo a seguito dell’esilio, perché da nobil signore legato ai poteri cittadini della Firenze comunale all’improvviso si trovò ad assaporare quanto «sa di sale lo pane altrui»: decaduto, vittima di vergogna sociale, costretto a mendicare ospitalità vendendo la sua intelligenza in cambio di un piatto di zuppa. Perciò scelse di sfidare, dall’interno, i nobili, da ospite ingrato, espressione di un suo grande ammiratore, Franco Fortini, che lo leggeva materialisticamente. Usando le parolacce, prima di tutto: da «merda» a «sterco» a «culo» a «puttana», che contrappuntano Inferno e Purgatorio, fino a «rogna» nel Paradiso, come abbiamo detto.

Non si trattava però di parolacce, come spiega l’autore del libro, Federico Sanguineti, perché Dante non concepiva la contrapposizione tra bella e mala parola: la varietà del linguaggio esprime la varietà dell’umanità. In questo senso la parolaccia dantesca potrebbe diventare davvero, soprattutto in tempi di malattia fisica e morale diffusa, un farmaco: nel senso teorizzato da Jacques Derrida in un bellissimo libro su Platone, di cura dell’anima quando la risposta del corpo è insufficiente. Di restituzione del logos, cioè del diritto di parola, per cui Dante è strumento di liberazione della parola anziché codificazione della lingua. Padre della lingua, allora, sì, ma perché la lingua l’ha sfrenata, lanciandola a briglia sciolta, anziché rinchiuderla nelle istruzioni per l’uso e curiosità per semicolti che dominano oggi nel discorso pubblico nazionale.

 

Il secondo stereotipo da affrontare è quello del padre della patria: si tratta di una costruzione ottocentesca, come si sa, risalente alla lezione di Foscolo e Mazzini e De Sanctis, ma la retorica di cui a quel tempo si sentiva il bisogno per fondare, archeologicamente, un’origine comune e, genealogicamente, una storia collettiva, oggi rischia di spostare la percezione di Dante dal piano, complesso, ed estetico, della poesia, a quello, semplificatore, e moralistico, della propaganda politica. Colui che puntò più di chiunque altro nella storia della cultura occidentale a fondare la comunità sulla base di una contemplazione estatica e mistica (in quanto unione sentimentale tra gli esseri umani, la natura e il creatore) si è trovato sul versante del predicatore che lancia dall’alto norme e precetti di vita quotidiana ed etica civile. Davvero stucchevole e inutile, come stucchevole e inutile è stato il dibattito sull’articolo di uno scrittore tedesco, Arno Widman, che è stato interpretato troppo frettolosamente come attacco all’Italia e rivestito ancor più tardivamente da omaggio a Dante.

 

Proprio non ce n’era bisogno, visto che dell’una, la retorica sull’attenti, e dell’altra, la celebrazione a lingua in giù, Dante non saprebbe che farsene, lui così abituato a venire incasellato ed etichettato per poter nuovamente scappare e ripartire: dalle Cretinerie di Dante e dei dantisti (1904) di un tal Adonesi fino al ben più interessante Sur Dante (1965) del grande scrittore polacco Witold Gombrowitz (cui rispose usando la sola categoria critica, evidentemente invalsa, di cretinata Giuseppe Ungaretti: «une pure crétinerie», con un’incomprensione simile a quelle del dibattito odierno), il poeta della Commedia è sempre stato attaccato proprio per l’accolita dei seguaci piuttosto che per supposti demeriti poetici. «Mai e poi mai sognò che sarebbe sorta una schiera di fanatici i quali gli avrebbero fatto dire milioni di cose che nemmanco immaginò, e che avrebbero creato la religione dantesca, così come avvenne col Cristo di Nazaret per opera dei suoi apostoli e discepoli», esordiva l’Adonesi, salvo far seguire al nobile tono polemico dell’apertura la serqua delle sue proprie castronerie nel nome dell’interpretazione letterale contro ogni tensione allegorica dei commentatori. Se la prendeva con la folla degli adoratori anche Gombrowitz, in maniera più sottile e provocatoria:

 

Le prestige de la Comédie repose uniquement sur le rite interhumain d'adoration qui reflète purement et simplement le rite interhumain des chants dantesques. Lui, là-bas, est en train de célébrer son office — donc eux, ici, se prosternent à ses genoux. Cette adoration-là est d'ailleurs la meilleure preuve que personne ne croit au poème.

 

Frotte di seguaci irregimentati e genuflessi idolatri hanno ucciso la poesia dantesca – così come schiere di acritici e compiaciuti narcisi stanno riducendo l’italianità a un mito senza più vita. Più che un parco dantesco, ennesima occasione per trasformare la cultura in intrattenimento per le masse anziché strumento d’indagine critica e conquiste intellettuali, è forse arrivato il momento di ideare un parco per tutti quegli insegnanti che Dante lo leggono, con amore e con fatica, quotidianamente in classe. Col giusto sottofondo del momento: Metti un po’ di musica leggera perché ho bisogno di Dante, anzi leggerissima... Metti un po’ di musica leggera nel silenzio assordante... 

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