Dopo la corsa e i Dubliners

11 Maggio 2014

«Le macchine puntavano in corsa su Dublino, filando come proiettili nel solco della Naas Road. Lungo la cresta della collina di Inchicore si erano raccolti gruppi di spettatori per assistere al ritorno e attraverso questo canale di povertà e d’inerzia fluiva l’industria e la ricchezza del continente: di tanto in tanto dalla folla s’alzava l’applauso di gratitudine dell’oppresso».

 

Così l’inizio di Dopo la corsa, quinto racconto di Gente di Dublino di James Joyce. C’è voluto quasi un secolo per riempire con un po’ di benessere quel «canale di povertà e d’inerzia» che era la Dublino di cento anni fa. Ora però che anche gli anni della Celtic Tiger sono finiti da un pezzo, per le strade di Dublino, la ricchezza del continente si tinge del merchandising che vende per 10 euro una maglia rosa e un cappellino. Me lo ha assicurato Michele Marziani, seduto su un muretto alla curva di Sutton, pochi chilometri prima di Dublino. Stava seduto lì a veder passare il Giro, anzi a vederlo volare via, come una marmellata di colori sotto la pioggia. E pensare che a Marziani del ciclismo non interessava proprio nulla fino a poco tempo fa. Poi, un suggerimento, un abbozzo, qualcosa meno di un’idea, che da balzana diventa una sfida: scrivere un romanzo non “su”, ma “intorno” a Marco Pantani. Marziani, riminese e dublinese a tempi alternati, artigiano della narrazione, ha scritto lo scorso anno Nel nome di Marco (edicicloeditore, 208 pp. 14,50 euro) e ha scoperto che il ciclismo è una fenomenale macchina di storie. Certo, la storia di Pantani, la sua ascesa e la sua caduta, sembrano di per sé un noir, ma anche quella di don Fausto, il prete tifoso, protagonista del romanzo, che parte da Oropa, dall’incredibile tappa vinta in rimonta dal Pirata al Giro del 1999, passa da Rimini, nella notte del 14 febbraio 2004 in cui morì Pantani e si chiude a Dublino. Forse proprio alla curva di Sutton.

 

Oggi le macchine di Dopo la corsa hanno due ruote e vanno a pedali, anche se vanno, eccome se vanno. Hanno corso a tutta, per riprendere i soliti fuggitivi di giornata: tra i cinque c’era ancora il vegetariano Maarten Tjiallingi. I treni delle squadre dei velocisti hanno infilato Dublino come se fosse la testa di una stazione ferroviaria, coi binari che corrono paralleli e poi si scambiano mettendo i brividi a ogni curva presa a 60, 70 km/h. Poi, sorpassato il Liffey, dopo una specie di chicane, sul rettifilo di Upper Merrion Street, come se fosse in cima alla scale della Sandycove Martello Tower, ecco apparire ancora lui, rimontando posizioni su posizioni, Marcel Kittel, portando in equilibrio sul manubrio «un bacile di schiuma su cui erano posati a croce uno specchio e un rasoio». La barba, sul filo del traguardo, viene servita all’incredulo Swift – Ben, non il reverendo Jonathan – , nelle sembianze del ponderoso sassone Haines, e a Elia Viviani, più stranito di Stephen Dedalus, con quel suo «nome assurdo, da greco antico». La maglia rosa resta sulle spalle dell’australiano Matthews: e non gli costa neppure 10 euro.

 

In collaborazione con Cycle Magazine

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