Dostoevskij. Una vita incredibile?

11 Novembre 2021
Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij, di Paolo Nori

 

Scrive Dostoevskij nei suoi Quaderni e Taccuini 1860-1881: «Il progetto. La neve fradicia» (QT, p. 413). La seconda parte delle Memorie del sottosuolo si intitola: A proposito della neve fradicia. È solo un caso che la neve acquosa e sporca ritorni sia come progetto di lavoro sia come titolo del secondo capitolo di uno dei più celebri volumi dell’autore russo? Nori afferma con chiarezza, in Sanguina ancora, che le opere di Dostoevskij da lui preferite sono Delitto e castigo e Memorie dal sottosuolo, il cui inizio lui stesso traduce così:

«Io sono un uomo malato…Un uomo cattivo, sono. Un brutto uomo, sono io. Credo di esser malato di fegato. Però non capisco una mazza, della mia malattia, e forse non so neanche cos’è che mi fa male. E non mi curo e non mi son mai curato, anche se stimo la medicina e i dottori, Oltretutto, sono superstizioso, moltissimo; be’, perlomeno tanto da stimare la medicina (ho studiato abbastanza da non essere, superstizioso, però sono superstizioso). No, ve’, io non voglio curarmi per cattiveria. E questo, probabilmente, è quello che non vi degnate di capire, Be’, invece io lo capisco» (SA, p. 200).

 

Nori, con questa traduzione semiscritta, semiorale, incespicata, ci guida a uno dei segreti di Dostoevskij: la rottura della cornice narrativa. Il personaggio balza subito, e ha come progetto di confessare il suo intimo inferno, fino ad apparire ripugnante e insopportabile. È il progetto della “neve fradicia”. La sua prosa sporca, cattiva, feroce, grottesca, “fradicia”, invischiata in un intrico di dialoghi, non lo consente. L’idea di uomo, grazie alla sua opera, si trasforma: ogni vivente è un essere corrotto dal male che non smette di confessare, interminabilmente, la sua colpa, sulla scia di Edgar Allan Poe e di Il cuore rivelatore. Commemorare la nascita di Dostoevski non è consacrare i capolavori di un sommo artista: è sgusciare dentro il meccanismo osceno del suo nudo narrare che ci mostra l’uomo come essere umiliato, in perenne ricerca di un riscatto. Il personaggio si propone al lettore come un criminale in attesa di giudizio. La scrittura diventa verbale delle colpe commesse e desiderio di redenzione e di perdono. Scrive Virginia Woolf: «Unico fra gli scrittori, Dostoevskij ha il potere di ricostruire questi stati mentali repentini e complicati, di ripensare l’intero flusso delle idee in tutta la sua velocità, simile a un treno mentre appare in un lampo di luce, per poi sbandare nell’oscurità subito dopo» (AR, p. 25).

 

Proprio questa velocità fa apparire i suoi personaggi contratti e convulsi, sempre sul punto di rivoluzionare il mondo o di precipitarsi a capofitto nella morte più stupida. Nori registra la sua opinione: «Secondo Bachtin, quasi tutti i romanzi moderni sono polivoci, ma quelli di Dostoevskij meglio e più degli altri, tanto che, secondo Bachtin, è difficile, nei romanzi di Dostoevskij, identificare la voce dell’autore, le opinioni dell’autore, perché le voci dei singoli personaggi sono così ben modulate. Così convincenti, così dignitose, così autorevoli, che è come se stessero lette sullo stesso piano. Quando Bachtin deve trovare un esempio contrario, nella letteratura russa moderna, cioè un’opera nella quale la voce dell’autore supera, mortifica, soffoca le voci dei personaggi, l’esempio è lì, a portata di mano: Lev Nikolaevic Tolstoj» (SA, p. 168).

 

Dostoevskij è inadeguato, increscioso, fuori luogo: l’esatto contrario del solenne, autoriale Tolstoi. Rinuncia a ogni seduzione stilistica; incalzato dall’impazienza e dall’angoscia, lavora furiosamente, incurante della forma; non illumina, oscura; sta a ridosso degli attori dei suoi romanzi; balbetta, incespica, blatera; come ossessi, gli Ivan e i Dmitrj inseguono e si chiamano libro dopo libro, in una casa dove non riescono mai a ritrovarsi, e sembrano sempre pronunciare l’ultima parola di una confessione definitiva, all’interno del loro teatro mentale. Nei suoi romanzi polivoci e frenetici le descrizioni esterne sembrano sommari frammenti. Dostoevskij predilige i dialoghi ansiosi e drammatici dove è l’interno dell’uomo a essere scoperchiato: questo è per lui un flusso vitale mai pacificato. La trama di ogni storia è un trasalire di emozioni, un crescendo di dolori, un furore represso. Dostoevskij scrive come se improvvisasse le sue fantasie tutte d’un fiato, caricato da una tensione che produce disgusti, amori, odi, rancori, rimorsi. «Eppure siamo assolutamente consapevoli del fatto che, se Dostoevskij non riesce a mantenersi nei limiti appropriati, è perché il fervore del suo genio lo spinge oltre il confine. È l’empatia che fa passare la sua risata dall’allegria a una violenta e bizzarra ilarità che non è affatto allegra» (AR, pp. 37-38).

 

Nori traversa l’autore russo con affettuosa e ironica allegria. Sanguina ancora è la mappa di un amore che si innesta nel tempo dello scrittore e nel proprio tempo. Il romanzo di Nori è anche il metaromanzo di come lui va scrivendolo giorno per giorno, rifiutando le noiose catene del saggio tradizionale o del romanzo biografico. La normalità è percepita con malcelato imbarazzo dallo scrittore russo. Nel racconto Bobok l’io narrante scrive, contro ogni ragionevole certezza: «Certo mi sta capitando qualcosa di strano. Anche il mio carattere sta cambiando, per giunta mi duole la testa. Comincio a vedere e a sentire delle cose strane! Non proprio delle voci, ma qualcosa come: “Bobòk, bobòk, bobòk”. E che sarà mai questo bobok! Ho bisogno di distrarmi un po’ e sono capitato a un funerale» (RS, p. 483). Chi ascolta le voci prima si sente vittima di un attacco delirante, dopo si accorge che quelle voci sono un borbottio pieno di vituperi e di accuse, che proviene dalle tombe stesse. I morti litigano come esseri vivi. Uno di loro sentenzia che, dopo la fine effettiva, restano ancora due o tre mesi di postvita: «L’importante sono questi due o tre mesi di vita, poi bobok! Io propongo a tutti di trascorrere questi due mesi nel modo più piacevole possibile… Signori, io vi propongo di non vergognarci!». I morti sono osceni, anima e corpo, in questo grottesco racconto funerario.

 

Si potrebbe azzardare che molti grandi scrittori del Nocevento emergano dal borbottio dostoevskiano, fino a Thomas Bernhard e Louis-Ferdinand Céline. L’eleganza sparisce per sempre dalla letteratura. Il nobile Turgenev appare un compassato scrittore borghese. Leggendo Dostoevskij ci si sente tutti sporchi, epilettici. Ci fa male il fegato, come all’inizio delle Memorie del sottosuolo, il racconto che anticipa le indagini freudiane sull’inconscio con la sua morbosa attenzione al masochismo e alla vergogna. La furia autodistruttiva dello scrittore ci consegna personaggi attoniti, idioti, reietti, suicidi, assassini.

Il sogno di un uomo ridicolo. Un racconto fantastico (RS, p. 573), scritto nel 1877, inizia come il monologo di un uomo ridicolo, tormentato, superfluo, stretto parente del protagonista di Memorie del sottosuolo. Gli si para davanti una bambina che grida “Mammina! Mammina!”. Lui non se ne cura, le grida contro, lei scappa. L’uomo medita il suicidio e si chiude nella sua stanza. Ma qui si addormenta e fa un sogno: si è appena sparato, è chiuso in una bara, la bara oscilla, e poi si spalanca e un essere sconosciuto lo trascina con sé nello spazio, lo fa volare, l’emozione è incredibile, quell’essere in volo gli mostra la terra, è bellissima, ma non è la sua terra, è una copia dove vivono solo uomini buoni, lui adora quella nuova terra, vuole viverci, là sono tutti innocenti, ma non appena comincia a viverci subito le cose cambiano, sa che corromperà quegli innocenti, sa che tutto tornerà come prima, allora si sveglia, ma non pensa più di spararsi, cerca affannosamente la bambina che ha gridato, la cerca per tutte le vie di Pietroburgo, vuole riscattarsi. Il male non sparisce e ritorna, tragedia implacabile anche dopo il volo emozionante e metafisico, ma c’è, in quel ritorno alla terra, il segno di una nuova speranza, di una luminosa utopia.

 

Nori scrive così, della lingua dei romanzi di Dostoevskij: «Questa è la lingua romanzesca, che non è nemmeno la sua, è la lingua delle fiere, dei saltimbanchi, degli ubriachi, dei bottegai, dei mercanti, del mondo» (SA, p. 189). Tolstoi ha torto a dire che la sua lingua è orrenda, commenta ancora Nori. Nella sua conversazione-romanzo, Sanguina ancora, vengono convocati molti fantasmi, da Puskin a Gogol’, e Fëdor non appare come un letterato dei suoi tempi ma come una creatura repulsiva e imperfetta, che si carica della responsabilità di svelare il lato inconfessato di ognuno di noi, e così spacca la letteratura e ne fa un antro di ombre. «Già Svidrigajlov, in Delitto e castigo, aveva osservato che per lui l’eternità si presentava come una stanza da bagno piena di ragnatele» (K., p. 33).

 

 

Dopo le angosce di Dostoevskij niente è uguale a com’era stato. Il byt della pesante vita quotidiana è anche il bytye della trasfigurazione spirituale, della leggerezza (SR, p. 111). Tutto è possibile, in questa polifonia di voci, di temi, di storie, dalla visione del demone di Ivan Karamazov alla bimba che punta l’indice accusatore contro il perverso Stavrogin. Nori, da “viaggiatore incantato” delle lettere russe, percorre la sua opera e la sua vita con l’emozione beffarda di chi non smette di percepire il “tremendo” di Dostoevskij ma anche la sua atroce ilarità, che i Disastri dell’amato e tragico Charms, da lui stesso tradotto, evocano come eco remota.

Kirillov, Dmitrj, Ivan, Raskòlnikov, Smerdjakov, gli eroi di Dostoevskij, emblemi di disordini mentali, non sono mai allegorie astratte ma esseri verissimi, ossessioni incarnate in persone.

 

L’elegante Nabokov non poteva non detestare un simile scrittore. Ma Dostoevskij sa quello che vuole. Scrive in modo sfrenato, avversario anche fisiologico di ogni statica bellezza: la patologia epilettica è un accesso che travolge. Nori lo segue passo dopo passo, mescolando opere e biografia, dalla condanna a morte alla mancata esecuzione alla deportazione in Siberia alla malattia alla convulsa composizione dei romanzi, restituendoci un Dostoevskij mis a nu. L’ossessione che pervade la sua scrittura ci avverte che il romanzo tradizionale smette di essere una nitida struttura formale ma diventa una cosa torbida e informe, traversata dal fiume in piena di dialoghi forsennati, un organismo che “sanguina ancora”.

Il tema del sangue emerge con nettezza da uno dei racconti più perfetti dello scrittore russo, La mite, dove la moglie del protagonista, per ragioni non chiarite, si getta nel vuoto e muore. La narrazione è affidata alla voce del marito sgomento: «Mi rammento soltanto che, quando entrai dal portone, lei era ancora calda. Il peggio era che tutti mi guardavano. Prima gridavano, ma poi a un tratto tutti tacquero e mi fecero largo e... lei se ne stava lì, distesa con l’immagine. Ricordo come in sogno che mi accostai in silenzio e la guardai a lungo, tutti mi vennero intorno e mi dicevano qualcosa. C’era lì anche Lukerja, ma non la vidi. Lei dice che mi ha parlato. Ricordo soltanto quel tipo vestito da borghese che mi gridava “un goccio di sangue, le è uscito dalla bocca un goccio, soltanto un goccio” e mi indicava il sangue lì sul lastrico. Io – mi pare – toccai il sangue con un dito, me lo sporcai e mi misi a guardare il dito (questo me lo ricordo), e quello continuava “un goccio, solo un goccio…”» (RS, p. 342). Questo dettaglio è un incubo visivo che ci persuade per la sua tenace intensità.

 

Uno fra i romanzi prediletti da Nori è L’idiota. Lo stesso Dostoevskij, in una lettera ad Arkadj Grigor’evic Kovner, commenta: «Lei dà un giudizio sui miei romanzi. Su questo argomento, naturalmente, non è il caso che io mi metta a discutere con Lei, ma mi è piaciuto il fatto che Lei consideri L’idiota il migliore di tutti. S’immagini che un tale giudizio l’ho ascoltato almeno cinquanta volte, se non più (LC, p. 139). Di L’idiota Nori si spinge a scrivere: «È come quando hai una fidanzata nuova della quale ti sembra di essere molto innamorato, ed è difficile parlare della persona di cui sei innamorato, hai paura che la gente non capisca come è bella, hai paura che pensi che sei tu, che sei innamorato, invece tu sai che non sei tu, che sei innamorato, cioè tu sei, innamorato, ma non la vedi bella perché ti sei innamorato, ti sei innamorato perché è bella. È facile. Ecco, la stessa cosa, io con L’idiota, Ho paura, a parlarne. Che non si capisca come è bello» (SA, p. 243). Un sorprendente “innamorato” di L’idiota è Marcel Proust.

 

Il suo interesse è confermato, oltre che da alcune pagine della Recherche du temps perdu, da numerose testimonianze, in cui si riferisce che a Proust piaceva imparare a memoria alcuni brani del romanzo proprio nel tentativo di catturare il difficile segreto di quelle pagine. In una lettera del 22 giugno 1920 scrive: «Se voi mi domandaste qual è il più bel romanzo ch’io conosca, sarei senz’altro assai in difficoltà a rispondervi. Forse darei il primo posto a L’idiota di Dostoevskij. Ora, io ignoro le qualità e i difetti del suo stile, avendolo letto solo in terribili traduzioni, so solo (...) che è un romanzo scritto in profondità, dove le leggi generali comandano sui fenomeni particolari» (CP, p. 317). L’ambigua bellezza dei personaggi dostoevskiani, agli occhi di Proust nasce da una zona d’ombra nel loro comportamento. André Gide, in un discorso su Dostoevskij noto a Proust, aveva detto che lo scrittore russo «non dipinge mai, per così dire, le grandi figure in primo piano, ma lascia che siano loro a dipingersi da sole, nel corso del libro, in un ritratto continuamente mutevole, mai compiuto. I suoi personaggi rimangono sempre in formazione, sempre mal liberati dall’ombra» (DA, p. 73). Un ruolo essenziale nel determinare l’impressione di Proust va attribuito a una serie di procedimenti formali innovativi introdotti da Dostoevskij nell’Idiota in maniera esplicita: la drastica riduzione di informazione del narratore sui personaggi della storia. I suoi personaggi sbottano, imprecano, gridano, ma non si sa mai per quale ragione.

 

Alla fine della storia tutto è accaduto, ma come un incubo inspiegabile A partire dall’Idiota, e sempre di più nei romanzi successivi, Dostoevskij segue il comportamento dei suoi eroi come un sonnambulo inconsapevole. Anziché essere al di sopra dei personaggi, perché conosce le loro storie, è vicino a loro come un testimone ansioso, perplesso, inquieto quanto noi. Bachtin parla di una "narrazione senza prospettiva", intendendo che il narratore ha un punto di vista mobile ed estremamente ravvicinato rispetto ai personaggi. L’assenza di una prospettiva distanziata determina una serie di procedimenti narrativi, di cui il più frequente è la fusione del punto di vista del narratore con quello del personaggio. Il lettore è gettato nel guado della storia senza orientamenti sicuri e questo gli consente di commuoversi, di esasperarsi con loro proprio mentre le cose accadono, nel tempo reale (ma irreale) della sua lettura.

Forse Dostoevskij è il primo autore che sia classico e forsennato insieme. Nori lo intuisce, percorrendolo interamente, come un tragico parossismo che ha qualcosa del carnevale e della malattia. Una malattia dell’anima. Come intuisce Virginia Woolf: «Chiunque voi siate, siete un contenitore di questo liquido perplesso, questa materia nebulosa, in fermento, pregiata: l’anima.

 

L’anima non è trattenuta da barriere. Tracima, dilaga, si mescola con le anime di altri […] perché niente è al dl fuori della provincia di Dostoevskij, che quando è stanco non si ferma, prosegue. Non può contenersi. E riversa su di noi questa sostanza calda, infuocata, varia, meravigliosa, terribile, opprimente – l’anima umana» (AR, p. 49).

Forse, è il caso di azzardarci a pensarlo, tutti i classici “sanguinano ancora” perché ci sono sempre presenti, perché non smettono di essere attuali. Per questo leggiamo Delitto e Castigo, Don Chisciotte, l’Odissea, Moby Dick, come se fossero stati scritti la notte prima di quella in cui noi afferriamo il libro in mano e cominciamo a leggerlo, irreparabilmente sedotti. Siamo tutti sedotti dall’increscioso, tormentato, prolisso Fëdor, che però sa bene di sfiorare la sfera eretica del riso. Citando una lettera alla nipote Sof’ja Ivanova del 1 gennaio 1868, Nori evoca così il suo pensiero: «E dice che, a parte Cristo, l’unica figura bellissima che gli viene in mente è il don Chisciotte, ma che lui, Don Chisciotte, è bello perché è ridicolo» (SA, p. 242). Sembra di sentire ancora la voce tragica dello scrittore quando beffardo osserva: «In seguito è comparsa la maschera irridente di Gogol’, in cui il riso ha assunto una potenza terribile, quale mai fino allora aveva raggiunto in nessun paese, in nessuna letteratura fin da quando la terra è stata creata» (S, p. 125)

 

Libri consultati

Roberto Calasso, K., Adelphi, Milano, 2005.

Fëdor Dostoevskij, Il romanzo del sottosuolo. Racconti, Milano, Feltrinelli, 1974, (RS).

Fëdor Dostoevskij, Dostoevskij inedito, Quaderni e taccuini 1960-1981, Vallecchi, 1980 (QT).

Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, Feltrinelli, 1991 (LC).

Fëdor Dostoevskij, Saggi, Feltrinelli, Milano, 1997 (S).

Francesca Legittimo, La sfinge russa, Hoepli editore, 2021 (SR).

André Gide, Dostoevskij. Articles et causeries, Edizioni Plon, 1923 (DA).

Paolo Nori, Sanguina ancora. L’incredibile vita di F. Dostoevskij, Mondadori, 2021 (SA).

Marcel Proust, Correspondance, I, Edizioni Plon, 1991 (CP).

Virginia Woolf, L’anima russa. Dostoevskij, Čechov, Tolstoi, Elliot, 2015 (AR).

 

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